Apprendimento esperienziale
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Apprendimento esperienziale

Fondamenti e didattiche

Piergiorgio Reggio

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Fondamenti e didattiche

Piergiorgio Reggio

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Über dieses Buch

Il presente testo si propone come un'introduzione alla proposta teorico-metodologica dell'Apprendimento Esperienziale (Experiential Learning), quale contributo all'innovazione delle pratiche formative. I contenuti che vengono esposti sono maturati, in questi anni, nel corso di attivitĂ  didattiche universitarie e in opportunitĂ  di sperimentazione in diversi ambiti formativi[2].
I destinatari immediati ai quali il testo è rivolto sono studenti/esse di corsi di Laurea di Scienze della Formazione, che si preparano ad esercitare professioni formative, ma il testo può essere anche utilizzato – quale introduzione alla tematica – da formatori e formatrici impegnati – a vario titolo e con diverse funzioni (docenti, tutor, progettisti) – in processi formativi rivolti a giovani e adulti.
(tratto dall'introduzione dell'Autore)

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1.

Esperienza ed educazione:
un rapporto incompiuto

La proposta formativa dell’AE trova le proprie radici in alcuni fondamentali contributi di tipo psico-pedagogico che, nel corso del ’900, hanno profondamente influenzato le pratiche educative. Si tratta di antecedenti storici, che hanno focalizzato con particolare attenzione il rapporto tra esperienza ed educazione. Ad essi sinteticamente intendiamo ora rifarci, allo scopo di chiarire i riferimenti teorici che hanno condotto all’elabo­razione dell’approccio metodologico dell’AE[4].
Il riferimento a Dewey è capitale nella ricostruzione delle radici pedagogiche della fondazione di un approccio alla formazione basato sull’espe­rienza. Nella teoria di Dewey si rintracciano i principi fondanti dell’attivi­smo pedagogico, che fanno dell’esperienza il fulcro intorno al quale ordinare la logica dell’intervento educativo. L’indagine filosofica, prima ancora che pedagogica, di Dewey si rivolge al tema dell’esperienza nel quadro di una ricerca di un nuovo rapporto tra saperi teorici e pratici.
Se, da un lato, è vero che, per Dewey, l’esperienza è la vita stessa, dall’altro è importante riconoscere come la sua riflessione non sconfini, però, in un dissolvimento dell’esperienza nel quotidiano accadere degli eventi. L’esperienza è vita nel senso che essa ha carattere cumulativo ed evolutivo e rappresenta il significato stesso della crescita.
Dewey assume in tutta la propria provocatorietà critica la domanda, che tanti educatori (insegnanti, formatori) quotidianamente si pongono, relativa al fatto che non tutte le esperienze sono educative. Ovviamente, ci sono anche esperienze “diseducative”. Le esperienze possono generare, per Dewey, abitudini che limitano le capacità delle persone, possono ridurre la possibilità di avere ulteriori esperienze in futuro, così come possono recare benefici immediati ma non duraturi, oppure risultare sconnesse e non riconducibili dal soggetto ad un percorso di crescita (Dewey, 1949). Se non tutte le esperienze sono educative, a quali condizione lo possono diventare? I criteri che egli adotta per rispondere a questo interrogativo sono assai noti e sono stati, nel tempo, assunti nell’ambito di varie teorizzazioni pedagogiche. Si tratta delle caratteristiche della “continuità” e dell’“interazione”.
Sul primo versante, Dewey riconosce che anche l’educazione tradizionale proponeva esperienze; queste non costituiscono una scoperta dell’edu­cazione progressiva. Secondo il punto di vista di Dewey, non è in discussione ciò, quanto piuttosto la questione della qualità delle esperienze. Questa è determinata essenzialmente, da un lato, dalla sua gradevolezza o sgradevolezza e, dall’altro, dalla sua capacità di influenzare le esperienze ulteriori, cioè dagli effetti che essa è in grado di produrre. All’educatore è dunque richiesto di elaborare una strategia per dar vita a un “continuum esperienziale”, cioè ad un percorso di natura educativa, che individui le esperienze da proporre o da accogliere quando si presentano spontaneamente.
Il secondo principio di validità educativa dell’esperienza consiste nella sua capacità di produrre “interazioni”, di essere essa stessa una “situazione di interazione”.
L’esperienza educativa produce effetti “all’interno della persona”, influenzando la formazione di attitudini, pensieri, desideri, sentimenti. Ma essa presenta anche una dimensione sociale: “L’esperienza autentica ha un aspetto attivo che cambia in qualche modo le condizioni obiettive sotto cui si compie l’esperienza” (Dewey, 1949, p. 28). Non si tratta qui unicamente della constatazione dell’importanza dell’ambiente ai fini della riuscita di ogni processo educativo, quanto piuttosto dell’approccio educativo che è richiesto a chi propone percorsi educativi: “... Soprattutto egli dovrebbe conoscere in che modo utilizzare la situazione circostante, fisica e sociale, per estrarne tutti gli elementi che debbano contribuire a promuovere esperienze di valore” (Dewey, 1949, p. 29). Dewey è antesignano di tutte le concezioni dell’apprendimento che ne enfatizzano la dimensione sociale.
L’esperienza educativa è tale, per Dewey, in quanto consente di vivere interazioni, cioè scambi tra dimensione interna e situazioni, condizioni concrete nelle quali gli individui vivono. Tale visione stabilisce un rapporto consapevole del rapporto tra soggetto e mondo, che verrà riformulata ed approfondita, con particolare originalità, nell’opera del pedagogista brasiliano Paulo Freire.
Le implicazioni didattiche dell’approccio deweyano all’esperienza sono significative. Si pensi all’importanza della centralità del soggetto, che implica l’importanza dell’attività come motore dell’esperienza, così come il rifiuto delle modalità routinarie dell’educazione tradizionale, del suo procedere in maniera enciclopedica attraverso campi disciplinari rigorosamente distinti. Si tratta di principi che hanno aperto le prospettive dell’innovazione metodologica alle pratiche di carattere cooperativo, all’impiego del metodo della ricerca applicato alle tematiche educative, all’uso didattico dei laboratori. Secondo tali prospettive didattiche, la libera attività si oppone alla disciplina imposta dall’esterno, la comprensione di processi all’acquisizione di conoscenze generali e disarticolate, l’apprendere facendo e dall’esperienza all’imparare dai libri e dagli insegnanti.
Notevole è l’importanza di Piaget per quanti si sono dedicati all’esplo­razione dei principi di un “apprendimento esperienziale”. Il suo sguardo sull’esperienza è strettamente connesso all’indagine sull’intelligen­za, della quale rifiuta una concezione innata, pervenendo piuttosto all’elaborazione di una teoria che individua l’intelligenza come interazione tra individuo ed ambiente.
Il ruolo dell’esperienza nel processo di apprendimento viene riferito in Piaget essenzialmente al rapporto tra soggetto ed ambiente. I due noti processi attraverso i quali il soggetto entra in rapporto con l’ambiente sono quelli di “assimilazione” ed “accomodamento”. Il processo di assimilazione – cioè di incorporazione della realtà esterna in forme della struttura cognitiva del soggetto – implica un’attività del soggetto sull’ambiente. Quando incorporiamo in una struttura d’accoglienza una nuova informazione fornita dal contesto, in realtà trattiamo questa informazione, la rielaboriamo, la organizziamo e strutturiamo per attribuirle un significato. Emerge esplicitamente, in tal senso, il fatto che le operazioni di produzione di senso esercitate sull’ambiente, fisico o sociale, non sono altro – in Piaget – che attività di assimilazione (Bourgeois-Nizet, 1997).
Il polo antitetico dell’assimilazione è costituito dal processo di accomodamento, nel quale l’esperienza e l’acquisizione di nuova conoscenza inducono una modificazione della struttura d’accoglienza. L’assimilazione si riferisce alle modificazioni che l’ambiente produce nel soggetto. Assimilazione ed accomodamento si alternano nell’apprendimento e necessitano l’una dell’altro. Il concetto di “equilibrazione” si riferisce a tale dialettica tra assimilazione e accomodamento.
Anche per Piaget l’esperienza in sé non è fonte di apprendimento, dipendendo dalle condizioni di sviluppo personali. Quando prevale, ad esempio nel bambino, il carattere egocentrico del pensiero, l’esperienza non è in grado di generare apprendimenti. Secondo Piaget, in questi casi – peraltro riscontrabili in molti adulti dalla vita professionale e sociale assai “realizzata” – l’esperienza non fa cambiare parere alle menti egocentriche: le cose hanno torto, loro mai.
Ma quando, allora, l’esperienza produce effetti formativi, di apprendimento nei soggetti? A questa domanda Piaget fornisce una risposta elaborando i concetti di “conflitto cognitivo” e di disequilibrio. I casi nei quali possiamo sperimentare disequilibrio sono individuabili in due situazioni. Innanzitutto, si danno situazioni nelle quali incontriamo un’opposizione, una resistenza di elementi nuovi in rapporto alla struttura di assimilazione. Un’idea, una teoria viene contraddetta, ad esempio, dall’osservazione e dalla sperimentazione diretta della realtà. Il conflitto tra teoria ed esperienza rompe il nostro equilibrio, generando un conflitto che – se ricomposto – potrà condurci ad un livello di “riequilibrio maggiorante”. È importante riconoscere come spesso molte esperienze formative – offrendo nuove prospettive, idee e visioni ai soggetti in apprendimento – possano generare, soprattutto inizialmente, un senso di disagio e di conflitto nelle persone. Esse reagiscono così elevando barriere difensive, tentando di non perdere le certezze precedenti, benché connesse a situazioni di sofferenza e disagio. Solo se il conflitto viene accettato può dare come esito una nuova conoscenza, l’integrazione di un nuovo punto di vista, una consapevolezza diversa rispetto alla realtà.
Il secondo caso di disequilibrio consiste, invece, nei casi nei quali riscontriamo lacune e insufficienze nella nostra struttura di conoscenza. La nuova esperienza non riesce ad essere rapportata alla struttura cognitiva, che si dimostra carente, inadeguata, non in grado di consentire l’elaborazione della nuova conoscenza. Piaget precisa, a tal proposito, che non ogni lacuna è fonte di apprendimento e chiunque abbia esperienza socio-educativa con adulti non può che confermare ciò: quante volte proposte, idee sono state disattese, non comprese e rifiutate perché le strutture della conoscenza nelle persone, nei gruppi non erano disposte ad accoglierle. La lacuna può diventa fonte di perturbazione, di apprendimento, invece, quando a mancare è un elemento essenziale per il soggetto per compiere un’azione, risolvere un problema. Secondo Piaget, la lacuna è sempre relativa ad uno schema di assimilazione già attivato (Piaget, 1975). In campo sociale, tale tesi risulta determinante nel momento in cui pone la centralità del bisogno, della necessità di affrontare e risolvere problemi, migliorare situazioni non soddisfacenti. La centralità del problema – già presente, sia pure con altri accenti, in Dewey e Lewin – ritorna qui come occasione di perturbazione, rottura di uno stato di equilibrio che, ancora una volta, può essere ricomposto in uno stadi o di conoscenza superiore. Dal punto di vista educativo, un’ulteriore implicazione consiste anche nella necessità di verificare la disponibilità di strutture e risorse di conoscenza nei soggetti. In tal modo si comprende l’importanza – negli interventi formativi – di indagare e far esplicitare le conoscenze e le opinioni possedute dai soggetti in merito alla questione (al problema) da affr...

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