Quattro modelli di futuro
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Quattro modelli di futuro

Peter Frase

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Quattro modelli di futuro

Peter Frase

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Poche volte nella storia l'uomo si è trovato di fronte a un domani così incerto e dalle tinte così fosche. Tutti ci chiediamo: cosa succederà? Peter Frase risponde a questa domanda con un libro energico, polemico, radicale, profondo e visionario. Quattro modelli di futuro ha il raro merito di essere, in poche pagine, insieme una lettura illuminante e un gesto politico in grado di tracciare un percorso.Dispiegando gli strumenti delle scienze sociali e della finzione speculativa, Frase si chiede quale sarà l'impatto dell'automazione e come affronteremo la scarsità di risorse e le disuguaglianze sociali; e in un tour vorticoso attraverso fantascienza, teoria sociale e nuove tecnologie, propone quattro possibili modelli, alla ricerca della giusta misura tra promesse di benessere possibile e la paura della barbarie, sociale ed economica, in cui potremmo cadere.

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COMUNISMO: UGUAGLIANZA E ABBONDANZA

Il primo romanzo di Kurt Vonnegut, Piano meccanico, descrive una società che in superficie sembra un’utopia del postlavoro in cui le macchine hanno liberato gli umani dalla fatica. Per Vonnegut, tuttavia, non si tratta affatto di un’utopia. Nel futuro delineato nel romanzo la produzione è quasi interamente portata avanti dalle macchine, supervisionate da una piccola élite tecnocratica. Tutti gli altri sono essenzialmente superflui sotto il profilo economico, ma la società è abbastanza ricca da offrire a ognuno una vita confortevole.
A un certo punto Vonnegut si riferisce a questa condizione definendola una “seconda infanzia”, e la considera non una conquista ma un orrore. Per lui, e per il protagonista del romanzo, il pericolo principale di una società automatizzata è il fatto che priva la vita di ogni significato e di ogni dignità. Se la maggior parte delle persone non è direttamente coinvolta nella produzione dei beni di prima necessità, sembra pensare, cadrà inevitabilmente nel torpore e nella disperazione.
Per alcuni versi il romanzo, scritto nel 1952, è chiaramente datato. Anzitutto, quella era un’epoca di elevata industrializzazione sia nel mondo capitalista sia nel mondo comunista, basata su fabbriche gigantesche e sulla catena di montaggio. E senza dubbio l’economia di oggi dipende ancora da questo tipo di produzione su vasta scala, più di quanto molti si rendano conto. Ma Vonnegut non prende in considerazione la possibilità che la produzione possa diventare meno centralizzata – e quindi meno dipendente da un’élite di dirigenti – senza ricadere in forme meno efficienti, ad alto impiego di manodopera. Tecnologie come la stampa 3D (tanto quanto il personal computer) si muovono in quella direzione.
Inoltre, l’idea che il significato sociale debba derivare dal lavoro “produttivo” e salariato è profondamente radicata nelle idee patriarcali dell’uomo che porta a casa il pane per la sua famiglia. In tutto il libro c’è una costante fusione tra l’attività premiata dal prestigio sociale – che viene considerata un “lavoro” e remunerata con uno stipendio – e l’attività materialmente necessaria, ovvero quella che perpetua la società e garantisce le condizioni di vita. Nel romanzo, le donne continuano a svolgere le attività non retribuite di cura materiale ed emotiva che da sempre ci si aspetta da loro, e sembra che a Vonnegut non importi se per loro questo sia o meno fonte di significato.
Il protagonista di Piano meccanico è Paul Proteus, stimato dirigente d’industria che diventa un critico disilluso del sistema. Alla fine del libro, contribuisce a stilare un manifesto che invita a ridurre l’automazione perché «gli uomini, per loro stessa natura, non possono essere felici se non si impegnano in attività che li fanno sentire utili».1 Ma in tutto il romanzo è Anita, la moglie di Paul, a essere impegnata in un’attività apparentemente utile, ovvero compensare l’inettitudine sociale del marito e sostenere la sua fiducia in se stesso. In risposta all’incapacità di Paul di interpretare correttamente i segnali di un suo superiore riguardo a un nuovo incarico, Anita sostiene che le donne «hanno intuizioni che gli uomini non hanno».2 Se gli uomini riuscissero a far proprie simili intuizioni, forse imparerebbero a svolgere lavori utili che non possono ancora essere automatizzati. Ma queste capacità non rientrano nell’idea di lavoro produttivo che Vonnegut associa a un’umanità, o quanto meno a una virilità, compiuta. Abbiamo così un’indicazione di quello che sta succedendo davvero e che Vonnegut ci ha già detto: gli uomini non vogliono essere davvero utili, vogliono soltanto sentirsi utili. Il problema dell’automazione si rivela una crisi della sensibilità maschile.
Forse è per questo che tante delle ansie sull’automazione di Vonnegut rimangono ancora oggi irrisolte e affliggono sia i nostri dibattiti sull’economia sia la nostra cultura popolare. Anche quando lo detestiamo, a volte facciamo comunque affidamento sul nostro lavoro come fonte d’identità e di valore sociale. Molti non riescono a immaginare un mondo oltre il lavoro che non sia fatto di dissipazione e di ignavia. Il film d’animazione del 2008 WALLE, per esempio, ritrae un mondo in cui tutti gli esseri umani hanno abbandonato una Terra in rovina e conducono una vita di svaghi dentro navicelle spaziali completamente automatizzate. Ma l’amichevole protagonista del film è un robot senziente, rimasto sulla Terra a raccogliere immondizia: in altre parole, un lavoratore. Gli esseri umani, invece, sono grotteschi, parodie obese e intorpidite del consumismo.
Per immaginare un mondo della postscarsità come utopia, quindi, è necessario immaginare quali possano essere le fonti di significato e di motivazione in un mondo in cui non è il lavoro retribuito a definirci. Anzitutto, però, vediamo come questa società comunista si colloca sui nostri assi di gerarchia contro uguaglianza e di scarsità contro abbondanza.

Le cucine dell’avvenire

Pur essendo noto soprattutto come l’autore del Manifesto del partito comunista, Karl Marx era restio a soffermarsi sulle caratteristiche della società comunista. A volte parlava del periodo di transizione socialista, in cui i lavoratori avrebbero preso il potere e diretto gli ingranaggi esistenti della produzione, ma non era questo il suo obiettivo politico finale. Quell’obiettivo era il comunismo, qualcosa che trascendeva lavoro e tempo libero, qualcosa che andava ben oltre il mondo del lavoro come lo conosciamo. Ma svelare troppo le caratteristiche di un’eventuale società comunista, pensava, era uno sciocco esercizio di scrittura di ricette «per la trattoria dell’avvenire».3 La storia era fatta dai movimenti di massa, non dai teorici in poltrona.
Ci sono momenti, tuttavia, in cui Marx si concede di speculare in termini più generali. Nel terzo libro del Capitale distingue tra un «regno della necessità» e un «regno della libertà». Nel regno della necessità dobbiamo «lottare con la Natura per soddisfare i [nostri] bisogni, per conservare e riprodurre la [nostra] vita» attraverso il lavoro manuale della produzione.4 Questo regno della necessità, dice Marx, esiste «in ogni forma di società e in tutti i modi di produzione possibili», presumibilmente anche nel socialismo.5 Quello che distingue il socialismo dal capitalismo, pertanto, è che nel primo la produzione viene pianificata razionalmente e organizzata democraticamente, anziché agire in base ai capricci del capitalista o del mercato. Per Marx, tuttavia, questo livello di sviluppo sociale era soltanto una precondizione per «lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso; il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulla base di quel regno della necessità».6
Questo breve passaggio è importante perché propone un approccio alla politica postcapitalista totalmente diverso da quello che è stato insegnato a molti di noi. Chi ha conosciuto Marx in un’aula probabilmente ha sentito dire che venerava il lavoro ed era convinto che gli esseri umani si definissero e si realizzassero per davvero soltanto lavorando. E in alcuni punti dice una cosa simile, anche se di solito sembra riferirsi al valore di un’attività utile in generale piuttosto che al fenomeno più ristretto di fare qualcosa per qualcuno in cambio di un compenso.
Ma nel passaggio sopra ricordato Marx sta dicendo una cosa diversa: il lavoro, in tutta la storia dell’umanità, è stato una spiacevole necessità. È importante tenere le luci accese, e a volte per farlo è necessario lavorare, ma non è il fatto di tenere le luci accese a renderci umani. Si tratta soltanto di una necessità che possiamo e dobbiamo trascendere se vogliamo essere davvero liberi. La libertà comincia dove finisce il lavoro: il regno della libertà è fuori orario, nei weekend, in vacanza, e non sul lavoro. E questo resta vero se si lavora per un padrone capitalista o per una cooperativa di lavoratori. Lo spazio del lavoro è comunque il regno della necessità e non della libertà.
Altrove Marx ipotizza persino che un giorno riusciremo a liberarci del tutto dal regno della necessità. Nella Critica del programma di Gotha scrive:
In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto di lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo generale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le fonti delle ricchezze sociali scorrono in tutta la loro pienezza, – solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni! 7
Siamo talmente assuefatti ai rapporti di produzione capitalisti che ci è difficile anche solo immaginare individui che non siano subordinati alla “divisione del lavoro”. Siamo abituati ad avere capi che ideano piani e poi ci danno istruzioni su come portarli a termine; Marx sta dicendo che è possibile cancellare le barriere tra chi fa piani per un proprio vantaggio e chi li porta a termine, il che ovviamente significa cancellare la distinzione tra chi dirige l’impresa e chi la fa funzionare.
Ma significa anche qualcosa di ancor più radicale: cancellare la distinzione tra cosa rientra nella definizione di impresa e cosa rientra in quella di attività di svago collettivo. Solo in questa situazione potremmo scoprire che «il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita». In questo caso, il lavoro non sarebbe più lavoro, sarebbe quello che scegliamo di fare del nostro tempo libero. Poi potremmo tutti obbedire all’ingiunzione «fate quello che amate», non come falsa scusa per aver accettato lo sfruttamento ma come descrizione reale dello stato dell’esistenza. Questo è il Marx filosofo “fattone”: fai quello che senti di fare, amico (ognuno secondo le sue capacità), e tutto andrà per il meglio (a ognuno secondo i suoi bisogni).
Spesso i detrattori di Marx hanno usato questo passaggio contro di lui, facendone il ritratto di un’utopia completamente irrealizzabile. Quale società potrebbe essere tanto produttiva da liberare l’umanità dalla necessità di svolgere qualche lavoro non volontario e sgradevole? Nel capitolo introduttivo veniva ipotizzata la possibilità di un’automazione diffusa, che consentirebbe una simile liberazione, o quanto meno vi si avvicinerebbe, sempre che si trovi un modo per risolvere la necessità di garantire risorse ed energia senza provocare catastrofici danni ecologici.
I recenti sviluppi tecnologici non riguardano soltanto la produzione di beni, ma anche la generazione dell’energia necessaria a far funzionare le fabbriche automatiche e le stampanti 3D del futuro. Pertanto un possibile futuro di postscarsità coniuga una tecnologia con minor impiego di forza lavoro e un’alternativa all’attuale regime energetico, limitato sia dalla scarsità materiale sia dalla natura distruttiva dei combustibili fossili nei confronti dell’ambiente. Non ci sono garanzie in tal senso, ma alcuni indicatori lasciano sperare nella nostra capacità di stabilizzare il clima, trovare fonti di energia pulite e usare saggiamente le risorse. Ne discuteremo più approfonditamente nel capitolo 3.
Risolvendo il problema della scarsità, però, ci ritroveremmo tutti a oziare nella dissipazione e nel torpore come in WALLE? Non se, come scriveva Marx, «il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita». Qualsiasi attività e progetto dovessimo intraprendere, vi prenderemmo parte perché li riteniamo gratificanti in sé, non perché abbiamo bisogno di uno stipendio o dobbiamo dare le nostre ore mensili alla cooperativa. In molte zone del mondo si tratta di uno scenario plausibile, considerando che le decisioni sul lavoro sono già guidate da considerazioni non materiali per chi è sufficientemente privilegiato da poter scegliere: milioni di persone decidono di fare gli insegnanti o gli assistenti sociali, o fondano piccole aziende di agricoltura biologica, pur avendo la possibilità di intraprendere carriere molto più redditizie.
Oggi la fine del lavoro salariato può forse sembrare un sogno lontano, ma in passato era il sogno della sinistra. Il movimento dei lavoratori chiedeva la riduzione dell’orario, più che un aumento di stipendio.
Le persone si aspettavano che il futuro assomigliasse al cartone animato I pronipoti, il cui protagonista lavora due ore la settimana, e si preoccupavano di cosa avrebbero fatto una volta liberate dal lavoro. Nel saggio Possibilità economiche per i nostri nipoti, John Maynard Keynes predisse che nel giro di poche generazioni:
L’uomo si troverà ad affrontare il problema più serio, e meno transitorio – come sfruttare la libertà dalle pressioni economiche, come occupare il tempo che la tecnica e gli interessi composti gli avranno regalato, come vivere in modo saggio, piacevole, e salutare.8
E in una discussione del 1956 il filosofo marxista Max Horkheimer esordiva facendo notare con disinvoltura al compagno Theodor Adorno che «oggigiorno abbiamo forze produttive a sufficienza; è ovvio che potremmo rifornire il mondo intero di merci e poi tentare di abolire il lavoro come necessità per gli esseri umani».9

Lavoro e significato

Superare il lavoro salariato sot...

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