Fare marketing strategico usando il Relationship marketing
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Valentina Vellucci

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Valentina Vellucci

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Fare marketing strategico con il Relationship marketing è il primo manuale di marketing relazionale che non si ferma al mercato delle relazioni in maniera teorica ma indaga, approfondisce e insegna come affrontare, gestire e rendere efficaci le strategie di marketing e comunicazione grazie alla conoscenza del pubblico. Polarizzazione, trolling, memorabilità e visione strategica sono il capitale social(e) dei brand di oggi: ogni business ha bisogno di gestirli e avvicinarsi al mercato delle relazioni in modo razionale, per preservarsi e allo stesso tempo crescere in modo stabile e coerente. Leggendo questo libro apprenderete nel dettaglio strumenti, tecniche, metodologie e processi per creare una strategia di relationship marketing in linea con gli obiettivi aziendali e personali. Testimonianze concrete e un approccio estremamente pragmatico al marketing relazionale completano il volume, fornendo utili consigli per pianificare in maniera concreta obiettivi e relative misurazioni delle proprie strategie di marketing e comunicazione.

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Information

Verlag
Hoepli
Jahr
2021
ISBN
9788820399191

Capitolo 1

Momento ZERO.
Non c’è pathos, non c’è brand. Non c’è relazione

Quante volte avete esclamato “Mamma mia, ma questa campagna è una tragedia!” (magari accentuando il drama feel con una doppia “g” nella parola tragedia per dare più enfasi alla vostra frase)?
Beh, sappiate che in realtà alcune volte dovreste sperare ardentemente che la campagna marketing, il post o la strategia che state andando a produrre abbiano la forza di essere definiti tragedia.
Dal punto di vista squisitamente etimologico, la parola “tragedia” deriva dall’espressione greca tragōidía, composto di trágos, “capro”, e ōidḗ, “canto”. Con il termine tragedia si indicava quindi un atto o rappresentazione in grado, attraverso un sacrificio importante, di placare Dioniso e dare pace all’essere umano.
Nei riti dionisiaci il sacrificio era di solito costituito dall’uccisione di uno più capretti, il cui canto disperato (quel tragos oi dei) rappresentava metaforicamente la purificazione dell’essere umano che donava il suo bene più prezioso al dio del vino, della vite, del delirio mistico e della liberazione dei sensi. Dioniso in cambio, se soddisfatto del sacrificio ricevuto, poteva ricompensare gli autori con viti rigogliose, ottimo vino e ispirazione per le arti mistiche, quelle contrapposte alla dimensione apollinea, una dimensione fatta di luce e serenità.
Le arti mistiche erano un insieme di attività in grado di produrre la zoe, l’accensione di quella scintilla di vita incontrollabile che rende l’essere umano pervaso di energia. Non tutte le rappresentazioni erano degne di acquisire il nome di “tragedia”: per essere assimilate all’effetto vitale del canto dei capri, le rappresentazioni teatrali dovevano essere ricche di pathos, una forma di passionalità ricca di concitazione che infuoca in modo drammatico l’essere umano, a differenza delle commedie, pervase invece dall’ethos, ovvero da una passionalità tenue. La carica di pathos di cui dotiamo una determinata narrazione ne decide la natura e la rende memorabile. Pensiamo a frasi celeberrime come: “Essere o non essere: questo il problema”. Pronunciata da un attore professionista e da un uomo comune, a seconda della carica emotiva, del contesto e dell’occasione, la citazione diventa memorabile o banale, nonostante la cultura comune e condivisa in cui l’abbiamo appresa sia sempre la stessa.
La massima shakespeariana citata è sintomo di uno stato o situazione di dubbio apparentemente irrisolvibile: tale frase può essere trasposta nella semplice quotidianità, assumendo quindi i toni iperbolici del grottesco, o permanere all’interno di spinose problematiche morali, mantenendo la sua austera complessità. Al di là del valore di uso di questa espressione (eh sì, è necessario chiedere aiuto alla semiotica per spiegare questo percorso critico), il valore di base di questa massima ha come carica patemica l’essere brand di una scelta delicatissima, in cui tutte le opzioni disponibili sono cariche di dramma. Se non vi fosse una costruzione narrativa patemica, universale e condivisa allo stesso tempo, il brand di quell’“essere o non essere: questo è il problema” non esisterebbe. Sarebbero solo parole gettate al vento destinate a perdersi fra i meandri delle elucubrazioni mentali. Senza pathos narrativo universale e condiviso non esiste brand.
Perché alla fine, a che cosa serve creare un grande racconto, caricarlo di significato, strutturarlo per renderlo universale se poi lo si tiene chiuso a una ristretta élite e non si è in grado di relazionarlo alla natura umana, in modo tale che l’essere umano stesso si rispecchi in quella narrazione facendola sua attraverso la condivisione quotidiana?
Il brand non è altro che una narrazione condivisa universale, in cui la costruzione patemica fa la differenza di risultato.
In questo manuale, partendo dalle leve relazionali dell’uomo e non del prodotto, cercheremo di capire insieme che ciò che importa per fare brand non riposa solo nella buona grafica, nella buona copertura e nella buona capacità di distribuzione, ma nella costruzione della percezione di quel brand attraverso le relazioni.

Tra noia e fiducia nei ruggenti anni del brand liquido

Per sua definizione, il relationship marketing è quella disciplina che si focalizza sulla crescita del business attraverso la fidelizzazione dei propri clienti. Per questo motivo, è la più socioculturalizzata fra le leve del marketing.
Il RM dovrebbe essere, in tutto e per tutto, una voce di investimento all’interno dei piani marketing, da basare su:
costruzione di nodi di interesse;
sviluppo dei nodi di interesse;
valorizzazione dei nodi di interesse;
polarizzazione dei nodi di interesse;
fortificazione dei nodi di interesse;
trasferimento dei valori dalle “teste di ariete” (influencer o KOL, Key Opinion Leader) dei nodi di interesse a “fattori moltiplicatori” esterni alla rete iniziale, sulla base della credibilità.
In sostanza, in un buon piano marketing dovrebbe esserci una voce di costo e di obiettivo divisa fra “carichi uomo” e “spese esterne” per attuare strategie di relationship marketing. Questa voce, a sua volta, dovrebbe avere non solo un “costo”, ma anche una mission da perseguire per stabilirne i parametri di successo.

Relationship marketing: no mission, no money

Ricordiamoci sempre: “No mission no money. No money no mission”. Se non si è in grado di progettare la mission delle attività relazionali, vuol dire che si pensa di creare “punti di interesse” senza avere una reason why atta a sorreggere quel programma relazionale. E senza reason why, o meglio senza purpose, si può contare su mercenari ma non su patrioti del brand. La differenza sostanziale fra i due tipi di figure è semplice: coi mercenari si sviluppano contratti. Con i patrioti del brand si sviluppa fiducia, ovvero una rete di interesse potenzialmente pronta a “contagiare” altre bolle sociali, in maniera più o meno “pubblicitaria”, perché le reti di branding sono in grado di far scomparire tutte le politiche di pricing per far posto a quelle esperienziali.
Coi mercenari si sviluppano contratti. Con i patrioti del brand si sviluppa fiducia.
Alla fine di questo manuale, al di là di tutto, tenete a mente questo concetto: “People do business with people they know, like and trust” (Bob Burg).

Relationship marketing: mission, money e misurabilità

Una volta assegnati mission & money, il relationship marketing non può rimanere semplicemente una voce di costo. Come ogni leva di marketing, deve avere un suo obiettivo e una sua misurabilità. E qui si apre la grande colpa del marketing relazionale: come si misura? Qual è il suo reale ritorno? Quali sono i parametri?
Misurare il successo di una campagna di advertising è una attività sicuramente non semplice ma numericamente attuabile. Faccio un esempio molto semplice: stabilisco un budget di investimento sul circuito pubblicitario Facebook di 100 euro al giorno su un determinato target. Dopo 60 giorni, consultando il pannello di controllo, vedo che non ho ancora avuto vendite. Posso cambiare dei parametri nella campagna, posso modificare la landing di atterraggio oppure posso scegliere di sospendere la campagna perché so, in maniera oggettiva, che se ho settato bene il tracciamento della campagna, il problema non è in essa ma in ciò che sto promuovendo. In sostanza, posso fare un’analisi numerica con una metodologia scientifica.
Diverso è lo scenario per il marketing relazionale: non è immediato capire i parametri per cui il mio investimento in relationship marketing non mi sta portando i risultati sperati.
In molti, negli anni, hanno cercato di creare delle piattaforme per risolvere questo problema. Non sono forse like e reaction una primitiva forma di misurazione della propria apparente influenza sociale e quindi, per molti, di capacità relazionale?
Facciamo un po’ di ordine sul tema. Il primo grande errore è misurare una disciplina socioculturalizzata come questa attraverso parametri mutuati da altri ambiti. Come facciamo in una campagna commerciale di lead generation? È “semplice”: prendiamo l’investito e i lead ottenuti, valutiamo il costo per lead, dopo X mesi vediamo quanti lead si sono trasformati in contratti. E da lì capiamo che tipo di spesa e su che tipo di piattaforme dobbiamo andare per avere lead di qualità.
Ma qual è il valore di una relazione? Se siamo in ottimi rapporti con un’istituzione ma quella istituzione non ci firma contratti, vale la pena continuare a investire tempo per mantenere quel rapporto?
Per ottenere una risposta a queste domande, è necessario guardare il relationship marketing dal punto di vista dell’assenza e della temporalità. Il RM per essere messo in campo si muove sul budget più raro in azienda: il tempo. Dire che si fanno campagne di marketing di relazione è molto scorretto: si fa marketing relazionale. Punto. 12 mesi all’anno, 365 giorni su 365. Senza se e senza ma. Perché il valore del marketing relazionale e la chiave della sua misurabilità riposano nella sua assenza: quanto vale essere in una foto di una conferenza stampa di un determinato ente territoriale? Molto, se vendiamo servizi territoriali, in quanto l’ente ha dato fiducia alla nostra realtà e ha scelto di mostrarla in pubblico. I risultati del marketing relazionale si misurano in anni, non portano redditività immediata ma buona reputazione, che ci apre porte come nessun servizio di lead generation potrebbe mai fare.
I risultati del marketing relazionale si misurano in anni.
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