Orientamento
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Orientamento

Le qualità umane e il mondo digitale

Paola Parente

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Le qualità umane e il mondo digitale

Paola Parente

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Cosa significa orientare e che cosa significa orientare oggi?Orientare oggi significa inserire questo tema nei percorsi di crescita dei ragazzi in maniera strutturata e consapevole, in modo da poter 'vedere' la persona (prima della risorsa umana) e le 'qualità umane'.Per realizzare questo non basta solo intervenire sui gap di competenze oppure nominare precocemente le competenze, ma è necessario che i ragazzi e gli adulti sviluppino tre dimensioni: •un orientamento maturo, la capacità di compiere scelte consapevoli;•la capacità combinatoria, il lavoro della nostra memoria che sa e può comporre e ricomporre i saperi in funzione di risposte sempre competenti e pertinenti ai diversi contesti;•l'approccio scientifico, ovvero saper sviluppare una ricerca sapendo raccogliere, selezionare e analizzare i dati per continuare ad andare avanti nella conoscenza.Questo libro nasce da un'idea di riflessione sull'orientamento come percorso fondamentale per sostenere le persone e la collettività nelle scelte di vita e di lavoro. Indaga sul significato delle parole che definiscono oggi i percorsi di crescita delle nuove generazioni: lavoro, posto di lavoro, competenze. Un'indagine per riflettere sulla costruzione del passaggio tra la formazione e lavoro e analizzarne i pericoli che mettono in difficoltà questo delicato passaggio.

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Information

Verlag
Hoepli
Jahr
2021
ISBN
9788836006342

1. L’orientamento e il lavoro

“… non so che cosa dire di me, mi aspetto che sia l’azienda a dirmi quello che so fare.”
(Un ragazzo in cerca del suo primo lavoro)
Vorrei introdurre questa riflessione sull’importanza dell’uso corretto delle parole partendo da un episodio accaduto all’inizio degli anni Novanta, quando furono istituiti i nuovi Diplomi Universitari (L. 341 del 13 novembre 1990). All’epoca lavoravo per un’azienda speciale della Camera di Commercio di Napoli e collaboravo alla gestione di un progetto formativo che affiancava con attività professionalizzanti i giovani che frequentavano questi nuovi percorsi accademici. Il progetto prevedeva l’incontro degli studenti con le realtà produttive attraverso visite, stage, testimonianze in aula, ed io ero la responsabile della relazione con le aziende. Tra le tante attività organizzate in quegli anni avevo previsto la visita del polo aerospaziale di Tolosa, un sito di grande interesse per i giovani studenti della Facoltà di Ingegneria. Arrivando al centro che testa i satelliti ci fecero accomodare in una sala con una grande vetrata: da quella vetrata potevamo vedere il futuro. L’ambiente circostante era di un bianco accecante interrotto solo dalla grande apertura della galleria del vento e anche le persone intorno al satellite erano a loro volta vestite di bianco dalla testa ai copri-scarpa, l’atmosfera era fantascientifica. Uno dei miei studenti, evidentemente impressionato da tale vista, mi guardò e disse: “questi sono tutti scienziati, avranno tutti tre lauree, a me basta che mi diano un posto di lavoro”.
Io non risposi e invitai Luca a porre la domanda alle persone vestite di bianco per capire quali studi avessero seguito. Quel giorno la fortuna volle che il satellite che veniva testato fosse RAI SAT, dunque italiano, e la squadra di lavoro impegnata venisse da Roma, dall’Alenia Spazio. Luca si rivolse al caposquadra, un simpaticissimo signore romano, che alla domanda “Quante lauree avete?” con un sorriso prese sottobraccio il ragazzo e gli spiegò che il satellite veniva progettato sì dagli ingegneri ma il test era effettuato da un team di tecnici con a capo un solo ingegnere.
Grazie a questa domanda Luca aveva ricevuto alcune informazioni fondamentali per il suo orientamento verso il mercato del lavoro: la prima, che in una realtà aziendale esiste una divisione del lavoro e che i processi produttivi richiedono livelli formativi differenti; la seconda, che si possono fare lavori (per me) interessanti, con titoli di studio differenti e la cooperazione fra gli stessi forma una squadra; la terza, che la costruzione di una professionalità comprende molte variabili; la quarta, la più importante, che anche lui poteva diventare uno “scienziato”. La sua espressione di soddisfazione nell’accogliere quella risposta rappresentava un primo importante passo, per lui e i suoi coetanei, verso il mondo che li avrebbe attesi, il quale a sua volta stava e sta aspettando i giovani e i loro personali talenti.
Il percorso compiuto da Luca era partito da espressioni linguistiche scelte in modo generico come “questi” otutti”, oppure “basta un lavoro”, viziate all’origine dalla mancata riflessione sull’importanza di costruire frasi che permettano alle parole di definire correttamente la realtà che descrivono, in questo caso quella di un contesto lavorativo. Una situazione percepita come inavvicinabile diventa possibile se cresce la consapevolezza di che cosa essa rappresenti realmente, permettendo alla conoscenza di poter delineare il futuro delle persone. Oggi molti giovani e meno giovani faticano a compiere questo percorso di consapevolezza, ed è per questo che ho cercato di indagare le origini di queste difficoltà, anche alla luce degli straordinari mutamenti del mercato del lavoro e più in generale del vivere sociale. La domanda di Luca è partita dallo stupore di un’esperienza reale che ha messo in moto le sue emozioni, la comprensione delle proprie risorse e lui stesso come persona. Come un astronauta ha iniziato a camminare verso il suo futuro, aiutato dalla riflessione sul significato delle sue affermazioni.

1.1. Perché le parole: come si esprimono i ragazzi

La genericità delle espressioni verbali dei ragazzi rivela tutta la loro difficoltà nel descrivere la relazione tra se stessi e il mondo (del lavoro), lasciando indebolire un naturale orientamento. Metto tra parentesi “del lavoro” perché il nostro mondo contiene gli aspetti operativi delle attività lavorative, ma orientare i ragazzi significa innanzitutto estendere il loro sguardo sul mondo, sullo stare nel mondo, sulla loro vita. Per introdurre questo tema, mi sembra interessante partire dalle espressioni più frequenti che ho ascoltato nelle mie aule: “mi sono laureato e adesso troverò un lavoro”; “ho fatto tutto quello che potevo fare per cercare un lavoro”; “ho inviato curriculum dappertutto ma le aziende non rispondono”; “basta che mi diate un lavoro, io mi accontento”; “mi aspetto che siate voi a darmi un lavoro”; “sarà l’azienda a dirmi quello che so fare”; “non so quello che voglio fare, fino ad oggi ho solo studiato”; “la mia famiglia mi ha detto che è meglio…”; “mi hanno detto che bisogna fare un Master”.
Oggi, a queste frasi, se ne aggiungono di nuove che riflettono la narrazione negativa che ha accompagnato la crisi economica negli ultimi anni: “so che di questi tempi mi devo accontentare di qualsiasi lavoro”; “sì, studio ma non so se avrò mai un lavoro”; “ho deciso di lasciare gli studi perché non c’è lavoro”.
Sono frasi che penalizzano in partenza il tipo di relazione con il mondo (del lavoro), allontanando i giovani dalla ricerca di risposte appropriate alle aspettative che nutrono per il loro futuro. In realtà, sono anche il segno più evidente della grande confusione, direi di natura culturale, in cui versano, che rischia di separarli dai loro stessi desideri. Una cultura del lavoro nasce in una relazione tra noi e il mondo, da una riflessione che muove dal passato verso il futuro, dalle domande che scuotono la nostra intimità per suscitare desideri, aspirazioni, visioni. Solo riconoscendo la nostra volontà possiamo poi costruire un progetto di vita e lavoro. Nella frase che apre il paragrafo il ragazzo delega all’azienda la conoscenza di se stesso, chiede a una realtà produttiva di dire di lui. La grammatica, dice Daniel Pennac, “è il primo strumento del pensiero organizzato e la famosa analisi logica (di cui serbavamo un ricordo abominevole) regola gli snodi della nostra riflessione”.1
Se analizziamo le frasi degli esempi riportati sopra, i nostri giovani passano indifferentemente dall’asserzione vaga alla genericità assoluta, con parole che evidenziano l’assenza di un pensiero compiuto, le proposizioni subordinate sono pressoché assenti e questo impoverisce l’articolazione del linguaggio, ovvero la base storica di ciò che noi chiamiamo la civiltà umana. L’affermazione vaga, sostiene Claudio Luzzati, “cade su un’ipotesi indecidibile, che non possiamo sapere in via di principio se sia vera o falsa, un’asserzione generica è decidibile, anzi può essere molto spesso vera, ma lo sarà in modo banale, poco informativo”2 e non sapremo che cosa farcene. Quando i giovani dicono: “mi sono laureato (o diplomato) e adesso devo trovare un lavoro”, affermano in astratto una cosa vera: che hanno studiato, si sono impegnati e dunque possono trovare, anzi sicuramente, un giorno potranno trovare un lavoro. Tuttavia, in quanto affermazione estremamente generica, il risultato è del tutto ipotetico, perché non tiene conto di alcuni aspetti fondamentali per qualificare una scelta: che tipo di lavoro voglio cercare, come si collega ai miei desideri, alle mie aspettative, alle mie risorse personali, infine con quali modalità penso di arrivarci. Il rischio che corrono è di restare imprigionati in una incertezza inutile e di essere visti dall’azienda come carenti nella capacità di elaborare un pensiero e una scelta in autonomia. Le frasi vaghe sono: “c’è la crisi, non c’è lavoro, devo accontentarmi”, queste espressioni impediscono anche la più piccola azione, la ricerca attiva. Non c’è neanche il tentativo, perché cadendo su un’ipotesi indecidibile, viene meno la condizione che dà vita all’azione. Per evitare tutto questo occorre essere consapevoli del fatto che la crescita delle persone è un processo graduale, che normalmente si sviluppa negli anni degli studi, dove si apprende ad organizzare il linguaggio, le strutture sintattiche e i loro significati, per elaborare il pensiero e permetterne la sua espressione. Per il filosofo Massimo Cacciari, “senza la grammatica il discorso si disarticola, la determinatezza dei significati vacilla e di conseguenza il pericolo del fraintendersi aumenta”.3 Un linguaggio che perde il significato non permette di acquisire la conoscenza e restiamo fermi a collezionare dati, dando vita a incomprensioni insanabili.
In aula con i ragazzi mi sono trovata a ragionare sulla costruzione delle frasi che spesso iniziano con tutte le imprese, “nessuna azienda”, “cerco un lavoro”. In quest’ultimo caso il sostantivo è retto dall’articolo indeterminativo che ne rafforza la genericità. Nella genericità c’è spesso una mancanza di informazioni, una ricerca che non è mai stata avviata o un approfondimento che si è perso nella difficoltà di capire quali sono le informazioni rilevanti, quelle che potrebbero portarci ad una elaborazione del nostro pensiero, considerando anche la soggettività di alcune valutazioni. Quando i giovani si confrontano con le parole che utilizzano per creare la loro storia iniziano a capire che la genericità può rappresentare solo parzialmente la realtà, minando fortemente la capacità di dare un significato alle informazioni. Apprendere della propria vita dovrebbe essere un processo naturale e la capacità di esprimersi attraverso il linguaggio è il suo nutrimento. Spesso in aula chiedo cosa intendano per “tutte”, per “lavoro”, per “cri...

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