PARTE PRIMA | Valore della nonviolenza, valori per la nonviolenza |
Lâabbraccio festivo: educazione e nonviolenza
Il conoscere il mondo è connesso
con il volerlo cambiare
Aldo Capitini
Per il mio punto di vista, le materie vengono ricondotte a valori, e perciò lâeducatore le costruisce e le vive associandole ad un valore da vivere preliminarmente, con la fiducia che nellâatto di educare questo valore non va perduto, ma vive nellâeducando [...] Facciamo un esempio: io insegno la botanica, ma preliminarmente a questo studio è lâattenzione affettuosa che ho âalle pianteâ, la gioia per il loro dispiegarsi, il dolore per il loro appassire; i nomi delle piante, le loro varie forme e molteplici manifestazioni, sono cose connesse che seguono al valore che è il sentirsi vicini e uniti ad esse; se io ho rinunciato a un sapere che prescinda da un valore, soltanto nella struttura del valore unito al sapere vivrò lâinsegnamento in questa parte; nellâatto di edu-care, ho la certezza che il valore non è estraneo allâeducando, e che se egli lo vede in me, ne ha una conferma in sĂŠ, ed anche potrĂ andare oltre nellâintensificazione dellâamore per tutti gli esseri: il sapere egli se lo cercherĂ sulla base di questo valore, se lo costruirĂ attraverso domande a me o sue letture, e ricerche o esperienze1.
Nella mia travagliata ricerca giovanile di un orizzonte che non avesse chiusure, lâincontro con Aldo Capitini una decina di anni fa è stata una salvezza. Pur amando molta riflessione filosofica e pedagogica, capace di aprire il cuore, sentivo che lo studio non bastava, che nei singoli pensatori che incontravo restavano aree inesplorate o non toccate affatto dallâapertura promossa. Amavo Mounier e la sua scrittura, ma non trovavo il posto dellâanimale; amavo la Montessori e Dewey ma non mi comunicavano lâappassionamento verso un cambiamento che va oltre e su taluni aspetti tacevano del tutto. Don Milani, Danilo Dolci, Mario Lodi, Gianni Rodari mi appassionavano. Quando mi imbattei nel libro curato nel 1970 dal preside Virgilio Zangrilli, Pedagogia del dissenso, vi trovai una sintetica disamina del pensiero di Aldo Capitini. Un uomo assetato di infinito, a cui nessun âprogressoâ bastava, che finalmente scardinava da dentro il meccanismo odioso del potere, anche nellâeducazione, e guardava a Tutti, nessuno escluso: tutti gli esseri venuti alla vita, tutti uniti dallâabbraccio della compresenza, tutti nel movimento cooperativo verso la liberazione.
Liberazione che necessita della presenza di ciascuno, pur non aspettando una sorta di unanimitĂ di intenti, perchĂŠ sa iniziare ora, dispiegandosi in ogni atto di apertura al tu, di nonuccisione, di nonmenzogna, di noncollaborazione con il male, rivelandoci, soprattutto in alcuni momenti, lâorizzonte di Tutti, la compresenza perfetta, la luce del mattino. In quei momenti epifanici lâorizzonte festivo si fa presente e trasfigura la realtĂ cosĂŹ limitata in cui viviamo, mostrandoci che lâapertura nonviolenta non è una sorta di deposito crediti che vale per un aldilĂ ultraterreno, tantomeno per mettere al riparo la nostra anima, ma è quotidianitĂ che si allarga oggi, fenditura, crepa, ferita finanche nel tessuto apparentemente fitto e robusto della violenza ordinaria; finestra da cui ci si può affacciare per vedere lo splendore della festa, che non al di lĂ , ma proprio qua e si svilupperĂ pienamente in un âdomani sperabileâ.
La nonmenzogna, fondamento dellâunitĂ con lâaltro
Io non sono solo, non sono il solo individuo, altri furono. Prima di me, altri vi sono ed altriverranno: individui esistenti concretamente, pensanti e viventi, con una incomparabile somiglianza a me. Se unâunitĂ intima mi lega al libro, allâopera dâarte del tale o del talaltro, unitĂ mi lega con lâaltro essere umano. Egli non è tanto altro che non vi sia unâunitĂ profonda, un atto che ci leghi. Come ho sperimentato tante volte che, giunto dinanzi ad un paesaggio nuovo, pure qualche cosa mi pareva che di familiare ci fosse tra me ed esso; cosĂŹ non trovo mai un essere umano con cui non senta una certa familiaritĂ e che qualche cosa di importante mi possa legare a lui. Con la persuasione religiosa approfondisco la consapevolezza che lâaltro è un individuo esistente, presente. Il proposito di non mentirgli mai, rinnovato ad ogni istante, vince continuamente lâessere separati, quella separazione che non è la differenza spirituale che ha pur sempre una base di unitĂ , ma la separazione materiale, di cosa vicino a cosa. Io potrò propormi fini altri quanto si voglia; ma lâaltro non lo avvicino in modo assoluto a me, e resta fuori finchĂŠ penso di mentirgli2.
Il mondo appare diverso dopo lâesperienza incarnata dellâapertura al tu. La compresenza, corredata del tratto misterioso ai piĂš che esprime lâaggettivo âescatologicoâ, si mostra per quello che è: non teoria filosofica o credo religioso, ma âvita da provareâ, non accertabile fuori dallâapertura. Quando lâesperienza è avvenuta, la realtĂ non sarĂ piĂš la stessa nĂŠ in sĂŠ, nel suo essere oggettivo, nĂŠ agli occhi di chi ha vissuto lâunitĂ -amore e il suo potere tramutativoliberante. In essa si è inserito âlâatto atomico della nonviolenzaâ, dice Aldo in piena guerra fredda. Da quel momento, comincia il cammino.
Abbiamo tentato di non dare la morte nĂŠ col pensiero nĂŠ con lâatto, per vedere se la realtĂ ci seguisse?
Questa frase illumina sulla qualitĂ dellâazione nonviolenta, che non mira ad agire âsulla realtĂ â alla maniera dellâhomo faber, del costruttore, dellâingegnere, il mito moderno del soggetto onnipotente in grado di forgiare il mondo secondo i propri scopi e i propri desideri di autorealizzazione. No, non è quella lâazione che può tramutare la struttura intima della realtĂ . Può al piĂš ben amministrare quanto giĂ esiste; piĂš di frequente limitarsi a riprodurne i limiti e le iniquitĂ pur di perseguire quanto si prefigura. Lâazione nonviolenta, di cui quella educativa è espressione massima â è piuttosto quella dellâhomo religiosus, che accarezza le cose con gratitudine e non distrugge, abitato dalla consapevolezza che con la silenziosa aggiunta dellâapertura quotidiana a tutti, il mondo cambia, la realtĂ si accende e va.
Credo che nella visione capitiniana, sintetizzata nella frase di prima, ci sia la svolta antropologica della nonviolenza, insieme alla critica verso la societĂ attivistica che lavora puntando obiettivi (parola bellica!), si rivolge a target (parola bellica!), adotta strategie dâazione (parola bellica!), pianifica e misura i risultati. Certo Aldo non si trova immerso nel linguaggio che ogni giorno subiamo in ogni contesto, il linguaggio ingegneristico-funzionale-gestionale-finanziario (sempre di matrice bellica!) che ammorba come una micosi la comunicazione contemporanea plasmando le menti a sua misura. Ma Capitini conosceva bene lâubriacatura industriale (e bellica!) che rinfocola gli entusiasmi da fine Otto-cento al fascismo e vuole parlare con un altro linguaggio, pur non maturando alcuna nostalgia antimodernista e contraria al progresso tecnico. Il punto di osservazione è diverso, e la sua frase illumina su questo anche chi voglia incamminarsi. Ă facile â specie negli ambienti dove è ipertrofica la riflessione a scapito dellâazione â come lâuniversitĂ , proporre analisi che iniziano dalla decostruzione della violenza â il suo linguaggio, le sue forme, i processi â per poi elaborare lâeventuale proposta innovativa, di segno diverso. Non è strano in questi casi verificare che di innovativo câè poco e si qualifica piĂš come ânon violentoâ che come ânonviolentoâ. La fusione delle due parole, nota a chi conosce Aldo, ci riporta allâincoraggiamento di prima: non partiamo dalla realtĂ violenta, partiamo piuttosto dal punto di osservazione che lâapertura al tu ci ha dispiegato, quello in cui ci siamo ritrovati esperendo la compresenza, e da lĂŹ riguardiamo la realtĂ : ci segue? Allora essa appare trasfigurata, non piĂš solo affetta dal limite, dal dolore, dallâingiustizia, dalla morte, ma anche illuminata dalla luce del mattino; non piĂš pesantemente ancorata a un passato-presente scoraggiante, ma capace di alzarsi in volo.
Ă lo sguardo, o forse sarebbe meglio dire lâabbraccio, del profeta, direbbe Aldo, qualificando â di tutti gli amici della nonviolenza â proprio chi fa lâeducazione.
Parlare di educazione e nonviolenza significa avere interesse per tutta la realtĂ , osservandola con lâocchio del profeta. La dimensione che attraversa tutta la nonviolenza è quella educativa, quella di un amore pensoso che intessendo relazioni feconde, genera la realtĂ liberata. Certo la qualificazione nonviolenta dellâeducazione chiede â e a gran voce oggi â una riflessione radicale della pedagogia come sapere che troppo spesso ha riprodotto i rapporti di potere, gli stereotipi culturali, i limiti della realtĂ piuttosto che eroderli internamente offrendo contesti, modalitĂ , contenuti audacemente oltre il confine, non di rado asfittico, del fare educativo sancito dalle istituzioni e dalle pratiche comuni. La pedagogia oggi rischia di aver ben poco da dire senza lâimpulso nonviolento e, omettendo un discorso coraggioso di critica e di proposta che non rimescoli obsoleti richiami retorici a valori in via di estinzione, nuoce ai piĂš fragili: i piccoli, le nuove generazioni, i giovani che iniziano la vita assetati accanto a pozzi secchi e presto si assuefanno a uno stato di carenza di orizzonti cronico e disperante.
Lâeducazione nonviolenta invece si nutre della âviva dualitĂ â tra la realtĂ limitata e la realtĂ liberata, di un dinamismo fatto della speranza incarnata da maestri e maestre che, prima delle materie scolastiche, prima delle regole del vivere civile, prima della formazione professionale (tutte cose transeunti, opinabili e piĂš che mai oggi incerte), vogliono, desiderano vivere la vita con i piccoli, abbandonando clichĂŠ, spogliandosi dei ruoli e cominciando a guardare anche lâeducazione dal âpunto di arrivo comuneâ: la festa.
Se deflagrasse nellâeducazione la dimensione festiva, come unica vera tonalitĂ del vivere insieme e dellâeducarsi insieme, si aprirebbe la stagione rivoluzionaria â e come tale osteggiatissima da ogni potere â del piacere nei luoghi della vita e dellâeducazione. Il piacere dei genitori di giocare e studiare e scoprire il mondo con i loro figli; il piacere delle maestre di consegnare ai bambini le chiavi preziosissime degli universi scritti nei libri e il brivido di avventurarvisi; il piacere di incontrarsi e riconoscersi per creare, inventare il futuro; il piacere anche quello esplicitamente corporeo di darsi la mano, abbracciarsi, tenersi vicini quando si ha paura, stringersi forte quando ci si desidera.
Troppo è dominata nel considerare lâeducazione lâidea di armonia delle attitudini, delle facoltĂ , delle esperienze, e la tradizione della civiltĂ greco-europea ha presentato proprio qui uno dei suoi aspetti dominanti; il concetto di educazione è ravvivato, invece, e sottratto ad un pericolo conservatore, proprio introducendovi una viva dualitĂ , inserendo cioè in esso un elemento di tensione che discrimina il passato e chiede un futuro; e poggia quindi maggiormente su ciò che è liberante, trasformante, creativo. [...] Entra nella pedagogia la fiducia di potersi occupare anche di quelli che sono considerati strumenti di liberazione (o vie del dover essere) etici, religiosi, sociali, estetici, in quanto essi operano come valori educativi; parte che di solito non si guarda, badando piuttosto allo studio dellâessere, e perciò ai sistemi di istruzione, ai lati psicologici e sociologici. [...] Mi pare, cioè, che lâeducazione debba dare il senso di una tensione, di una insoddisfazione per ciò che câè; e che la pedagogia debba anchâessa aggiungere al suo molteplice e indispensabile lavoro, questa attenzione e questo aperto studio di tensioni alla liberazione come operarono e come ancora opereranno3.
Quello che è mancato alla nostra civiltĂ frastornata dallâattivismo scientista della modernitĂ e dellâindustrializzazione, quello che riemerge forte negli anni Sessanta e Settanta per poi subire lâaffossamento della cultura dominante e che rappresenta il cardine, a mio avviso, di ogni pedagogia possibile oggi è il piacere. Che è del corpo, nel corpo, tra i corpi.
Lâeducazione è stata troppo a lungo intristita dallâideologia del sacrificio e della sofferenza (espiatoria e ascetica) che hanno intriso di mortificazioni anche lâidea di impegno (e in quanti ambienti âimpegnatiâ è ancora cosĂŹ!). Lo mostra con chiarezza lâunitĂ modulare omologata, costrittiva e immobilizzante del banco, via via piĂš rigido e scomodo man mano che si sale verso le scuole superiori e lâuniversitĂ . Negli spazi educativi istituzionali tutto comunica controllo e disciplinamento: restare âinchiodatiâ alla cultura dei grandi che ci hanno preceduto, chiedendo il permesso anche dopo i 18 anni per andare in bagno, passando le giornate in posizioni innaturali che deformano il corpo con gli anni e uccidono lâentusiasmo dei piĂš. E mentre il corpo è immobile, si pretendono menti dinamiche; mentre il corpo è reso rigido, si pretendono personalitĂ flessibili; mentre si vive troppe ore di troppi anni in luoghi chiusi, si pretendono menti aperte; corpi omologati e menti capaci di accogliere le differenze.
I riottosi â cioè quelli con un residuo di vitalitĂ resistente â saranno presto bollati come patologici, bisognosi di diagnosi e trattamento, una modalitĂ dilagante di trasformare in etichette medicalizzate quelli che ieri erano comunque i soggetti indisciplinati, fastidiosi, intemperanti rispetto alle regole di mortificazione senza scopo dellâeducazione. Senza scopo? No, con uno scopo implicito ma ormai chiarissimo: ridurre â non facilitare! â lâautonomia di azione e di pensiero, la libera iniziativa, lâespressione creativa e sfornare a tempo debito un suddito ben confezionato pronto alla societĂ dello sfruttamento lavorativo tardo-moderno e del relativo consumo compensativo e vorace. Nellâillusione di essere cittadini liberi di scegliere.
Molto è peggiorato, dalle analisi degli anni Settanta, anche nei contesti educativi. E chi fa lâeducazione è piĂš che mai privo di chiavi di lettura innovative. La nonviolenza è una di queste, forse lâunica in grado di scrivere ex novo il lessico dellâeducazione, ma necessita della metanoia dellâeducatore/trice stesso/a, la sua conversione interiore, quellâesperienza della festa che ribalta i punti di osservazione e può avviare movimenti rivoluzionari. Gli atti dello smascheramento, di togliere i veli, di additare i re nudi non sono affatto obsoleti e acquistano potere liberante se vissuti dentro pratiche radicalmente diverse, che certo richiedono e richiederanno lotte agli educatori. Lotta: la parola piĂš sconosciuta a chi vive nelle realtĂ educative, piĂš facilmente incline a descriversi come âin trinceaâ. Ma noi sappiamo che la nonviolenza
non è lâantitesi letterale e simmetrica della guerra, qui tutto infranto lĂŹ tutto intatto. La nonviolenza è guerra anchâessa, o, per dir meglio, lotta, una lotta continua contro le situazioni circostanti, le leggi esistenti, le abitudini altrui e proprie, contro il proprio animo e il subcosciente, contro i propri sogni, che sono pieni, insieme, di paura e di violenza disperata. La nonviolenza significa esser preparati a vedere il caos intorno, il disordine sociale, la prepotenza dei malvagi, significa prospettarsi una situazione tormentosa4.
Quello che è mancato anche alla riflessione nonviolenta dei padri e che può rappresentare una pista di ricerca interessante, soprattutto nellâeducazione, è sta...