Capitolo Quattro
Lâanima dellâanalisi
In studio: il mio setting analitico
Da quando la dottoressa Termini mi aveva ufficialmente riconosciuto come uno psicoanalista mi sono sentito di fatto libero di creare il mio ambiente: instaurare con i pazienti il mio setting analitico, proponendo me stesso, il mio atteggiamento e le mie parole come medicina per le loro sofferenze.
Ma ben presto imparai proprio da loro che le parole servono a poco. Devono essere centellinate e spesso si rivelano inutili se non dannose. Con il paziente si deve semplicemente stare, ascoltarlo, fare silenzio e vivere con lui lo spazio che si condivide. E proprio lĂŹ, isolati da tutto e tutti, dove il tempo si dilata o si restringe, Ăš lĂŹ che la mia anima incontra quella del paziente e puĂČ avvenire la trasformazione.
Non seguo una tecnica, nel mio setting non ci sono molte regole da rispettare. Solo una⊠anzi due. La prima, dichiarata esplicitamente allâinizio quando si decide di lavorare assieme, Ăš questa: dobbiamo vederci con la frequenza di una, due, tre volte alla settimana, in funzione della richiesta del paziente e delle mie possibilitĂ . La seconda, che rimane nel mio cuore, Ăš questa: sono lĂŹ solo per lui o per lei, in quello spazio, in quel momento, non esiste alcuna altra presenza. Stop. Il resto lo regolerĂ di volta in volta il nostro inconscio.
Per esempio, in studio ho il classico lettino slow long ma non invito mai i pazienti ad accomodarsi lĂŹ piuttosto che a sedersi sulla sedia e rimanere vis-Ă -vis. Ognuno sceglie di volta in volta liberamente di sistemarsi come lâistinto detta, per sentirsi il piĂč possibile a proprio agio. Durante una seduta il paziente puĂČ preferire di rimanere di fronte a me, guardarmi dritto negli occhi, oppure sentire il bisogno di avvicinarsi un poâ di piĂč quasi per abbracciarmi, altre volte puĂČ scegliere di sdraiarsi sul lettino, per cercare un posto lontano, per star solo, isolato e protetto dal muro su cui appoggia.
Ho avuto una paziente che cercava regolarmente il lettino ma lo usava in maniera tutta sua, sdraiandosi su un fianco, in posizione fetale, in modo da potermi comunque guardare in viso nonostante io fossi fuori traiettoria. Ricordo anche che avvertiva il calore del lettino quando il paziente precedente si era alzato da lĂŹ poco prima e me lo sottolineava quasi con fastidio, come se fosse gelosa di quel âsuoâ spazio usurpato.
Attualmente, ho un paziente che preferisce stare in piedi durante quasi tutta la seduta. Si sbraccia camminando su e giĂč per lo studio. Sente evidentemente il bisogno di recitare e riempire tutto di se stesso. Io allora mi faccio piccolo, accovacciato sulla sedia e lo aspetto rassicurandolo di non temere se cerca il suo spazio: gli trasmetto cosĂŹ la certezza che non lo lascerĂČ solo a causa di questo suo bisogno.
Durante le sedute il tempo non esiste, tutto Ăš legato alla storia del paziente e anche i minuti prendono il ritmo soggettivo abbandonando lâoggettiva linearitĂ . Ogni storia personale si dissocia facilmente dalla realtĂ esterna e pesca nel suo mondo interiore costellato di fantasmi e angosce dove esiste solo la veritĂ del paziente, quello che lui o lei ha provato e prova ora lĂŹ, in seduta con me. Il resto non mi interessa. Non sono un giudice, non premio nĂ© condanno, tanto meno cerco un racconto storico. Devo solo permettere al mio paziente di capire se stesso e, se riesce, di perdonarsi.
Il dottor Pauletta, la dottoressa Cattaneo, il dottor Casati e poi la dottoressa Termini mi hanno fatto capire che bisogna stare col paziente dimenticando se stessi. Jung mi ha insegnato a non temere di confondermi con lui. Io cerco il mio paziente in fondo, nellâanima, per questo non ho bisogno di carta e penna, nessun appunto, nessun taccuino, solo noi due, dallâinizio alla fine. Il nostro stare assieme Ăš un immergerci nellâinconscio sapendo di poterci incontrare lĂ dove fino a quel momento la veritĂ era nascosta a entrambi.
Francesco: da paziente a padre
Una volta il professore Augusto Romano, fondatore dellâarpa a Torino e autore di importanti testi di psicoanalisi, mi chiese se fossi innamorato di Jung. Non so se lâespressione âinnamoratoâ mi si addica e sia giusta. Sicuramente lui Ăš stato piĂč fortunato di me se ha saputo riferire a Jung sentimenti cosĂŹ nobili. Devo perĂČ dire che mi sento un suo conoscitore, spesso ho pensato, e forse Ăš vero, di aver ricalcato piĂč o meno consapevolmente la sua strada. Certo, con la fortuna che lui lâaveva giĂ percorsa. Buona parte della mia vita Ăš stata illuminata da lui.
Non ho dubbi, oggi come allora riconosco alla psicoanalisi, e in particolare a Jung, il merito della mia formazione personale e professionale. PerĂČ, altrettanta riconoscenza la devo ai miei pazienti.
Scriveva proprio Jung: «Lâincontro tra due personalitĂ Ăš come il contatto tra due sostanze chimiche: se câĂš qualche reazione, entrambe si trasformano». Ogni lavoro terapeutico con un paziente Ăš per me un incontro dove metto in gioco me stesso. Incontro il paziente lĂ dove lui mostra la sua sofferenza: spesso, alla fine, il paziente si sente capito e allo stesso tempo io mi arricchisco nel costatare come il dolore possa mutarsi in energia rigenerante.
Trovo straordinario e rimango sempre stupefatto davanti alle soluzioni, alla creativitĂ dellâinconscio dei miei pazienti. Ogni volta mi dico: «Meno male che non ho suggerito niente e non ho dato consigli di nessun tipo. Quando mai sarei riuscito a immaginare una soluzione cosĂŹ originale? Mai». Ecco, questa Ăš la gioia di vedere che il bene vince sul male ma non schiacciandolo e annullandolo, bensĂŹ trasformandolo, utilizzandolo positivamente. CiĂČ Ăš per me, tutti i giorni, un vero cibo per lâanima.
Il primo paziente che mi insegnĂČ questo, mostrandomi anche i giusti tempi di quella che Ăš una crescita personale, non solo verso il superamento del sintomo o della gestione delle proprie pulsioni, ma verso lâindividuazione di SĂ©, fu Francesco.
Quando venne da me, aveva quarantâanni. Francesco soffriva di attacchi di panico. Lui, un uomo di quasi un metro e novanta, spalle larghe, fisico asciutto, espressione seria e posata, si presentĂČ subito come uno sportivo a livello semiprofessionistico. Grande cultore di arti marziali e amante della montagna. Ed era stato proprio su una di queste, mentre saliva una ferrata, che improvvisamente, a ciel sereno, venne colpito dal primo attacco di panico. Non riusciva piĂč nĂ© a salire nĂ© a scendere. Se ricordo bene, hanno dovuto chiamare lâelicottero per portarlo via. Ricoverato in un pronto soccorso, gli fecero gli esami del caso, ecg e sierologici e tutto era negativo. Gli diedero 15 gocce di Lexotan e venne dimesso.
Passarono dieci giorni, stessa situazione, fortunatamente non piĂč su una ferrata ma su un percorso verso una baita, Francesco cadde in uno stato di angoscia terribile, sudorazione, tachicardia, paura di morire e non riuscĂŹ piĂč ad andare nĂ© avanti nĂ© indietro. Alla fine, arrivĂČ il soccorso con la barella e lo portarono in un altro ospedale. Solito protocollo ma finalmente qualcuno gli suggerĂŹ di andare da uno psicoterapeuta. Francesco era una persona estremamente intelligente e se pur con molte resistenze capĂŹ che doveva fare qualcosa. Forse i medici avevano ragione. E cosĂŹ ruzzolĂČ nel mio studio.
Aveva una personalitĂ un poâ rigida.
Nella sua vita tutto era passato attraverso un unico canale: la volontĂ . Aveva infatti una volontĂ ferrea e una personalitĂ di tipo ossessivo. PerĂČ, fino a quel momento aveva funzionato. Sembrava dirsi quasi con sorpresa: «Come mai ora questo inciampo, cosa mi Ăš successo?».
Alla prima seduta, lo ascoltai e non commentai quasi nulla. Lui si soffermĂČ soprattutto, come peraltro fanno tutti gli ex traumatizzati, nel descrivermi nei minimi particolari lâaccaduto e i suoi sintomi. Ogni tanto si fermava durante il suo racconto quasi a chiedermi il permesso di poter continuare. Lo rassicuravo: «Lei puĂČ dirmi quello che vuole. Questo Ăš il suo spazio. Lo puĂČ utilizzare come crede».
Prima di lasciarci, alla fine della prima seduta, suggerii a Francesco lâidea che lâattacco di panico, per quanto brutto e sgradevole, potesse non essere stato solo un evento negativo. CosĂŹ come la lampadina rossa si accende sul cruscotto della macchina perchĂ© manca lâolio, lâattacco di panico poteva essere un messaggio di allerta ma non un danno. Certo fastidioso, che obbligava a fermarsi, ma cosa sarebbe successo se non fosse scattato, se non si fosse accesa la lampadina rossa? Lâattacco di panico Ăš infatti un sintomo, forse unâoccasione per cambiare qualcosa.
Lui mi ascoltĂČ ma percepivo la sua perplessitĂ di fronte alle mie parole. Faticava a credere che quellâesperienza cosĂŹ terribile potesse essere unâoccasione positiva. Ma era tempo di lasciarci, lui si alzĂČ e andĂČ verso lâuscita. AprĂŹ la porta e la tenne ferma, socchiusa, mi guardĂČ e mi disse: «Lei mi ha detto che le posso dire quello che voglio».
«Certo».
«Secondo lei il fatto che mia moglie sia ancora vergine potrebbe avere a che fare con lâattacco di panico?».
«Non lo so, vedremo».
«Buongiorno».
«Buongiorno».
Da buon sportivo e con la volontĂ che si ritrovava, Francesco non si sottrasse dallâaffrontare la sua triste situazione affettiva. In effetti lui non aveva mai avuto un rapporto sessuale, si considerava impotente e di fatto lo era. In realtĂ , perĂČ, le cause della sua impotenza non erano, come lui riteneva, organiche ma psicogene. Su mio suggerimento fece infatti tutti gli esami del caso in un reparto di urologia e lâesito fu: impotenza psicogena.
Lavorammo molto sulle cause della sua impotenza, le tralascio qui perchĂ© insignificanti rispetto allâevoluzione. Dico solo che gli attacchi di panico scomparvero quasi subito. Rimase in lui una memoria fisica dellâattacco che sapeva ben gestire. AffrontĂČ invece il problema della sua impotenza e soprattutto il rapporto che aveva con la moglie.
Era vero, la moglie era ancora vergine. Per dirla come lui semplificava: «La venerava come una Madonna». SĂŹ, ma con la Madonna non si fa lâamore. Poi, venne il giorno in cui decisero di avere un rapporto. Tutto ok, funzionĂČ, riuscirono a fare lâamore e ci presero gusto. Forse alla fine lo facevano piĂč spesso di quanto mediamente lo facciano le coppie della loro etĂ . Dovevano recuperare.
Câera perĂČ un problema: il calendario biologico della moglie. Francesco durante lâanalisi aveva affermato piĂč volte che non amava i bambini. Ma ora che poteva averne uno, non aveva dubbi: lo desiderava con tutte le sue forze.
Divenne padre due volte.
Forse molti, e tra questi mi ci metto anche io, si sarebbero aspettati che Francesco a questo punto chiedesse di chiudere con la terapia, avendo apparentemente risolto tutti i suoi problemi. E invece no. Non solo non esprimeva questo desiderio ma continuava a portare in seduta tanto materiale, tanti sogni e una sensazione soggettiva da me condivisa che ci fosse qualcosa di non risolto nella sua vita.
Francesco si definiva ateo e per sua ammissione non aveva alcuna sensibilitĂ religiosa. Quindi, per tutta la prima parte dellâanalisi, direi che mai si parlĂČ di valori trascendentali e tanto meno di una religione professata. Credo covasse anche qualche sentimento anticlericale. ...