Lo stile dell'abuso
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Lo stile dell'abuso

Violenza domestica e linguaggio

Raffaella Scarpa

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Lo stile dell'abuso

Violenza domestica e linguaggio

Raffaella Scarpa

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Tra i tanti punti di vista dai quali si analizza il fenomeno della violenza domestica nessuno è stato più sottovalutato del linguaggio. Eppure, l'uso delle parole, la loro combinazione, lo "stile del discorso" costituiscono invece il mezzo fondamentale di cui l'abusante si avvale per ridurre e mantenere la donna in uno stato di continua soggezione e soccombenza. Attraverso una trattazione che ridiscute criticamente i concetti di potere e violenza a partire dal loro rapporto con la lingua e lo studio di un ampio corpus di casi raccolti in più di vent'anni di ricerche, l'autrice ridefinisce la violenza domestica elaborando nuove categorie interpretative, ne illustra i meccanismi occulti ancora ignoti e descrive per la prima volta il complesso sistema linguistico che sta alla sua base. Dimostrandoci che l'analisi linguistica dello "stile dell'abuso" non è altro che una "macchina della verità".

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Information

Publisher
Treccani
Year
2021
ISBN
9788812009091

1

POTERE, VIOLENZA, LINGUAGGIO

Esiste un paradosso costitutivo alla base della vasta letteratura che riguarda la violenza domestica: dare per assodato che i codici comportamentali ed espressivi di quella che è stata definita la peggiore tra le «molestie morali»1 siano riconducibili all’ambito delle condotte violente – atti per definizione manifesti, impetuosi, incontrollati, dunque incontrovertibili – e, allo stesso tempo, caratterizzare l’abuso domestico come un fenomeno sotterraneo, ambiguo, bifido, invisibile ai limiti della indiscernibilità. Di più: nei racconti d’abuso, fra i dati più mascroscopici, c’è proprio la difficoltà, mostrata dalla stessa vittima, di prendere atto della reale natura dell’esperienza vissuta, anche nel caso di percosse o altre manifestazioni aggressive sovra-evidenti; la conferma circa la dispercezione dell’abusata rispetto alla violenza subita – trascorsa o in atto – è resa da operatrici e operatori impegnati nei centri antiviolenza, giuristi, terapeuti, criminologi, ed è anzi proprio tale difficoltà di attribuzione e giudizio il primo degli ostacoli da demolire per una assunzione dei dati di realtà relativi alla relazione d’abuso. Come se la cultura intorno a quell’arcipelago di condotte che chiamiamo “violenza domestica” fosse più il prodotto di coazioni dell’immaginario, riverberi reattivi ed emotivi che il frutto di una compiuta e profonda interpretazione. Riflesso di questo stato di cose, l’imprudenza con la quale sono impiegate etichette, pseudo-definizioni, slogan, comprese le stesse immagini trasmesse dai media per raffigurare la violenza sulle donne, incluse quelle relative alle campagne di sensibilizzazione e prevenzione2, che ne restituiscono un quadro falsato. Di tale distorsione si sottostimano le conseguenze, ovvero la diffusione di idee, concetti, immagini scollati e incongrui rispetto alla realtà dei fatti poiché l’imprudenza di cui parlo genera agenti inquinanti, propaga vulgate scorrette piuttosto che puntare al centro delle questioni snebbiandole: promuovere l’interesse per la comprensione profonda dei fenomeni come mossa propedeutica a ogni ragionamento, cura, opposizione, lotta, militanza è una postura estranea ai paradigmi culturali in atto, tendenti più al problem solving, possibilmente istantaneo, che all’euristica. Questo stato di cose ha prodotto, intorno al tema della violenza domestica, una cultura disorientata, distorcente e soprattutto inefficace riguardo a un obiettivo fondamentale; la comprensione reale del fenomeno come passaggio obbligato per la sua rappresentazione.
Le ragioni, a mio parere, che fondano il paradosso di un comportamento che è violento ma, insieme, non chiaramente identificabile sono essenzialmente due: l’assegnazione dogmatica della violenza domestica e di tutte le sue manifestazioni all’ambito delle condotte violente, prescindendo da una riflessione accurata, invece, su quali istanze di potere rappresentino il vero movente delle relazioni d’abuso; la sottostima, sino alla totale omissione nei quadri descrittivi, del ruolo svolto dal linguaggio in tali relazioni. In altre parole, se invece di una rappresentazione irrazionale ed emotiva, sfocata e fosca, che fa appello alla nozione di violenza, ci si riferisse all’abuso domestico come a una tattica fredda, a una strategia di potere mirata ad assoggettare, nella quale quello che comunemente si identifica come violenza è soltanto uno degli strumenti di intimidazione, offesa e asservimento; se poi, di questa strategia di potere, si volessero comprendere oltre che le tecniche, anche le ragioni evitando di obnubilarle definendole inspiegabili oppure, peggio, patologizzandole o ideologizzandole; se, ancora, si decidesse di considerare il linguaggio non solo uno strumento di potere ma il potere stesso3, assumendo che ogni subordinazione è indotta anche – talvolta soltanto – per via linguistica; se, da ultimo, le ragioni profonde dell’assoggettamento fossero decrittabili proprio attraverso l’indagine dello stile, lo spazio dove aggalla la soggettività, le istanze più profonde dell’umano, anche al di là delle intenzioni della voce che parla o della mano che scrive, allora tutto diventerebbe più chiaro e il potere del linguaggio – potere di offesa e difesa – riconosciuto e assodato una volta per tutte. Preliminarmente, considerando appunto produttivo per la comprensione del fenomeno reputare l’abuso domestico una specifica forma di potere che tra i suoi mezzi di espressione privilegiati ha il linguaggio, occorrerà rileggere criticamente i concetti di potere e violenza e riflettere sulla relazione che il linguaggio stabilisce con essi.
La verità cruciale e mai abbastanza ribadita che concerne le teorie sui rapporti di forza4 è che esse si costituiscono innanzitutto come un lungo avvicendarsi di processi di legittimazione5. Vale a dire che nel corso della storia le riflessioni intorno alle forme di potere, rispondendo alla domanda filosofica per eccellenza “che cos’è?”, hanno avuto come istanza primaria la volontà di comprendere l’essenza – il principio, la sostanza –, di tracciarne la genesi, di descrivere le condizioni adatte all’instaurarsi di stati di dominio, stabilendo anche il limite tra il concesso e il vietato, distinguendo ambiti di pertinenza, opponendo dominanti a soggiogati, insomma dettagliando progressivamente, del potere, una vera e propria legislazione interna.
Formalizzare la normativa che regola un fenomeno significa accreditarla: o funzionali alla messa in forma di un prototipo descrittivo-prescrittivo che rappresenti presupposti, natura, struttura delle relazioni di forza (la codificazione dell’ordine politico conforme all’Idea di buon governo in Platone, la descrizione della comunità politica come luogo di realizzazione del potere inteso come fatto naturale di Aristotele, la sovranità come pervasivo principio costituente per Hobbes, la funzione arbitrale del potere in Locke e si potrebbe naturalmente continuare affastellando sistemi che, nella storia del pensiero occidentale, hanno centralizzato comando, governo, sovranità6) o mosse da un intendimento non così unitario e totalizzante (faccio soltanto due esempi tra le modalità eccentriche: la domanda circoscritta ma pressante di Václav Havel che si interroga sulle possibilità di azione dei soggiogati – e dunque complici e conniventi, poiché il potere cresce laddove trova omertosa soccombenza – all’interno dei sistemi totalitari e poi dopo il loro crollo, descrivendo così la valenza politica dei sottomessi e le loro peculiari, residue ma sorprendenti possibilità di esercizio dell’autodeterminazione7; l’archeologia del sapere di Simone Weil che interpreta la storia dell’attualità a partire dalle logiche e dalle modalità di esercizio del potere che strutturano il plot dell’Iliade8), le teorie sul potere hanno invariabilmente mirato a rappresentarlo come principio permanente, «oggetto costituente»9, modellizzandolo, accertandone le regole (come si diceva: pre-condizioni, campi di azione, delimitazioni tra il possibile e l’interdetto, partizione tra sovrastanti e soccombenti e così via) e legittimandole come effettive10.
La tipicità di una prassi teoretica che ha riconosciuto il potere e le sue leggi come, di fatto, lecitamente esistenti ha indotto una sorta di tacita acquiescenza rispetto alle dinamiche che strutturano i rapporti di forza assumendole come un aspetto ineludibile delle pratiche di vita e ha favorito anche: a) la costituzione di una nozione comune e diffusa di potere come principio che struttura l’organismo sociale non nella sua totalità ma relativamente a specifici comparti (quello politico, tradizionalmente, ma poi anche – e sempre di più ultimamente – quello economico e mediatico); b) la presenza di un limite netto tra il permesso e il proibito relativamente alle condotte che caratterizzano i rapporti di forza e, di conseguenza, l’attribuzione di legalità o illegalità come criterio prevalente di giudizio; c) l’esistenza di un rapporto di opposizione tra dominanti e subalterni prescindendo da una strutturazione delle relazioni che non si identifichi nella contrapposizione; d) la normalizzazione dell’idea di potere come induttore e regolatore ineluttabile delle dinamiche che articolano particolari settori della vita.
Se le relazioni di potere sono così ordinariamente considerate il movente naturale e il meccanismo costituente di precise sfere dell’esistenza (e da questa settorializzazione derivano specifiche discipline al servizio della loro analisi11), se la soglia tra lecito e non consentito sembra essere protetta e garantita da convenzioni sociali e, in ultima istanza, dal diritto, se – ancora – la natura del rapporto tra sovrastanti e sottoposti è di separazione oppositiva (ragion per cui gli schieramenti dovrebbero essere anche facilmente distinguibili), l’esito ultimo sarà una nozione vulgata di potere come sistema ben funzionante la cui azione è accreditata, settorializzata, regolamentata e riconoscibile.
Quella appena descritta è però la versione istituzionalizzata del potere12 che si riproduce in modelli isomorfici13 e che volutamente lascia in ombra ampie zone nelle quali si articolano relazioni di forza non ancora chiaramente codificate, dalle quali non sono state derivate regole e per le quali il confine tra “servi e padroni” è tutt’altro che nitido14 (penso ai poteri sottotraccia e senza volto come la deresponsabilizzante e deumanizzata burocrazia, alla piazza, alla doxa, all’uomo-massa, alle dinamiche che stanno alla base di ogni logica territoriale, riconducibile all’identità o anche soltanto al senso di appartenenza, sino alle modellizzazioni delle pratiche di seduzione, dei canoni estetici e, più in generale, alla latente istanza di potere che sta alla base delle più innocue e consuetudinarie relazioni umane).
Se davvero alle ricerche sui principi egemonici ancora sfugge buona parte delle loro effettive realizzazioni, dovrebbe essere interesse prioritario di una nuova dottrina del potere l’impegno ad ampliarne e a complicarne la fenomenologia15 non fermandosi a una casistica d’ordinanza, ma facendo piuttosto emergere quello che delle sue manifestazioni resta sommerso, decrittando schemi di interazione ancora incogniti, mostrando le complessità intrinseche ai lacci che legano dominante a dominato e, soprattutto, estendendo la conoscenza ai codici di espressione che mediano il potere, il linguaggio prima di ogni altro16; insomma, a partire da queste riflessioni, «emerge […] l’esigenza di una nuova teoria critica del potere che indaghi le forme attuali dell’egemonia»17 e che ne descriva non tanto l’essenza quanto i dispositivi di funzionamento.
Proprio per mettere il linguaggio al centro delle questioni relative ai sistemi di potere, Franco Fortini asseverava che un uomo libero si riconosce da come chiede un bicchiere d’acqua a un cameriere, ponendo in piena luce almeno tre assunti imprescindibili: la funzione-detector dell’analisi linguistica o, in termini più generali, la rilevanza della sensibilità al linguaggio come strumento veritativo (se sono sensibile al linguaggio, se colgo e so interpretare quello che nell’uso della lingua non è programmabile, intenzionale, completamente controllabile come alcuni passaggi di registro, piccole oscillazioni e ambiguità semantiche, stereotipie, silenzi e pause, toni, timbri sono in possesso, né più né meno, di una macchina della verità: proprio attraverso quegli scarti minimi, posso comprendere la natura e i propositi di chi ho davanti possedendo una chiave di accesso privilegiata alla esplicitazione del mondo e uno straordinario strumento di interpretazione, critica e difesa); l’importanza capitale della lingua nell’esercizio del dominio, dalle sue forme assolute e rivelate sino a quella latente e connaturata nelle più comuni pratiche quotidiane (è con la lingua, innanzitutto, che sottometto, coarto, saboto, influenzo, plagio ed è sempre con la lingua che notifico ed evidenzio la mia posizione – sovrastante, soccombente, allineata – rispetto a quella del mio interlocutore); il linguaggio come spazio soggettivo di militanza per l’esercizio della libertà e per il sabotaggio della convenzione linguistica generata dalla propensione all’assoggettamento come forma di relazione (reversibilmente rispetto al punto precedente: se ho una possibilità di attivismo, di emancipazione e libertà, come diceva Fortini, questo avviene in primo luogo nella lingua e attraverso essa poiché è il luogo dove le istanze più profonde del soggetto emergono ma, anche, quello nel quale possono essere convertite).
Un esempio di interpretazione di tratti linguistici come sintomi del potere in atto lo troviamo negli scritti di Simone Weil sui rapporti di forza rappresentati nell’Iliade, nei quali l’autrice mostra come la prima e più efficace azione di lotta contro l’esercizio del dominio sia proprio un impegno – una militanza – di tipo linguistico:
Per i nostri contemporanei il ruolo di Elena spetta a parole ornate di maiuscole. Se afferriamo una di queste parole rigonfie di sangue e lacrime per cercare di stringerla la troveremo vuota. Le parole che hanno un senso e un contenuto non sono parole assassine. Se talora una di esse è connessa a uno spargimento di sangue lo è più per disgrazia che per predestinazione e si tratta in genere di azioni limitate ed efficaci. Ma mettiamo la maiuscola a parole prive di significato e, alla prima occasione, gli uomini spargeranno fiumi di sangue, a furia di ripeterle accumuleranno rovine su rovine, senza mai ottenere davvero qualcosa di corrispondente; niente di reale può davvero corrispondere a tali parole, poiché non significano niente. Il successo coinciderà esclusivamente con l’annientamento di uomini che lottano in nome di parole diverse. Questo perché un’altra caratteristica di tali parole è che esistono per coppie antagoniste. Intendiamoci, non sempre esse sono prive di senso di per sé: alcune di loro ce l’avrebbero se solo ci prendessimo la briga di definirle come si deve. In tal modo, però, perderebbero la maiuscola e non potrebbero più fungere da vessillo né trovare posto tra le tintinnanti parole d’ordine nemiche; non sarebbero che un tramite per cogliere la realtà concreta, o un obiettivo concreto, o un metodo d’azione. Chiarire i concetti, screditare le parole congenitamente vuote, definire l’uso di altre attraverso analisi precise, per quanto possa sembrare strano, servirebbe a salvare delle vite umane. Ma sembra uno sforzo inadatto alla nostra epoca […]. Nella nostra mente non destiniamo alla superstizione nessun posto di riguardo comparabile a quello che destinavamo alla mitologia greca e la superstizione si vendica invadendo sotto le celate spoglie di un lessico astratto tutto l’universo del pensiero […]. Per limitarci alle questioni umane, il nostro universo politico è popolato esclusivamente da miti e mostri. Conosciamo solo entità, assoluti, come dimostrano tutti i termin...

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