Ripartenza o Apocalisse?
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Ripartenza o Apocalisse?

Pasquale Ciacciarelli

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Ripartenza o Apocalisse?

Pasquale Ciacciarelli

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Una grande voglia di riscossa.
Che va al di là dei disastri, sanitari ed economici, dovuti al Covid-19 e al modo in cui il governo Conte II ha gestito l’emergenza.
La pandemia non spiega tutto. E non giustifica niente. L’Italia era già malata da prima e se vogliamo guarire davvero dobbiamo partire da qui. Da un brutale inventario dei guasti e dei vizi che ci affliggono.
Il lato oscuro è questo. Quello luminoso, invece, è l’insieme degli straordinari talenti di noi italiani. Dobbiamo fare in modo che possano esprimersi appieno: la riscossa che vogliamo arriverà di conseguenza.

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Information

Verlag
Kimerik
Jahr
2021
ISBN
9788855167406

VII. I giovani: un entusiasmo da riaccendere
Una “questione giovanile” esiste davvero, qui in Italia.
Ed è grave. O persino gravissima. In essa, infatti, si riversano sia le ombre del presente, dovute a una lunga serie di vizi maturati in precedenza e mai corretti, sia quelle che aleggiano sul futuro, sull’onda di un acuirsi della competizione economica internazionale e dell’avvento ormai incombente dell’Intelligenza Artificiale.
Il ventaglio di queste traversie è molto ampio, e in un modo o nell’altro se ne parla parecchio, ma un rapidissimo riepilogo va fatto. Chiarendo immediatamente, però, che il termine “giovani” rischia di essere fuorviante: se è vero come è vero che la crescente insicurezza delle condizioni socioeconomiche investe i nati dagli anni Settanta in poi, è molto più corretto parlare di “nuove generazioni”.
Basti ricordare, al riguardo, che lo stravolgimento del sistema pensionistico con il passaggio dal calcolo retributivo a quello contributivo risale a venticinque anni fa, con la Legge 8 agosto 1995, n. 335 (la cosiddetta Riforma Dini): un ciclone che si è abbattuto su chiunque non avesse ancora maturato il diritto di lasciare il lavoro alle condizioni previgenti, ma che ha colpito in pieno chi abbia iniziato a lavorare dal primo gennaio 1996.
In pratica, quindi, chiunque sia nato dopo il 1970 si è trovato a dover “giocare” una partita diversa e sempre più difficile. Che nei decenni successivi si è aggravata ulteriormente, sotto il peso di molteplici spinte: la “riforma Biagi” del mercato
del lavoro introdotta dal Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276, la crisi mondiale del 2008, e via peggiorando.
L’asse portante di questo inasprimento senza fine è la dilagante difficoltà nel trovare un’occupazione stabile, in linea con gli studi compiuti e retribuita in maniera almeno decente. La precarizzazione dei contratti e le penose conseguenze sull’ammontare delle pensioni non sono affatto delle difficoltà transitorie ma una realtà strutturale. Così come lo è il persistente divario tra Nord e Sud.
Un quadro desolante e autolesionista che induce troppi giovani, e spesso dei più qualificati, ad andarsene all’estero.
È il noto e irrisolto problema dei “cervelli in fuga”: connazionali che studiano qui, e quindi a carico, per lo più, della Pubblica Istruzione e delle casse dell’Erario, ma che una volta laureati se ne vanno a lavorare altrove. Facendo una scelta di sopravvivenza o di affermazione individuale che, per quanto comprensibile, segna una duplice sconfitta: per loro che si consegnano a una vita lontana dalle proprie radici; per l’Italia intera che perde delle energie di valore, che essa stessa ha formato e che potrebbero rafforzarla.
Che occuparsi di tutto questo sia doveroso e urgente non c’è alcun dubbio. Ma per farlo come si deve bisogna subito sgombrare il campo da una mistificazione insidiosissima. Allestita, manco a dirlo, allo scopo di falsare i termini del problema nel tentativo, l’ennesimo, di disconoscere qualsiasi responsabilità “di sistema” per gli squilibri sociali ed economici che si sono prodotti nel nostro Paese negli ultimi decenni. Quando, cioè, si sono venute a sovrapporre due tendenze di segno opposto.
Di qua l’impostazione tipica della Prima Repubblica, che un po’ per idealismo e molto per clientelismo, o quantomeno per demagogia elettorale, aveva spinto verso un’espansione accelerata del benessere diffuso, a colpi di innalzamento dei livelli di reddito e di ampliamento delle misure di welfare.
Di là l’affermarsi sulla scena internazionale di una controffensiva liberista, sorta tra Inghilterra e USA sull’asse Thatcher-Reagan, che ha iniziato a enfatizzare il ruolo dei Mercati mitizzandone le capacità di autoregolazione e apprestandosi così a erodere, qui in Europa, le tutele in chiave socialdemocratica che erano state introdotte dagli anni Cinquanta in poi.
Questa mistificazione, talmente ripetuta e strombazzata da essere diventata un luogo comune, è la cosiddetta “guerra generazionale”. O addirittura la “guerra civile generazionale”. Qualcuno ci aggiunge anche l’aggettivo per sottolineare la natura fratricida di uno scontro che avviene all’interno della medesima nazione. Tra padri e figli, diciamo così. O tra nonni e nipoti.
Secondo i sostenitori di questa pseudo spiegazione, infatti, la responsabilità delle enormi difficoltà con cui sono costrette a misurarsi le nuove generazioni è di chi è nato in precedenza e ha dilatato eccessivamente i propri benefici, dapprima lavorativi e poi pensionistici. Dopo di che, appellandosi al principio giuridico per cui i diritti acquisiti non possono essere toccati, si sarebbero rifiutati di riconoscere che quei vantaggi si sono via via trasformati in favoritismi. Il cui prezzo, ormai insostenibile, ricade appunto sui piÚ giovani.
Che cosa c’è che non va?
È presto detto: quello che non va – e che dovrebbe balzare agli occhi – è che gli artefici di questa situazione non sono affatto le generazioni precedenti, prese in blocco e senza distinguere tra chi ha avuto un potere decisionale e chi invece si è limitato a fruire delle normative esistenti. Mettere la cosa in questi termini significa colpevolizzare una miriade di cittadini che non hanno fatto nulla di deliberato contro le nuove generazioni e che ancora meno hanno progettato quel divario a proprio vantaggio.
L’esito è paradossale. Ma per nulla casuale.
Colpevolizzando la massa indistinta dei cittadini, infatti, le classi dirigenti si autoassolvono dall’avere operato male. O dal non avere operato affatto, lasciando che certe dinamiche si snodassero da sé. Si aggravassero da sé.
Delle due l’una: o quegli sviluppi socioeconomici non si potevano prevedere, e figuriamoci pianificare, e in tal caso il torto per quello che è accaduto in seguito non è di nessuno, ma men che meno della generalità di quelli che sono nati prima degli anni Settanta; oppure si tratta di tendenze che era possibile immaginare, o persino predisporre, e quindi la responsabilità ricade in massima parte su chi ha governato, senza assolvere al compito di prospettare gli scenari futuri e di individuare le soluzioni ai problemi che ne sarebbero scaturiti.
Certo: nel corso degli anni non sono mancati coloro i quali hanno approfittato di determinate situazioni e di determinate norme. Come quella, per citarne solo una, delle assurde “baby pensioni” che grazie a un Dpr di fine 1973 consentivano
ai dipendenti pubblici di lasciare il lavoro con enorme anticipo, fino al caso estremo delle donne sposate e con figli che potevano farlo con appena quattordici anni sei mesi e un giorno di contributi versati. Ma l’opportunismo dei privati non basta certo a ribaltare i termini della questione: la colpa degli immani squilibri che si sono manifestati in seguito è innanzitutto di chi, rivestendo delle cariche pubbliche, quelle situazioni collettive le ha assecondate e quelle norme le ha emanate. Non dei singoli cittadini, ancorché numerosi, che se ne sono avvalsi.
L’onere del governare consist...

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