Tenera è la notte
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Tenera è la notte

Francis Scott Fitzgerald, Vincenzo Latronico

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Tenera è la notte

Francis Scott Fitzgerald, Vincenzo Latronico

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Tenera è la notte, pubblicato nel 1934, è l'ultimo grande romanzo di Fitzgerald e quello che tra tutti gli altri rappresenta «il romanzo della sua vita». Protagonista è Dick Diver, esponente di spicco di un jet set composto da espatriati americani, che si spostano dalla villeggiatura invernale a Saint Moritz a quella estiva sulla Costa Azzurra. Dick è diviso fra la straziante storia d'amore con la moglie Nicole – bella e ricchissima ma affetta da gravi disturbi mentali – e la passione per l'innocenza di Rosemary, giovane promessa di Hollywood. Il risultato è il ritratto di un'epoca romantica che volge ineluttabilmente al tramonto; un libro struggente sul desiderio di vivere e sulla sconfitta delle proprie aspirazioni. Oggi Tenera è la notte torna in una nuova traduzione di Vincenzo Latronico, autore dei romanzi Ginnastica e rivoluzionee La cospirazione delle colombe, completato da una prefazione storico-critica dell'americanista Sara Antonelli e una postfazione del traduttore.

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Information

Jahr
2013
ISBN
9788875214975

Libro secondo

1.

Quando il dottor Richard Diver mise piede per la prima volta a Zurigo, nella primavera del 1917, aveva ventisei anni, un’ottima età per un uomo, a tutti gli effetti l’apice del celibato. Persino in tempo di guerra era un’ottima età per Dick, che era già troppo prezioso, un investimento di capitale troppo alto perché un proiettile potesse azzerarlo. Anni dopo si sarebbe detto che persino da quel santuario non era uscito indenne, senza però mai decidersi del tutto a riguardo: nel 1917 ne rideva, dicendo con tono di scusa che la guerra non lo sfiorava neppure. Gli ordini del suo ufficio di leva erano che terminasse gli studi a Zurigo e si laureasse come previsto.
La Svizzera era un’isola, bagnata a un confine dalle onde dei tuoni intorno a Gorizia e dall’altro dalle cascate della Somme e dell’Aisne. Per una volta, nei cantoni parevano esserci più stranieri intriganti che stranieri malati, ma c’era comunque da tirare a indovinare: gli uomini che bisbigliavano nei baretti di Berna e Ginevra avevano pari probabilità di essere commercianti di diamanti o commessi viaggiatori. Eppure a nessuno sfuggivano i lunghi convogli di uomini accecati, di zoppi, di toraci morenti che si incrociavano fra i riverberi dei laghi di Costanza e Neuchâtel. Nelle birrerie, nelle vetrine, dei poster a tinte vivaci raffiguravano gli svizzeri intenti a difendere le frontiere nel 1914: giovani e vecchi che dalle montagne guatavano verso il basso, con una ferocia che si sperava ispirasse qualcuno, verso francesi e tedeschi fantasma; il loro scopo era garantire al cuore svizzero che anch’esso partecipava della gloria contagiosa di quei giorni. Col proseguire dei massacri i poster appassirono sino a sparire del tutto, e nessun paese fu colto da maggiore sorpresa della loro repubblica gemella quando anche gli Stati Uniti inciamparono in quella guerra.
All’epoca il dottor Diver aveva già osservato la periferia del conflitto; nel 1914 era arrivato a Oxford dal Connecticut, con una borsa Rhodes. In seguito era tornato in patria per finire gli studi alla Johns Hopkins. Nel 1916 era riuscito a trasferirsi a Vienna, con la convinzione che se non si fosse affrettato prima o poi il grande Freud sarebbe caduto nei bombardamenti. Persino allora Vienna era vecchia di morte, ma Dick era riuscito a procurarsi carbone e gasolio a sufficienza per rintanarsi nella sua stanzetta sulla Damenstiffgasse a scrivere i pamphlet che avrebbe in seguito distrutto, ma che, in una riscrittura, avrebbero formato l’ossatura del libro che pubblicò a Zurigo nel 1920.
Tutti, o quasi, abbiamo un periodo preferito, eroico, della nostra vita; per Dick Diver fu quello. Innanzitutto, non aveva idea di essere affascinante, non capiva che l’affetto che distribuiva e ispirava era qualcosa di raro fra le persone normali. Nel suo ultimo anno a New Haven c’era chi lo chiamava «Lucky Dick», e il nome gli era rimasto in testa.
«Lucky Dick, sei un duro», sussurrava fra sé e sé, camminando in cerchio intorno agli ultimi palpiti di fuoco nella sua stanza. «Hai fatto centro, vecchio mio. Nessuno ci aveva pensato prima che ti ci mettessi tu».
All’inizio del 1917, quando trovare il carbone cominciò a farsi difficile, per scaldarsi Dick bruciò quasi un centinaio di saggi che aveva accumulato; ma li buttò al fuoco solo con la gongolante certezza di essere lui stesso un distillato dei loro contenuti, che avrebbe potuto riassumere a cinque anni di distanza, se fosse valsa la pena riassumerli. E poteva ripetere questo gesto ogni due ore, se necessario, con un tappeto sulle spalle per scaldarsi, con la calma sottile dello studioso che è la migliore approssimazione della pace celeste – ma che, come vedremo fra poco, doveva finire.
Per la sua sopravvivenza sino ad allora aveva da ringraziare il suo corpo, che aveva volteggiato sugli anelli a New Haven e che ora nuotava nel Danubio d’inverno. Divideva un appartamento con Elkins, secondo segretario all’ambasciata, e due ragazze venivano a trovarli ogni tanto: e questo era quanto, di certo non troppo, e neppure troppo per l’ambasciata. I contatti con Ed Elkins destarono in lui, sulle prime, un’ombra di dubbio circa la qualità dei propri processi mentali; non riusciva a sentirli drasticamente diversi dal pensiero di Elkins – Elkins, che era in grado di elencare tutti i quarterback di New Haven degli ultimi trent’anni.
«...E Lucky Dick non può essere uno di questi intelligentoni; dev’essere meno perfetto, addirittura rovinato. Se non dovesse pensarci la vita non basta sostituirne l’opera con una malattia o un cuore infranto, o un complesso di inferiorità, anche se non sarebbe male sviluppare un aspetto traballante sino a renderlo migliore della struttura di partenza».
Si prendeva gioco dei suoi stessi ragionamenti, li riteneva speciosi e «americani»: il suo criterio per decidere se una serie di frasi era poco cerebrale era che fosse americana. Sapeva, tuttavia, che il prezzo della sua perfezione era l’incompletezza.
«Il meglio che posso augurarti», così diceva la fata Bacchettanera ne La rosa e l’anello di Thackeray, «è un po’ di sfortuna».
In certi casi, secondo l’umore, era persino infastidito dai suoi stessi ragionamenti: Cosa potevo farci se il giorno delle iniziazioni Pete Livingstone era chiuso nello spogliatoio, mentre tutti lo cercavano in questo mondo e quell’altro? E quindi sono stato ammesso nella società degli Elihu, dove altrimenti non sarei mai entrato, con così poche conoscenze. Era un bravo ragazzo, e ci sarei dovuto essere io, nello spogliatoio, al suo posto. Forse sarebbe stato così, se avessi saputo di avere qualche probabilità di essere ammesso. Ma Mercer continuava a venire in stanza da me, in quei giorni. Forse sì, sapevo di avere qualche probabilità. Ma in fondo mi sarei meritato di ingoiare la spilla sotto la doccia e far scattare un conflitto interiore di qualche tipo.
Dopo le lezioni, all’università, discuteva della questione con un giovane intellettuale romeno, che lo rassicurava: «Non ci sono prove che Goethe abbia mai conosciuto “conflitti” nell’accezione moderna, o uno come Jung, per esempio. Tu non sei un filosofo romantico, sei uno scienziato. Memoria, forza, carattere... e buonsenso, soprattutto. Questo sarà il tuo problema: il giudizio su te stesso; una volta ho conosciuto un tale che per due anni ha lavorato sul cervello dell’armadillo, con l’idea che prima o poi ne avrebbe saputo più di chiunque altro. Continuavo a dirgli che non stava spingendo abbastanza in là l’estensione delle possibilità umane, era troppo arbitrario. E come volevasi dimostrare, quando ha mandato il suo lavoro a una rivista di medicina l’hanno rifiutato: avevano appena accettato la tesi di un altro sullo stesso argomento».
Dick arrivò a Zurigo con meno talloni d’Achille di quanti ne avrebbe richiesti un millepiedi, ma comunque non erano pochi: le illusioni di forza e salute eterne, e della bontà intrinseca delle persone; le illusioni di una nazione intera, le menzogne di generazioni e generazioni di madri pioniere costrette a cantilenare, mentendo, che non c’erano lupi fuori dalla capanna. Dopo la laurea gli fu ordinato di raggiungere un’unità neurologica che si stava formando a Bar-sur-Aube.
In Francia scoprì con disgusto di avere mansioni organizzative anziché pratiche. In compenso trovò il tempo per terminare un manualetto, e per riunire i materiali per il progetto successivo. Tornò a Zurigo, congedato, nella primavera del 1919.
Quanto appena detto suona come una biografia, senza la soddisfazione di sapere che l’eroe, come Grant che perdeva tempo nella sua drogheria a Galena, è sul punto di essere chiamato a un destino ben più intricato. Inoltre, è disorientante trovarsi fra le mani una foto di gioventù di qualcuno che abbiamo incontrato già stondato dalla maturità, e fissare con stupore lo sguardo d’aquila di uno sconosciuto nervoso e arrogante. Urge una rassicurazione: il momento di Dick Diver stava per cominciare.

2.

Era un’umida giornata di aprile, con lunghe nuvole oblique sull’Albishorn e l’acqua inerte nelle zone inferiori. Zurigo non è dissimile da una città americana. Avvertendo sin dal suo arrivo, due giorni prima, la mancanza di qualcosa, Dick percepì che si trattava di quella sensazione che lo prendeva nella finitezza dei viottoli francesi: che non ci fosse nulla di più. A Zurigo c’era moltissimo, oltre a Zurigo: i tetti sospingevano lo sguardo verso l’alto fra il tintinnare dei pascoli bovini, che a propria volta trasformavano la cima delle colline, ancora più su; e tutto ciò rendeva la vita una perpendicolare diretta verso un paradiso da cartolina. I territori alpini, patria dei giocattoli e delle funicolari, delle giostre e dei campanacci, non erano un essere qui, come accade in Francia fra i vigneti francesi che ti crescono in terra fra i piedi.
A Salisburgo, una volta, Dick aveva avvertito la stratificata artificiosità di un secolo di musica acquistata e presa a prestito; in un’altra occasione, nei laboratori universitari di Zurigo, sollecitando delicatamente la corteccia di un cervello, si era sentito più simile a un giocattolaio che al tornado che due anni prima impazzava per i vecchi edifici rossastri della Hopkins, immune al freno ironico dell’enorme Cristo che torreggiava nell’atrio.
Eppure aveva deciso di restare altri due anni a Zurigo, perché non sottovalutava il valore dei giocattoli, dell’infinita precisione, dell’infinita pazienza.
Quel giorno era uscito per incontrare Franz Gregorovious alla clinica di Dohmler, sul lago. Franz, patologo della clinica, valdese di nascita, di poco più anziano di Dick, lo attese alla fermata del tram. Aveva l’aspetto cupo e magnifico di un Cagliostro, in contrasto con la santità dello sguardo; era il terzo dei Gregorovious – suo padre era stato il maestro di Kraepelin quando la psichiatria appena emergeva dall’oscurità dei tempi. Di carattere era orgoglioso, focoso e remissivo; si considerava un ipnotista. Se anche il genio di famiglia aveva subito il logorio degli anni, Franz sarebbe indubbiamente divenuto un ottimo medico.
Sulla strada per la clinica disse: «Dimmi delle tue esperienze in guerra. Ti senti trasformato, come gli altri? Hai la stessa faccia americana e stupida di sempre, Dick... solo che so per certo che, stupido, non lo sei».
«Non ho visto granché della guerra; te ne sarai accorto dalle lettere, Franz».
«Non significa niente: qui ci arrivavano psicosi da trauma che avevano a stento sentito un bombardamento da lontano. Ce n’erano un paio a cui era bastato leggere un giornale».
«Mi sembra assurdo».
«Probabilmente lo è, Dick. Ma siamo una clinica per ricchi; non usiamo la parola assurdo. Sinceramente, sei venuto qui per me o per quella ragazza?»
Si scambiarono uno sguardo obliquo; Franz sorrise con aria enigmatica.
«Naturalmente ho visto tutte le prime lettere», disse, assumendo la voce di basso che indicava le comunicazioni ufficiali. «Quando hanno iniziato a cambiare, la delicatezza mi ha impedito di continuare ad aprirle. Il caso, a tutti gli effetti, era tuo».
«Ma allora sta bene?», Dick volle sapere.
«Assolutamente bene, l’ho in carico io; a dire il vero ho in carico la maggioranza dei pazienti inglesi e americani. Mi chiamano dottor Gregory».
«Lascia che ti spieghi una cosa su quella ragazza», disse Dick. «L’ho vista una volta sola, questo è un dato di fatto. Quella volta che sono sceso a salutarti subito prima di partire per la Francia. Era la prima volta che indossavo l’uniforme e mi sentivo un impostore: andavo in giro a fare il saluto militare a tutti i ragazzini di leva che incontravo, roba così».
«E perché ...

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