Negretta
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Baci razzisti

Marilena Umuhoza Delli

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Baci razzisti

Marilena Umuhoza Delli

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Über dieses Buch

Se tua madre lavora, deve per forza di cose pulire le scale. O fare la puttana. Se invece cammini da sola per strada, sei tu a essere presa per una puttana. Succede se sei una donna. Nera. In Italia. Oggi. E non ha nessuna importanza che tu sia nata in questo paese, perchĂ© ci sarĂ  sempre chi, ascoltandoti parlare, non potrĂ  fare a meno di stupirsi di come tu conosca cosĂŹ bene l'italiano
Accade perchĂ© la lingua della discriminazione non conosce mezzi termini. E aggiunge agli episodi di brutale razzismo mille occasioni di sottile disprezzo e di malcelata ignoranza. A raccontarlo Ăš una ragazza diventata grande sentendosi chiamare Negretta e cresciuta trovando ogni giorno la forza per affrontare le ferite inferte alla sua anima dal sessismo, dal disprezzo per i poveri e dalla xenofobia. Una battaglia per l'affermazione di un'identitĂ  afroitaliana che non rinuncia a sfoderare l'arma dell'ironia, costruendo un labirinto di finali imprevedibili, di passioni irrinunciabili e di consapevolezze strappate al disprezzo di chi, pagina dopo pagina, dall'alto del suo machismo e del suo razzismo piĂč o meno conclamato, sarĂ  costretto a scoprire di essere giĂ  stato sconfitto dalla storia.

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Information

ISBN
9788867182831

Negretta

Baci razzisti

prologo

Mia madre voleva chiamarmi Maria Elena, come la regina d’Austria.
Quando mio padre andĂČ a registrarmi al comune, non riuscĂŹ a ricordare con esattezza il nome tanto desiderato dalla moglie. Lui e gli impiegati optarono quindi per Marilena, riducendo i due nomi a uno solo.
Come se non bastasse, lo staff del comune non accettĂČ di registrare anche il nome rwandese scelto per me da mia madre: Umuhoza, “consolatrice”. Si rifiutarono, sostenendo che quel nome non avrebbe fatto altro che rivestire il bambino di ridicolo, un po’ come se avessero voluto chiamarmi Hitler o Rompiballe.
PiĂč di trent’anni dopo fui io ad andare in cittĂ  per documentare la nascita di mia figlia. Era passato tanto tempo, eppure il nome rwandese scelto per lei fu rifiutato di nuovo.


non una singola grinza

Rwanda, 1978.

Ogni centimetro della sua pelle era coperto di polvere rossa quando l’incontrĂČ per la prima volta. Si era avventurato in una corsa di sei ore in moto, senza casco, su per le vie sterrate verso l’estremitĂ  nord-est del Rwanda, dove le strade muoiono all’altezza del lago Kivu.
La sua futura sposa lo aspettava davanti alla capanna. Una tunica psichedelica perfettamente stirata, nonostante la famiglia vivesse senza elettricitĂ  e acqua corrente.
Col dorso delle mani, Giuseppe strofinĂČ via la terra dagli occhi, per ritrovarsi di fronte una donna mingherlina. Era la madre di lei. Gli ricordĂČ le tante donne bergamasche con cui era cresciuto a Verdello. Come la sua, di madre, era una donna stoica, una contadina.
« Maman, amakuru?».


saliva rwandese

Quando i miei non si trovavano d’accordo su qualcosa, io davo sempre ragione a papĂ . Lui era quello bianco, l’italiano. E perciĂČ, l’intelligente. La voce dell’autoritĂ . Un ex prete da cui la gente pendeva dalle labbra, immeritatamente.
Fu allora che mia madre cominciĂČ a sputare: addosso a me, a papĂ , alle finestre e alla tv. Addosso a qualsiasi cosa. La sua saliva percorre tutte le mie memorie, come un ritornello musicale.
Fui battezzata dalla sua rabbia.


la casta dei biscotti

La odiavo.
Lei, che mi aveva passato quel colore. Avevo imparato a conviverci, ma ogni volta che me ne dimenticavo c’erano i poster della Lega a ricordarmelo. Quei poster di merda piĂč i miei ventisette compagni di prima elementare.
Strizzata nel cucinotto 2x2, mamma dava amorevolmente forma a ogni biscotto con la stessa dedizione di uno scultore dell’Accademia Carrara.
Chili di noccioline sbucciate, due cucchiai di miele e una teglia ben oliata erano tutto l’occorrente. Dal settimo piano di Athena 3, venti metri sopra la porta d’ingresso con la scritta « immigrati merda» e i graffiti « vendo droga» , il profumo di dolci si spanse per l’intero vicinato.
PiĂč tardi, alla festa della scuola, la tavola del rinfresco fu imbandita con delizie bergamasche di ogni sorta: spongada dĂš Solt , sfogliatine di lago, polentine, tegoline. L’unico vassoio straniero era il mio: un monte Karisimbi di biscotti, cinque volte piĂč grande degli altri piatti. E ancora fumante, come il vulcano rw...

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