ChiarĂŹe del bosco
La stretta strada bianca che sale verso il passo, attraverso ombrose faggete e qualche scorcio su pareti rocciose, a un certo punto fa una curva a gomito verso destra. Girando lo sguardo dalla parte opposta, sâintravede il chiarore verde del prato, a cui invita un sentiero anonimo, quasi invisibile. Si entra. Camminando sul terreno pianeggiante ai margini del bosco, sâincontra un prato e poi un altro e un altro ancora. Le radure erbose sono appena nascoste da quinte di faggi ora piĂš fitti ora piĂš distanziati; una di queste radure, in discesa, si raggiunge solo dopo esserci inoltrati di nuovo nel folto del bosco, appena annunciata dalla luce che allâimprovviso vi apre un varco. Non è possibile da lĂŹ disegnarne il profilo. Occorrerebbe salire piĂš in alto e allora apparirebbero come ampi intagli nella vegetazione. Il manto erboso, in certi punti cosĂŹ spesso da infilarci mezza gamba, solcato da rivoli dâacqua nascosti, a tratti ricoperto da piante di mirtilli e di lamponi, impreziosito da arbusti di ginepro e in primavera da fiori di colore giallo e porpora, incute rispetto per quei luoghi e fa sentire il visitatore quasi un intruso. Lâerba alta e le acque abbondanti che vi sâinsinuano non facilitano la sosta. Invece, è frequente incontrarvi dâestate qualche mucca al pascolo, piĂš raramente, un cervo o un capriolo. E il silenzio.
Attraversando quelle radure, tornano in mente, seppure con una certa vaghezza, le parole ispirate di una scrittrice, che a rileggerle suonano cosĂŹ: ÂŤIl chiaro del bosco è un centro nel quale non sempre è possibile entrare; lo si osserva dal limite e la comparsa di alcune impronte di animali non aiuta a compiere tale passo. [...] Qualche uccello richiama lâattenzione, invitando ad avanzare fin dove indica la sua voce. E le si dĂ ascolto. Poi non si incontra nulla, nulla che non sia un luogo intatto che sembra essersi aperto solo in quellâistante e che mai piĂš si darĂ cosĂŹ. Non bisogna cercarlo. Non bisogna cercare. Ă la lezione immediata dei chiari del bosco: non bisogna andare a cercarli, e nemmeno a cercare nulla da loro. Nulla di determinato, di prefigurato, di risaputo. [âŚ] E resta il nulla e il vuoto che il chiaro del bosco dĂ in risposta a quello che si cerca. Mentre se non si cerca nulla, lâofferta sarĂ imprevedibile, illimitataÂť.
In quellâalternanza dellâoscuro del bosco e del chiaro della radura, in quella luce riflessa, obliqua, tremolante, in quel luogo simbolico che allude alla dialettica tra lâascolto e la domanda, tra il timore dellâestasi e il desiderio di sapere, è possibile riconoscere i segni della presenza del maestro, della guida. Del resto, lâattraversamento dei chiari del bosco richiama il nostro apprendimento dietro a lui, lâascolto delle sue parole, di lezione in lezione; ma anche la parola perduta, la parola rimasta in sospeso, la parola che invano si cerca di rammentare o di rintracciare tra gli appunti di lezioni passate. Ancora lei: ÂŤCome i chiari, le aule sono spazi vuoti pronti a venirsi riempiendo uno alla volta, spazi della voce nei quali si apprenderĂ con lâudito, ossia in modo piĂš immediato che dalla parola scritta, alla quale bisogna per forza restituire accento e voce per sentire che ci viene direttaÂť.
Ă quello che, nellâestate del Duemilasette, è capitato a Giovanni C., attraversando quei prati: ascoltare e poi restituire accento e voce alle parole di Luigi, soprattutto a quella sua lezione che aveva udito molti anni prima e che desiderava ci venisse nuovamente diretta.
Ă partito una mattina, nei giorni prima di Ferragosto, alla volta di Corfino, nellâalta Garfagnana. Ha prenotato una camera allâalbergo La Baita, una piccola pensione a conduzione familiare, in cima al paese. La finestra della camera in cui si è sistemato dĂ sul crinale sud del massiccio roccioso della Pania, che la sera sâindora. Di lĂ dal costone ripido della montagna si scopre appena il tetto di una casa del vicino borgo di Sassorosso, che da quella vista sâimmagina â cosa non distante dal vero â costruito sullo scosceso. Al piano terra della pensione, câè un salottino, con un tavolo e alcune poltrone, che nessuno degli ospiti frequenta, preferendo i tavolini fuori, nel piccolo giardino sormontato da due tassi, o la sala della televisione. Al di lĂ del giardino, oltre un muro che fa da riparo, si apre un ampio prato, dove i gestori della pensione stendono i panni ad asciugare. Insomma, câè piĂš di un luogo appartato, dove Giovanni C. potrĂ rifugiarsi a leggere e scrivere, ogni giorno, una volta ridisceso in paese.
Esauriti i preamboli, è ora di seguirlo mentre conversa con Luigi. Quello che ci è stato possibile ascoltare â non si sa se il tutto o solo una parte dei loro colloqui â inizia con Giovanni C. che informa Luigi su un lavoro che ha appena intrapreso.
Quadro I
La scena è unâampia radura in mezzo a una faggeta, in una giornata di sole. Grosse piante si ergono qua e lĂ sul prato pianeggiante, che va a lambire i margini della foresta accompagnato, tra luci e ombre, da alberelli di maggiociondolo e sorbo montano. Giovanni C. e Luigi camminano conversando. Ogni tanto si siedono sotto un faggio per riposare.
Giovanni C.
(con enfasi) Sto cercando degli spunti per scrivere il primo capitolo, la premessa storica, di un saggio sullâanalisi concettuale dei documenti. Mi sono chiesto quale fosse lâorigine di quella riflessione che si è andata sviluppando in Italia negli ultimi decenni. Quando è avvenuta la semina, da cui è germogliata la mèsse? Qual è la tradizione, se câè, alla quale si rifanno i modelli che informano i nostri strumenti di indicizzazione? Rispondendo a queste domande, vorrei anche saldare un debito che ho con te, onorare una promessa non ancora mantenuta.
Luigi
(con una sottile, provocatoria, quanto benevola ironia) Caro Giovanni, il tuo male è lâindugio. Quando sopraggiunge unâidea, ci rimugini sopra a lungo, troppo a lungo; ti lasci trascinare nel suo vortice, finchĂŠ non viene in soccorso la parola giusta, la parola che rende lâidea, quellâunica parola che lâesprimerĂ , la parola liberatoria, a far posto a unâaltra idea. E il vortice ricomincia. Forse, hai preso troppo sul serio il tuo filosofo: quando lâidea gli fissa un appuntamento, aspetta per giorni e notti, digiunando; quando lo chiama, lui si alza, lascia tutto e la segue; quando torna da questi incontri, non ha da rendere conto a nessuno, nessuno gli chiede spiegazioni nĂŠ del resto saprebbe darne.
(sorridendo) Figurarsi! Neppure ai filosofi oggi sarebbe concesso di tornare dai loro incontri con le idee senza unâidea utile. Qualcuno potrebbe aggiungere: unâidea che viene alle nove del mattino, se a mezzogiorno non si è realizzata, non è una buona idea. In piĂš, ora vuoi indugiare sul passato. A che serve?
Giovanni C.
(con una reazione apprensiva e un tono un poâ concitato) Non sei stato tu a raccomandare alle biblioteche la conoscenza della tradizione? Non è tua la domanda cruciale: le biblioteche italiane del nostro tempo stanno nella loro tradizione? Non ci hai piĂš volte ammonito a non pensare di essere la prima tigre?
Luigi
(con pacata fermezza) SĂŹ, ma non dobbiamo confondere la tradizione con il passato. Soltanto per i pigri intellettualmente, per i conformisti, tradizione e passato sono sinonimi. NĂŠ dobbiamo confondere la tradizione culturale con la tradizione biblioteconomica. Questâultima da noi è come se non esistesse. La biblioteconomia italiana è ricca di passato e povera di tradizione. Ma questo passato non ci suggerisce nulla, per i nostri bisogni dâoggi. Mentre la biblioteconomia, in quanto disciplina tecnica, deve tenere conto dei cambiamenti culturali e delle necessitĂ del pubblico.
Giovanni C.
Ă un giudizio severo. Ma forse ho capito quello che vuoi dire: la tradizione è ciò che del passato serve al presente e, dunque, non câè tradizione senza contemporaneitĂ , cosĂŹ come la contemporaneitĂ deve misurarsi sulla conoscenza della tradizione, fosse anche una tradizione contemporanea, se non si vuole ogni volta reinventare lâombrello.
(dopo una breve pausa) Volendo aggiungere una considerazione piĂš generale, direi: al passato corrisponde la reminiscenza, alla tradizione la riconoscenza. Se la prima è il ricordo di ciò che è stato, la seconda è il riconoscimento che ciò che è (presente) è stato. Conoscere il passato, riconoscere unâereditĂ . E la ripresa? Forse, per ottenere la ripresa, dovremmo aggiungere, alla reminiscenza e alla riconoscenza, lâinvenzione, compresa quella parte di invenzione necessaria perchĂŠ del mondo passato possa rimanere anche un volto, uno sguardo, un sorriso, unâagonia.
Luigi
(allâinizio con un sorriso, poi in tono piĂš serio) Non so dove tu voglia andare a parare. Forse, nel nostro campo, ciò che dici significa che non basta conservare il mondo passato, occorre saperlo valorizzare. CosĂŹ, ciò che ci lasciano i poeti, i gentiluomini e i pirati â ciò che lasciano materialmente, intendo â ci interessa, perchĂŠ è opera loro, costruita da loro: e questa loro costruzione ci aiuta a costruire ciò che essi erano, le loro menti e il loro cuore.
Hai parlato pocâanzi di ereditĂ . Spesso, unâereditĂ , come il tesoro dei pirati, è nascosta sottoterra e per trovarla occorre scavare. Prima, però, serve una mappa, una mappa del sottosuolo... Ma ora, Giovanni, sarĂ meglio ritornare al compito di cui mi hai parlato, per il quale sono disposto a darti una mano.
Per incominciare, hai portato con te la lezione di Casamassima sulla soggettazione?
Giovanni C.
(un poâ sorpreso) Conosco bene quella lontana lezione. Lâho letta e ne ho consigliato la lettura tante volte. Qualcuno lâha definita il compendio maturo della prassi e della teoria delle quali Casamassima è stato interprete alla Nazionale di Firenze. Si tratta, infatti, dellâesposizione piĂš chiara e organica dei principi e delle regole della soggettazione.
(dopo un istante, con esitazione) Ma in che cosa può essermi di aiuto riguardo al compito che mi sono proposto?
Luigi
Ti fornisco un indizio. Leggi con attenzione le due pagine introduttive sui rapporti tra classificazione e soggettazione. Poi, dimmi cosa ne pensi. Ora vai, chĂŠ il tempo stringe. A domani.
Giovanni C.
Grazie, Luigi. A domani.
Quadro II
Giovanni C. e Luigi, usciti dal bosco, discendono per un prato scosceso, in fondo al quale câè un piccolo spiazzo ameno. Tutto intorno piante di lamponi e ginepri. Appena oltre, un largo sentiero conduce di nuovo nel folto del bosco. Da lĂŹ si vedono le cime dellâAppennino. Ă un posto appartato e accogliente, ideale per fermarsi a conversare.
Giovanni C.
(con un tono di soddisfazione) Avevi ragione, Luigi. Lâintroduzione della lezione di Casamassima esprime una posizione molto forte e chiara. Infatti, il rapporto tra classificazione e soggettazione vi è declinato in un modo completamente nuovo: non un confronto tra le due tecniche, che ne mostri vantaggi e svantaggi, non una discussione sulla coesistenza o meno dei due tipi di catalogo, classificato e per soggetti, ma una loro stretta correlazione, sia al livello teorico che pratico. Una correlazione che si manifesta su diversi piani. Innanzitutto, entrambe le tecniche si applicano a un oggetto comune, lâenunciato di soggetto, che è risultato dellâanalisi concettuale, operazione fondamentale tanto nella soggettazione che nella classificazione. Inoltre, ciò che ognuna ha di peculiare â la struttura classificatoria razionale dei sistemi di classificazione, la ricchezza lessicale dei soggettari â può essere di aiuto allâaltra. Talvolta, le due tecniche possono trovarsi integrate nella struttura del catalogo, come accade in un catalogo classificato. Ma il legame piĂš stretto, la relazione piĂš intima si manifesta nella necessitĂ di riferirsi ai principi classificatori, quando si vogliano stabilire rapporti coerenti e organici tra soggetti affini. Insomma, non è possibile dare coerenza e completezza al sistema dei richiami e dei rinvii â avverte Casamassima â senza ricorrere a una struttura governata dai principi classificatori.
Luigi
Come avrai notato, tutto questo è preceduto, nella lezione di Casamassima, da due affermazioni complementari molto impegnative. La prima affermazione recita: il tema dei rapporti tra classif...