1
POTERE, VIOLENZA, LINGUAGGIO
Esiste un paradosso costitutivo alla base della vasta letteratura che riguarda la violenza domestica: dare per assodato che i codici comportamentali ed espressivi di quella che Ăš stata definita la peggiore tra le «molestie morali»1 siano riconducibili allâambito delle condotte violente â atti per definizione manifesti, impetuosi, incontrollati, dunque incontrovertibili â e, allo stesso tempo, caratterizzare lâabuso domestico come un fenomeno sotterraneo, ambiguo, bifido, invisibile ai limiti della indiscernibilitĂ . Di piĂč: nei racconti dâabuso, fra i dati piĂč mascroscopici, câĂš proprio la difficoltĂ , mostrata dalla stessa vittima, di prendere atto della reale natura dellâesperienza vissuta, anche nel caso di percosse o altre manifestazioni aggressive sovra-evidenti; la conferma circa la dispercezione dellâabusata rispetto alla violenza subita â trascorsa o in atto â Ăš resa da operatrici e operatori impegnati nei centri antiviolenza, giuristi, terapeuti, criminologi, ed Ăš anzi proprio tale difficoltĂ di attribuzione e giudizio il primo degli ostacoli da demolire per una assunzione dei dati di realtĂ relativi alla relazione dâabuso. Come se la cultura intorno a quellâarcipelago di condotte che chiamiamo âviolenza domesticaâ fosse piĂč il prodotto di coazioni dellâimmaginario, riverberi reattivi ed emotivi che il frutto di una compiuta e profonda interpretazione. Riflesso di questo stato di cose, lâimprudenza con la quale sono impiegate etichette, pseudo-definizioni, slogan, comprese le stesse immagini trasmesse dai media per raffigurare la violenza sulle donne, incluse quelle relative alle campagne di sensibilizzazione e prevenzione2, che ne restituiscono un quadro falsato. Di tale distorsione si sottostimano le conseguenze, ovvero la diffusione di idee, concetti, immagini scollati e incongrui rispetto alla realtĂ dei fatti poichĂ© lâimprudenza di cui parlo genera agenti inquinanti, propaga vulgate scorrette piuttosto che puntare al centro delle questioni snebbiandole: promuovere lâinteresse per la comprensione profonda dei fenomeni come mossa propedeutica a ogni ragionamento, cura, opposizione, lotta, militanza Ăš una postura estranea ai paradigmi culturali in atto, tendenti piĂč al problem solving, possibilmente istantaneo, che allâeuristica. Questo stato di cose ha prodotto, intorno al tema della violenza domestica, una cultura disorientata, distorcente e soprattutto inefficace riguardo a un obiettivo fondamentale; la comprensione reale del fenomeno come passaggio obbligato per la sua rappresentazione.
Le ragioni, a mio parere, che fondano il paradosso di un comportamento che Ăš violento ma, insieme, non chiaramente identificabile sono essenzialmente due: lâassegnazione dogmatica della violenza domestica e di tutte le sue manifestazioni allâambito delle condotte violente, prescindendo da una riflessione accurata, invece, su quali istanze di potere rappresentino il vero movente delle relazioni dâabuso; la sottostima, sino alla totale omissione nei quadri descrittivi, del ruolo svolto dal linguaggio in tali relazioni. In altre parole, se invece di una rappresentazione irrazionale ed emotiva, sfocata e fosca, che fa appello alla nozione di violenza, ci si riferisse allâabuso domestico come a una tattica fredda, a una strategia di potere mirata ad assoggettare, nella quale quello che comunemente si identifica come violenza Ăš soltanto uno degli strumenti di intimidazione, offesa e asservimento; se poi, di questa strategia di potere, si volessero comprendere oltre che le tecniche, anche le ragioni evitando di obnubilarle definendole inspiegabili oppure, peggio, patologizzandole o ideologizzandole; se, ancora, si decidesse di considerare il linguaggio non solo uno strumento di potere ma il potere stesso3, assumendo che ogni subordinazione Ăš indotta anche â talvolta soltanto â per via linguistica; se, da ultimo, le ragioni profonde dellâassoggettamento fossero decrittabili proprio attraverso lâindagine dello stile, lo spazio dove aggalla la soggettivitĂ , le istanze piĂč profonde dellâumano, anche al di lĂ delle intenzioni della voce che parla o della mano che scrive, allora tutto diventerebbe piĂč chiaro e il potere del linguaggio â potere di offesa e difesa â riconosciuto e assodato una volta per tutte. Preliminarmente, considerando appunto produttivo per la comprensione del fenomeno reputare lâabuso domestico una specifica forma di potere che tra i suoi mezzi di espressione privilegiati ha il linguaggio, occorrerĂ rileggere criticamente i concetti di potere e violenza e riflettere sulla relazione che il linguaggio stabilisce con essi.
La veritĂ cruciale e mai abbastanza ribadita che concerne le teorie sui rapporti di forza4 Ăš che esse si costituiscono innanzitutto come un lungo avvicendarsi di processi di legittimazione5. Vale a dire che nel corso della storia le riflessioni intorno alle forme di potere, rispondendo alla domanda filosofica per eccellenza âche cosâĂš?â, hanno avuto come istanza primaria la volontĂ di comprendere lâessenza â il principio, la sostanza â, di tracciarne la genesi, di descrivere le condizioni adatte allâinstaurarsi di stati di dominio, stabilendo anche il limite tra il concesso e il vietato, distinguendo ambiti di pertinenza, opponendo dominanti a soggiogati, insomma dettagliando progressivamente, del potere, una vera e propria legislazione interna.
Formalizzare la normativa che regola un fenomeno significa accreditarla: o funzionali alla messa in forma di un prototipo descrittivo-prescrittivo che rappresenti presupposti, natura, struttura delle relazioni di forza (la codificazione dellâordine politico conforme allâIdea di buon governo in Platone, la descrizione della comunitĂ politica come luogo di realizzazione del potere inteso come fatto naturale di Aristotele, la sovranitĂ come pervasivo principio costituente per Hobbes, la funzione arbitrale del potere in Locke e si potrebbe naturalmente continuare affastellando sistemi che, nella storia del pensiero occidentale, hanno centralizzato comando, governo, sovranitĂ 6) o mosse da un intendimento non cosĂŹ unitario e totalizzante (faccio soltanto due esempi tra le modalitĂ eccentriche: la domanda circoscritta ma pressante di VĂĄclav Havel che si interroga sulle possibilitĂ di azione dei soggiogati â e dunque complici e conniventi, poichĂ© il potere cresce laddove trova omertosa soccombenza â allâinterno dei sistemi totalitari e poi dopo il loro crollo, descrivendo cosĂŹ la valenza politica dei sottomessi e le loro peculiari, residue ma sorprendenti possibilitĂ di esercizio dellâautodeterminazione7; lâarcheologia del sapere di Simone Weil che interpreta la storia dellâattualitĂ a partire dalle logiche e dalle modalitĂ di esercizio del potere che strutturano il plot dellâIliade8), le teorie sul potere hanno invariabilmente mirato a rappresentarlo come principio permanente, «oggetto costituente»9, modellizzandolo, accertandone le regole (come si diceva: pre-condizioni, campi di azione, delimitazioni tra il possibile e lâinterdetto, partizione tra sovrastanti e soccombenti e cosĂŹ via) e legittimandole come effettive10.
La tipicitĂ di una prassi teoretica che ha riconosciuto il potere e le sue leggi come, di fatto, lecitamente esistenti ha indotto una sorta di tacita acquiescenza rispetto alle dinamiche che strutturano i rapporti di forza assumendole come un aspetto ineludibile delle pratiche di vita e ha favorito anche: a) la costituzione di una nozione comune e diffusa di potere come principio che struttura lâorganismo sociale non nella sua totalitĂ ma relativamente a specifici comparti (quello politico, tradizionalmente, ma poi anche â e sempre di piĂč ultimamente â quello economico e mediatico); b) la presenza di un limite netto tra il permesso e il proibito relativamente alle condotte che caratterizzano i rapporti di forza e, di conseguenza, lâattribuzione di legalitĂ o illegalitĂ come criterio prevalente di giudizio; c) lâesistenza di un rapporto di opposizione tra dominanti e subalterni prescindendo da una strutturazione delle relazioni che non si identifichi nella contrapposizione; d) la normalizzazione dellâidea di potere come induttore e regolatore ineluttabile delle dinamiche che articolano particolari settori della vita.
Se le relazioni di potere sono cosĂŹ ordinariamente considerate il movente naturale e il meccanismo costituente di precise sfere dellâesistenza (e da questa settorializzazione derivano specifiche discipline al servizio della loro analisi11), se la soglia tra lecito e non consentito sembra essere protetta e garantita da convenzioni sociali e, in ultima istanza, dal diritto, se â ancora â la natura del rapporto tra sovrastanti e sottoposti Ăš di separazione oppositiva (ragion per cui gli schieramenti dovrebbero essere anche facilmente distinguibili), lâesito ultimo sarĂ una nozione vulgata di potere come sistema ben funzionante la cui azione Ăš accreditata, settorializzata, regolamentata e riconoscibile.
Quella appena descritta Ăš perĂČ la versione istituzionalizzata del potere12 che si riproduce in modelli isomorfici13 e che volutamente lascia in ombra ampie zone nelle quali si articolano relazioni di forza non ancora chiaramente codificate, dalle quali non sono state derivate regole e per le quali il confine tra âservi e padroniâ Ăš tuttâaltro che nitido14 (penso ai poteri sottotraccia e senza volto come la deresponsabilizzante e deumanizzata burocrazia, alla piazza, alla doxa, allâuomo-massa, alle dinamiche che stanno alla base di ogni logica territoriale, riconducibile allâidentitĂ o anche soltanto al senso di appartenenza, sino alle modellizzazioni delle pratiche di seduzione, dei canoni estetici e, piĂč in generale, alla latente istanza di potere che sta alla base delle piĂč innocue e consuetudinarie relazioni umane).
Se davvero alle ricerche sui principi egemonici ancora sfugge buona parte delle loro effettive realizzazioni, dovrebbe essere interesse prioritario di una nuova dottrina del potere lâimpegno ad ampliarne e a complicarne la fenomenologia15 non fermandosi a una casistica dâordinanza, ma facendo piuttosto emergere quello che delle sue manifestazioni resta sommerso, decrittando schemi di interazione ancora incogniti, mostrando le complessitĂ intrinseche ai lacci che legano dominante a dominato e, soprattutto, estendendo la conoscenza ai codici di espressione che mediano il potere, il linguaggio prima di ogni altro16; insomma, a partire da queste riflessioni, «emerge [âŠ] lâesigenza di una nuova teoria critica del potere che indaghi le forme attuali dellâegemonia»17 e che ne descriva non tanto lâessenza quanto i dispositivi di funzionamento.
Proprio per mettere il linguaggio al centro delle questioni relative ai sistemi di potere, Franco Fortini asseverava che un uomo libero si riconosce da come chiede un bicchiere dâacqua a un cameriere, ponendo in piena luce almeno tre assunti imprescindibili: la funzione-detector dellâanalisi linguistica o, in termini piĂč generali, la rilevanza della sensibilitĂ al linguaggio come strumento veritativo (se sono sensibile al linguaggio, se colgo e so interpretare quello che nellâuso della lingua non Ăš programmabile, intenzionale, completamente controllabile come alcuni passaggi di registro, piccole oscillazioni e ambiguitĂ semantiche, stereotipie, silenzi e pause, toni, timbri sono in possesso, nĂ© piĂč nĂ© meno, di una macchina della veritĂ : proprio attraverso quegli scarti minimi, posso comprendere la natura e i propositi di chi ho davanti possedendo una chiave di accesso privilegiata alla esplicitazione del mondo e uno straordinario strumento di interpretazione, critica e difesa); lâimportanza capitale della lingua nellâesercizio del dominio, dalle sue forme assolute e rivelate sino a quella latente e connaturata nelle piĂč comuni pratiche quotidiane (Ăš con la lingua, innanzitutto, che sottometto, coarto, saboto, influenzo, plagio ed Ăš sempre con la lingua che notifico ed evidenzio la mia posizione â sovrastante, soccombente, allineata â rispetto a quella del mio interlocutore); il linguaggio come spazio soggettivo di militanza per lâesercizio della libertĂ e per il sabotaggio della convenzione linguistica generata dalla propensione allâassoggettamento come forma di relazione (reversibilmente rispetto al punto precedente: se ho una possibilitĂ di attivismo, di emancipazione e libertĂ , come diceva Fortini, questo avviene in primo luogo nella lingua e attraverso essa poichĂ© Ăš il luogo dove le istanze piĂč profonde del soggetto emergono ma, anche, quello nel quale possono essere convertite).
Un esempio di interpretazione di tratti linguistici come sintomi del potere in atto lo troviamo negli scritti di Simone Weil sui rapporti di forza rappresentati nellâIliade, nei quali lâautrice mostra come la prima e piĂč efficace azione di lotta contro lâesercizio del dominio sia proprio un impegno â una militanza â di tipo linguistico:
Per i nostri contemporanei il ruolo di Elena spetta a parole ornate di maiuscole. Se afferriamo una di queste parole rigonfie di sangue e lacrime per cercare di stringerla la troveremo vuota. Le parole che hanno un senso e un contenuto non sono parole assassine. Se talora una di esse Ăš connessa a uno spargimento di sangue lo Ăš piĂč per disgrazia che per predestinazione e si tratta in genere di azioni limitate ed efficaci. Ma mettiamo la maiuscola a parole prive di significato e, alla prima occasione, gli uomini spargeranno fiumi di sangue, a furia di ripeterle accumuleranno rovine su rovine, senza mai ottenere davvero qualcosa di corrispondente; niente di reale puĂČ davvero corrispondere a tali parole, poichĂ© non significano niente. Il successo coinciderĂ esclusivamente con lâannientamento di uomini che lottano in nome di parole diverse. Questo perchĂ© unâaltra caratteristica di tali parole Ăš che esistono per coppie antagoniste. Intendiamoci, non sempre esse sono prive di senso di per sĂ©: alcune di loro ce lâavrebbero se solo ci prendessimo la briga di definirle come si deve. In tal modo, perĂČ, perderebbero la maiuscola e non potrebbero piĂč fungere da vessillo nĂ© trovare posto tra le tintinnanti parole dâordine nemiche; non sarebbero che un tramite per cogliere la realtĂ concreta, o un obiettivo concreto, o un metodo dâazione. Chiarire i concetti, screditare le parole congenitamente vuote, definire lâuso di altre attraverso analisi precise, per quanto possa sembrare strano, servirebbe a salvare delle vite umane. Ma sembra uno sforzo inadatto alla nostra epoca [âŠ]. Nella nostra mente non destiniamo alla superstizione nessun posto di riguardo comparabile a quello che destinavamo alla mitologia greca e la superstizione si vendica invadendo sotto le celate spoglie di un lessico astratto tutto lâuniverso del pensiero [âŠ]. Per limitarci alle questioni umane, il nostro universo politico Ăš popolato esclusivamente da miti e mostri. Conosciamo solo entitĂ , assoluti, come dimostrano tutti i termin...