I partiti politici italiani dall'Unità ad oggi
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Paolo Carusi

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I partiti politici italiani dall'Unità ad oggi

Paolo Carusi

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Dall'Unità ad oggi, la storia dei partiti italiani viene qui ripercorsa, nei suoi passaggi fondamentali, attraverso lo svolgimento cronologico delle diverse fasi politiche: dai problemi e le questioni emerse all'indomani dell'unificazione, passando attraverso la crisi del liberalismo e l'avvento dei partiti di massa, superando la soppressione della vita democratica messa in atto dal regime fascista, e arrivando, infine, alla creazione, al consolidamento e alla crisi del sistema dei partiti dell'Italia repubblicana. Un percorso difficile e tortuoso, caratterizzato, dall'irrisolto nodo della creazione di un reale spirito di appartenenza comune. Ripercorrendo questo iter e affrontando una disamina delle interpretazioni e delle metodologie di ricerca storiografica, il volume intende fornire un contributo per un rinnovato dibattito (aperto agli specialisti del settore, nonché al vasto campo di studiosi di scienze sociali) relativo al "caso italiano" e a quei caratteri peculiari che continuano a determinare l'assoluta specificità nel panorama dei sistemi politici europei.

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IV. La storiografia sui partiti negli ultimi venticinque anni

Alla luce dei risultati ottenuti nel corso degli anni ’80, grazie ad un rapporto di crescente sinergia tra storiografia e scienze sociali, al principio del nuovo decennio, un deciso fautore dell’incontro tra storia e sociologia, Paolo Macry, poteva scrivere che, rispetto alla cosiddetta histoire événementielle, la nuova storiografia politica basata sull’interazione con le scienze sociali si caratterizzava per la tendenza a privilegiare «i sistemi politici più che le vicende dei singoli stati, i processi decisionali legislativi più che la storia dei singoli statisti, le tipologie dell’organizzazione politica più che la narrazione dei congressi di partito o l’illustrazione delle idee dei leader sindacali, il comportamento elettorale nelle sue variabili socioculturali più che la descrizione dei parlamenti e del loro operato»[1].
Le parole di Macry esprimono chiaramente ciò che la “nuova” storia politica si proponeva di attuare; sembra, però, legittimo riscontrare una sorta di esclusività, un carattere di autosufficienza, nelle righe appena citate. Se l’incontro tra storiografia e politologia, infatti, aveva portato all’elaborazione di studi fondati su di una reale interazione tra le due discipline[2], la storia sociale (basata su di un rapporto privilegiato con la sociologia e sull’utilizzo di nuovi strumenti metodologici, quali, ad esempio, le fonti audiovisive[3] e le fonti orali) pareva voler assumere un carattere di totale indipendenza dalla storiografia tradizionale.
È interessante, a tal proposito, rilevare come, al principio degli anni ’90, due tra i maggiori studiosi di storia dei partiti richiamassero alla necessità di porre in essere una reale sinergia tra storia e scienze sociali[4], sottolineando, in particolare, che «non è possibile cogliere la complessità dello sviluppo storico senza guardare ai fenomeni collettivi di mentalità e di costume, alla stratificazione delle classi sociali, che formano oggetto proprio delle scienze sociali; ma non è possibile definire le strutture concrete della democrazia e il loro reale funzionamento senza attingere alla riflessione dei giuristi e degli scienziati della politica. Fra le ricorrenti tentazioni di omologazione della storia alle scienze sociali da un lato, e di chiusura dall’altro della storia nel suo ambito proprio come in un castello con il ponte levatoio alzato, occorre ricuperare gli spazi di un rapporto costruttivo fra discipline diverse. Occorre insomma superare i troppo rigidi confini e stabilire un circuito aperto fra storia, diritto e scienze sociali»[5]; un forte richiamo, dunque, quello di Scoppola, a non arroccarsi sulle vecchie metodologie, ma, al contempo, un monito a chi volesse intendere la storia sociale come un «luogo privilegiato e separato».
Che il dialogo tra storia politica e storia sociale si presentasse, al principio degli anni ’90, ancora problematico, è testimoniato dalle parole di Maurizio Ridolfi (uno dei principali sostenitori dell’incontro fra le due discipline), il quale, ancora nel 1993, scriveva che «se dovessimo limitarci a confrontare il codice scientifico e il tradizionale campo d’azione tanto della storia politica quanto della storia sociale, apparirebbe poco incoraggiante qualsiasi ricerca di punti d’incontro»[6]; lo stesso Ridolfi, però, dopo aver ricordato gli interventi (operati, in anni precedenti, da Tommaso Detti e Raffaele Romanelli) «tesi a reimpostare le questioni metodologiche e storiografiche al di là degli iniziali steccati», rilevava come, in alcuni settori storiografici, l’incontro tra storia politica e storia sociale avesse prodotto dei significativi risultati. Il riferimento era rivolto, in particolare, agli studi sulla formazione della rappresentanza e sulla vita dei collegi elettorali[7], temi, questi, capaci di favorire un’analisi ad ampio raggio, relativa tanto alle istituzioni e al potere centrale (terreno privilegiato della storiografia politica), quanto al territorio, ai gruppi locali e ai municipi (oggetti di studio per i quali bene si adatta la metodologia elaborata dalla storia sociale)[8].
Le osservazioni di Ridolfi indicavano quindi, come, sulla scia dei risultati scaturiti dall’incontro tra storiografia e politologia, anche l’interazione fra storia politica e storia sociale cominciasse a fornire degli interessanti spunti interpretativi e metodologici[9]; da notare è, inoltre, che anche il rapporto tra storiografia e scienze giuridiche si era, in quegli anni, intensificato, producendo nuovi e stimolanti contributi di ricerca[10].
Non ci sorprende, quindi, il rilevare come, nelle numerose opere di sintesi sulla storia dei partiti italiani apparse intorno alla metà degli anni ’90, aumentasse il ricorso alle categorie mutuate dalle scienze sociali; si pensi ai lavori di Vallauri e Pombeni[11], al volume di Simona Colarizi[12], alle opere di Parente, Lotti e Ignazi[13], nonché al volume collettaneo, curato da Grassi Orsini e Quagliariello, relativo ai partiti e al problema della rappresentanza dal 1918 al 1925[14].
È innegabile che questa fioritura di opere di sintesi relative alla storia dei partiti italiani (precipuamente in età repubblicana) fosse dovuta al crollo dei regimi comunisti nonché all’esplosione del sistema dei partiti della cosiddetta “prima repubblica” e, dunque, all’esigenza di un ripensamento della storia politica italiana in un momento di svolta epocale; non è da trascurare, però, la volontà di alcuni studiosi di confrontarsi con le nuove metodologie e con i nuovi approcci interpretativi generati dall’incontro della storiografia con le scienze sociali.
Come ha messo bene in luce Paolo Pombeni[15], infatti, la “nuova” storiografia politica aveva fortemente allargato il proprio raggio d’azione, fornendo, specie riguardo all’età liberale[16], originali e stimolanti contributi su numerosi oggetti di ricerca: oltre al tema della rappresentanza e del sistema elettorale (già rilevati in un citato saggio di Ridolfi), difatti, Pombeni rimarcava gli importanti risultati raggiunti riguardo alla questione del notabilato, delle classi dirigenti e dei ceti politici[17] e relativamente alla cultura politica[18], al tema della costruzione della civic nation[19] e all’istituto parlamentare[20].
Se le nuove metodologie, generate dall’incontro della storia con le scienze sociali, portavano, nel corso degli anni ’90, ad una riconsiderazione in chiave sociologica[21] e antropologico-culturale[22] del ventennio fascista, anche gli anni della storia repubblicana cominciavano ad essere “rivisitati” alla luce delle nuove tendenze storiografiche.
Sebbene la recente disponibilità di nuovo materiale archivistico inducesse gli studiosi ad operare, innanzitutto, su di un piano storico-politico fattuale (affrontando tanto l’intero arco della storia repubblicana[23], quanto i più significativi nodi storiografici[24] e l’azione delle singole forze partitiche[25]), le categorie mutuate dalle scienze sociali non avrebbero tardato a fare il loro ingresso negli studi di storia politica relativi all’età repubblicana.
In virtù dell’utilizzo delle nuove metodologie di ricerca, due temi, in particolare, avrebbero catalizzato l’attenzione degli studiosi: da un lato l’idea di nazione e le sue implicazioni relative al “vissuto” politico degli italiani, dall’altro i mutamenti sociali generati dallo sviluppo economico. Mentre, per questo secondo aspetto, gli studi sono ancora in fase iniziale[26], le ricerche relative al tema dell’appartenenza nazionale hanno, invece, già vissuto una stagione di intenso sviluppo; tanto alcuni studi centrati sugli anni di passaggio dal fascismo alla democrazia[27], quanto altri, dedicati ad un arco temporale più ampio[28], hanno infatti favorito un ampliamento del dibattito, portando a nuovi e stimolanti contributi, relativi al rapporto tra l’idea di nazione ed alcuni fondamentali “nodi”, quali, ad esempio, la forma partito[29] e il sentimento religioso[30].
Con l’inizio del nuovo secolo diversi sono stati i tentativi di ripensamento complessivo della nostra storia politica[31]; accanto a queste opere di carattere generale, non sono mancate le monografie su alcuni fondamentali nodi problematici del periodo liberale e fascista: tra queste si sono segnalate, anche per l’originalità metodologica, le ricerche sul ruolo politico dei militari[32].
Notevole impulso hanno avuto poi le ricerche sui partiti in età repubblicana; una straordinaria stagione di ricerca si è avuta, ad esempio, su momenti e figure della storia della Democrazia Cristiana: oltre ad un buon numero di ricerche sulla storia nazionale e locale del partito[33], si è sviluppato un rilevante filone di studi sul rapporto tra l’Italia democristiana e gli USA[34]. Anche in virtù della ricorrenza di alcuni anniversari (su tutti quello dei cinquant’anni dalla scomparsa di De Gasperi), poi, grand...

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