Lâepistola V di Dante: unâintertestualitĂ polimorfa
Anna Fontes Baratto
UniversitĂ© Paris 3 â Sorbonne Nouvelle Abstracts
Nellâepistola V il denso e variegato percorso intertestuale, con cui Dante sigla la novitas di una scrittura consona alla dies nova che spunta con la venuta di Enrico VII, conduce dagli iniziali echi virgiliani alle citazioni finali dei verba Christi. Sono infatti le parole di Cristo stesso che Dante convoca â a suggello conclusivo della ânovitĂ â introdotta dallâepistola rispetto alle pagine del Convivio sullâautoritĂ imperiale â per asserire la diretta derivazione da Dio di entrambi i massimi poteri: con velata polemica (al di lĂ del riferimento dâobbligo allâenciclica Exultet in gloria) nei confronti di Clemente V, ben deciso a confinare lâimperatore nella funzione esclusiva di «advocatus et defensor ecclesie». Travalicando perĂČ il terreno meramente politico, lâEp. V punta a definire la specifica competenza (e quindi responsabilitĂ storica) della Chiesa nellâattenersi alla âveritĂ â del messaggio evangelico.
The paper analyzes Danteâs epistle V with respect to the thick and multifaceted intertextual fabric through which Dante marks the novelty of his writing as resonating with the new day brought by Henry VIIâs coming: such intertextual path drives from the initial Virgilian echoes to the final quotation of verba Christi. Christâs last words are thus evoked by Dante not only as to confirm that the epistle moves further forward than the Convivio with respect to his conception of imperial authority, but also as to maintain that both major powers are directly derived from God. By being implicitly polemical towards pope Clement V (beyond the compulsory reference to his encyclical Exultet in gloria), Dante aims at restraining the emperorâs functions to those of «advocatus et defensor ecclesie». Ep. V thus exceeds a merely political discourse and seeks to define the specific competence (and thus historical responsibility) of the Church, whose role is to conform to the truth of the evangelical message.
Parole chiave: papato, impero, intertestualitĂ biblica, intertestualitĂ classica, epistolografia latina.
«Ecce nunc tempus acceptabile»: lâincipit paolino, annunciatore di una «dies nova», definisce fin da subito lâinedita congiuntura propizia che determina anche la scrittura nova dellâepistola. 1 PerchĂ© il tempus acceptabile, lâoccasione da cogliere senza frapporre indugi, Ăš certo quello dellâormai imminente calata di Enrico, ma il tempo âche stringeâ esige anche lâimpegno personale nellâelaborazione di una scrittura che a sua volta âstringa i tempiâ, per assumere direttamente il linguaggio della coincidenza tra messaggio biblico e stilemi classici, tra disegno provvidenziale e attestazioni storiche del suo inverarsi nel tempo. Qui tutto Ăš detto nel presente di una scrittura fagocitante che azzera tutte le distanze, proiettando il proprio messaggio sul tempo âaltroâ del piano divino per individuare, nel presente, nel tempo storico del presente, i segni dellâevento provvidenziale giĂ in corso e valutare le resistenze che ad esso intendono opporsi.
Ă indubbio che, con questo nuovo impasto linguistico, Dante stesse elaborando una sua nuova figura autoriale, dotata inoltre dellâauctoritas che certo gli mancava per rivolgersi a tutti i poteri costituiti dâItalia, dai re ai populi (par. 1). Quanto alla figura del âprofetaâ che questa scrittura gli conferisce, essa va intesa, mi pare, proprio nel senso precisato da Sylvain Piron:
câest la marche mĂȘme des Ă©vĂ©nements qui constitue le prĂ©sage quâinterprĂšte le poĂšte. (âŠ) Dans ce prophĂ©tisme au prĂ©sent, Dante ne fait pas autre chose quâĂ©noncer publiquement sa comprĂ©hension dâune situation historique exceptionnelle. 2
EccezionalitĂ di una situazione storica che, per di piĂč, impone di colmare il âvuotoâ concettuale reperibile tra lâidea imperiale giĂ pienamente formulata nel Convivio e la sua rielaborazione, e attualizzazione, nella Monarchia, come Giorgio Inglese ha opportunamente sottolineato nella sua recente Vita di Dante:
la âdigressioneâ del Convivio (IV, vi, 1) sullâautoritĂ imperiale non sfiora nemmeno la questione del rapporto con Pietro e i suoi successori; o meglio: mentre risulta limpidamente asserito che lâImpero fu affidato a Roma «in quello altissimo e congiuntissimo consistorio della Trinitade» (v 3), non Ăš reso esplicito ciĂČ che tale sarĂ , invece, nella Monarchia: che lâautoritĂ dellâImperatore romano deriva «immediate a Deo» e non «aliquo Dei vicario vel ministro» (Mon. III i 5). Non Ăš pensabile che, quando scriveva il quarto del Convivio, Dante ancora nutrisse dubbi al riguardo: ma di fatto una specifica polemica sullâargomento gli parve, in quella fase, non necessaria. 3
La rende invece ânecessariaâ la dies nova che spunta con la venuta di Arrigo in Italia â e proprio nella parte conclusiva dellâepistola (parr. 27â28) si concentra la «specifica polemica sullâargomento» individuata da G. Inglese. La conferma dellâ«insperata» (par. 19) discesa in Italia di un imperatore, con lâindispensabile avvallo del papa, mobilita infatti lâillustrazione del ruolo messianico che lâimperatore Ăš chiamato a svolgere, promovendo in Italia la politica di giustizia e di pace di cui Ăš il solo garante, ma lâesaltazione della missione imperiale induce anche Dante, in un secondo momento, a pronunciarsi sui rapporti tra i due massimi poteri: nei termini appunto che, assenti dal Convivio, saranno poi chiaramente enunciati nella Monarchia. Dante affronta cosĂŹ una questione che, se allâattualitĂ politica si ricollega, da essa poi si discosta, per spostarsi sul terreno propriamente ecclesiale della retta interpretazione dei compiti rispettivamente assegnati da Dio al potere temporale e spirituale, come annunciato dal par. 22:
unde Deum romanum principem predestinasse relucet in miris effectibus, et verbo Verbi confirmasse posterius profitetur Ecclesia.
Letta in questa prospettiva, lâepistola V fa in realtĂ emergere fin da subito le spie di un intento polemico che, non certo apertamente ma comunque piĂč o meno velatamente, colpisce nello specifico le piĂč recenti prese di posizione di Clemente â a dispetto dellâaccenno finale (positivo, ma anche molto restrittivo) allâenciclica Exultet in gloria del primo settembre 1310. Quanto allâintertestualitĂ âpolimorfaâ cui Ăš intitolato il mio intervento, lâanalizzerĂČ proprio puntando sullâintento polemico, cioĂš sulla destinazione e funzione polemica di molti inserti intertestuali. DarĂČ quindi per scontata, vale a dire per giĂ eccellentemente indagata, la ricognizione dei singoli tasselli, 4 ma mi soffermerĂČ piuttosto su alcuni aspetti â per altro spesso interdiscorsivi, e quindi indiretti, o di rimbalzo (par ricochet), piĂč che intertestuali stricto sensu â, volti ad illustrare lâintento polemico da cui muove unâepistola che non credo esclusivamente destinata a promuovere la figura messianica dellâimperatore, nĂ© tantomeno propensa ad accreditare lâaffidabilitĂ dellâappoggio dato dal papa alla sua impresa.
Se infatti guardiamo piĂč da vicino il modo in cui si sono sviluppate (e, aggiungerei subito, invelenite) le relazioni tra Clemente e Enrico in quei due mesi (o poco piĂč) che separano lâemanazione dellâenciclica dalla redazione dellâepistola, il quadro che ne risulta non conforta affatto la diffusa opinione che nessuna nube fosse ancora venuta ad offuscare i loro rapporti.
Giovanni Villani ci ha giĂ ampiamente edotti sulle turbolente reazioni italiane allâannuncio della calata, mettendo lâaccento sulle invasive ingerenze fiorentine, in ambito politico, diplomatico e finanziario. 5 Ma il quadro da lui delineato va completato collâinfittirsi degli scambi di messaggi, e piĂč precisamente dei messaggi di Clemente, in previsione della venuta in Italia. Per ovvie ragioni di spazio, lo farĂČ nel modo piĂč stringato â cominciando perĂČ da un accenno preliminare alla «legatio ad Italicos», il cui annuncio da Norimberga (26 giugno 1309) 6 precede lâapprovazione dellâelezione da parte del papa, nel concistoro del luglio 1309. Dalle relazioni degli ambasciatori di Enrico in Lombardia (agosto 1310) 7 risulta che molte cittĂ lombarde subordinano la loro risposta a quella della lega lombarda o allâaccordo del papa. Risulta inoltre lâafflusso degli extrinseci presso gli ambasciatori imperiali: «tous les forenssis de Boulogne et de toutes les autres villes de Lombardie sont venus a nous et se sont ofers de servir a tout leur pouvoir monsigneur lâenpereur». 8
A metĂ settembre, pochi giorni dopo lâemanazione dellâExultet in gloria, Clemente informa Enrico dellâarrivo in curia dei delegati lombardi 9 (sono attesi anche i toscani, che invece non si presentano), poi, lâ8 ottobre, gli comunica di averli assicurati (traduco ad sensum) che Enrico farĂ quello che il papa gli dirĂ di fare. 10 Lâ11 ottobre Clemente riesce finalmente a far sottoscrivere a Enrico, che tergiversava da mesi (ma adesso il tempo stringe anche per lui), la «promissio lausannensis» ,11 lâatto ufficiale di sottomissione, con solenne giuramento, di cui Bowsky dice che mai un imperatore si era prima legato le mani in tal modo, impegnandosi ad intervenire solo per difendere ovunque e comunque gli interessi della Chiesa e dei suoi fedeli. 12
Sempre in ottobre, Enrico riceve un Memoriale pontificis regi missum che gli era stato trasmesso, precisa il curatore del testo, «ut de iuramenti ratione ac indole animum regis placaret», il che Ăš subito confermato dalle prime parole del Memoriale, inviatogli «ut (âŠ) ostruantur ora iniqua loquentium et informantium eundem regem minus vere». 13 Clemente, prosegue il testo, appoggia quanto puĂČ la spedizione in Italia, «non sine gravi displicentia multorum» (par. 7). Ma il Memoriale agita anche minacce o ricatti mai formulati prima nei confronti di Enrico. La Chiesa ha giĂ dato prova di non essere a corto di difensori: decretando unilateralmente, ad esempio, la translatio imperii a vantaggio di Carlomagno (par. 8). Le clausole della promissio sono giuste, e vanno quindi rispettate, anche senza giuramento, da un re giusto. Ma se non lo Ăš, non Ăš questo un peccato? E la revoca «ratione peccati» (argument massue della supremazia papale) non spetta al papa? «Certe sic, ut patet ex canone» (par. 9). CâĂš chi soffia sul fuoco presso Arrigo (ma che ci sia anche Dante?); lâappoggio che gli dĂ Clemente dispiace «ai devoti alla Chiesa di Lombardia e Tuscia, atterriti dallâavvento, diffidenti, giĂ pronti alla ribellione» (par. 10), che le garanzie profuse dal papa non riescono a placare. Conclusione: «verbis malignis et insidiis non debet regia celsitudo aures adhibere» (par. 11).
E possiamo adesso tornare allâepistola dantesca, ripre...