Ventâanni dopo
Sono passati ventâanni dallâattentato che costĂČ la vita a Giovanni Falcone, e ventuno dalla scrittura di questo libro: una generazione. Pensando ai giovani lettori, agli studenti, ai ragazzi che apriranno per la prima volta Cose di Cosa Nostra, e per i quali lâattentato di Capaci, il 23 maggio 1992, appartiene alla storia lontana, la voglia Ăš doppia: dare la testimonianza, la piĂč concreta possibile, dellâimpegno lungimirante di un magistrato fuori dal comune (con la consapevolezza perĂČ che la lettura di questo libro sarĂ piĂč convincente di qualsiasi introduzione) e raccontare, anzi, riassumere, da una parte quello che in questi due decenni Ăš stato conquistato, e dallâaltra quello che purtroppo Ăš stato trascurato, o smarrito per strada, in materia di lotta al crimine organizzato. Insomma queste righe sono anche un tentativo di valutare la consistenza storica delle informazioni e delle intuizioni, delle certezze e dei dubbi che Giovanni Falcone ha voluto lasciare in ereditĂ ai suoi successori dellâAntimafia. E ai cittadini tutti.
Sono dunque passati ventâanni e le certezze di oggi sono tante in materia di lotta alle mafie. Prima di tutto il buon livello di conoscenza, nella societĂ italiana, del fenomeno mafioso in tutte le sue declinazioni. PiĂč nessuno oserebbe sostenere che «la mafia non esiste» o che «Ú unâinvenzione dei media». PiĂč nessuno che abbia un minimo di serietĂ potrebbe permettersi di ignorare, o semplicemente sottovalutare, la diffusione del fenomeno criminale su tutto il territorio nazionale, il suo carattere «globale», le sue ramificazioni anche allâestero, i suoi linguaggi specifici e i meccanismi che la regolano. Le informazioni che ventâanni fa erano limitate al cerchio ristretto degli addetti ai lavori sono oggi patrimonio largamente condiviso. Ed Ăš utile che cosĂŹ sia per rendere piĂč incisiva la repressione, evitando che magistrati e poliziotti si trovino isolati rispetto alle organizzazioni criminali, ma anche alle istituzioni, ai colleghi e allâopinione pubblica: cosa che capitĂČ a Falcone e lo amareggiĂČ moltissimo, almeno negli ultimi anni della sua vita. PerchĂ© fu davvero paradossale che un magistrato che aveva una conoscenza cosĂŹ acuta e originale dei meccanismi sovversivi abbia sempre dovuto difendere ogni volta a denti stretti le sue capacitĂ di contrasto come se fosse stato un debuttante («Debbo sempre dare delle prove, fare degli esami», scherzava, ma non troppo, con me).
In questi ventâanni perĂČ, una conseguenza felice della presa di coscienza generalizzata della pericolositĂ mafiosa Ăš stata sicuramente la nascita e la moltiplicazione dei movimenti antimafia. Anche se tendono a procedere a correnti alternate, a secondo della spettacolaritĂ degli eventi luttuosi che li hanno suscitati, e anche se rimangono informali ed eterogenei. Ma le loro carenze sono largamente compensate da questi veri e propri fenomeni organizzativi: «Addio pizzo» dei «ragazzi» di Palermo; la «Libera» di Luigi Ciotti con le sue 1300 associazioni, che si Ăš specializzata nellâuso sociale dei beni confiscati ai mafiosi, e non solo nel Meridione; o la «Federazione delle Associazioni antiracket» di Tano Grasso a Napoli. Queste organizzazioni nate non dallâemotivitĂ ma da unâanalisi fredda e prammatica della realtĂ , e dalla convinzione che la battaglia per la legalitĂ Ăš una battaglia «conveniente» anche per produrre un «profitto pulito», hanno piĂč chances di incidere in modo duraturo sullâesito della lotta alle mafie. E magari di spingere le istituzioni a promuovere delle leggi sempre piĂč adatte alla durezza della battaglia. Per Falcone le reazioni della societĂ civile come quelle che accompagnarono per esempio lâassassinio di Libero Grassi, reo nel 1991 di aver rifiutato di pagare il pizzo, erano dei segnali rari che lui analizzava e soppesava perĂČ con la freddezza dellâesperto. Quellâestate del â91 amava dire che la reazione inorridita della societĂ civile a quel vile attentato era «il segnale che un movimento contro il pizzo poteva nascere anche a Palermo», dopo quello di Capo dâOrlando sotto la regia di Tano Grasso.
Altro grande fenomeno da elencare al capitolo delle «evoluzioni positive»: la validitĂ , anzi, lâesemplaritĂ , riconosciuta anche a livello internazionale, della legislazione italiana, e delle strutture di lotta al crimine organizzato a partire dalle procure distrettuali antimafia e dalla DNA (Direzione nazionale antimafia) per le quali Falcone lottĂČ con forza. Dando battaglia con ogni deputato, ogni senatore, ogni ministro o addetto ai lavori, ogni giornalista, che lui voleva convincere della «bontĂ della centralizzazione sia delle informazioni che della repressione». Lui sognava una specie di grande computer â me lo disse esplicitamente â come quello che allâepoca aveva visto nella sede romana dellâINPS, e che poteva in qualche secondo elencare la posizione processuale, le contravvenzioni, le irregolaritĂ commesse da qualsiasi cittadino nel corso della sua vita. Comunque, le strutture per le quali Falcone diede battaglia hanno notevolmente incrementato le capacitĂ repressive con il coordinamento reale di indagini che prima erano frammentate e scollegate fra loro. Sarebbe sciocco non riconoscerlo: quello che era una volta il sogno impossibile di pochi magistrati e poliziotti intorno a Giovanni Falcone Ăš diventato un modello organizzativo reale, la cui vitalitĂ non dipende nĂ© dalla buona volontĂ di questo o quel governo, nĂ© dagli ostacoli che una qualsiasi maggioranza politica vorrĂ opporvi e neanche dalla scarsitĂ dei mezzi messi a disposizione della repressione anticrimine. In questo senso non Ăš esagerato sostenere â e lo si sente dire nelle cancellerie europee â che, aldilĂ delle deprecabili afasie, dei personalismi o degli eventuali contrasti fra attori dellâAntimafia, i magistrati e i poliziotti italiani incaricati della repressione del crimine organizzato sono «i migliori del mondo ». Insomma, sappiamo tutti oggi che se le mafie hanno saputo cambiare volto, metodi e geografia, lâAntimafia ha saputo in modo egregio adattarsi ai loro nuovi parametri di intervento. E ha capito che i piĂč grandi nemici da combattere sono lâillegalitĂ diffusa, sempre piĂč connaturale al momento storico che sta vivendo il capitalismo, da una parte, e dallâaltra, la mutazione genetica dellâamministrazione pubblica spesso al servizio dei clan economici e politici. Sicuramente Giovanni Falcone si rallegrerebbe di queste prese di coscienza del mondo dellâAntimafia. E del fatto che, nelle nuove generazioni di poliziotti per esempio, si stacchi sempre di piĂč il profilo «professionale» del nuovo antagonista delle mafie, come per esempio Renato Cortese, capo per quattro anni della squadra mobile di Reggio Calabria, dopo essere stato il responsabile della mitica «Catturandi» di Palermo e avere, a questo titolo, messo fine alla latitanza di Bernardo Provenzano. Un nuovo poliziotto che impersona al meglio la capacitĂ degli inquirenti di oggi a mettere assieme coraggio, esperienza di lotta, e buona conoscenza dei fenomeni criminali: ne testimoniano le centinaia di arresti che sotto la sua regia sono stati eseguiti nei ranghi della ândrangheta in questi ultimi anni.
Nessuno sogna dunque di negare la straordinaria efficacia repressiva italiana: «Abbiamo creato il veleno, e abbiamo inventato lâantidoto», ama dire Pietro Grasso, procuratore nazionale antimafia, aggiungendo: «Abbiamo noi italiani unâesperienza che nessuno puĂČ avere in materia di crimine organizzato». In ogni caso, se ai tempi di Falcone la cooperazione internazionale era un fatto individuale riconducibile alle buone relazioni personali del singolo magistrato, oggi Ăš diventata storia di ordinaria amministrazione. I poliziotti e i magistrati italiani si muovono con dimestichezza e facilitĂ nelle procure e nei commissariati di tuttâEuropa, e anche delle Americhe. Non câĂš magistrato europeo, tra lâaltro, che non sogni lâadozione nellâarsenale legislativo del proprio paese del «delitto di associazione mafiosa», perchĂ©, a suo parere, Ăš un «modello di responsabilitĂ collettiva». La cooperazione che ne segue, e che si Ăš anche materializzata con la creazione di organismi internazionali come «Eurojust» ed «Europol», ha giĂ dato dei risultati insperati. Per esempio quando si tratta di collaborazione con gli ex paesi dellâEst. Pietro Grasso cita volentieri unâinchiesta che coinvolse a partire dal 2007 la Serbia, la Slovenia, la Bulgaria, con gli apparati militari della ex Yugoslavia, i colombiani, i ândranghetisti e alcuni gruppi mafiosi pugliesi, e che si risolse con decine di arresti transnazionali a conclusione di indagini comuni. Il procuratore aggiunto di Napoli Giovanni Melillo, che quellâindagine coordinĂČ per conto della DNA, piuttosto che esaltare lâeccellente risultato ottenuto, preferisce soffermarsi su alcuni punti delicati che potrebbero minare la cooperazione internazionale. «Non basta la fiducia che incontriamo in quanto inquirenti nei paesi europei e non. Il vero problema Ăš che lâItalia, che ha tanto dato alla costruzione di un sistema repressivo globale, si trova oggi paralizzata dalla sua incapacitĂ a dare attuazione a obblighi assunti in Europa quando ha stipulato convenzioni internazionali di assoluto rilievo». Qualche esempio: la mancata ratifica della convenzione di Bruxelles sullâassistenza giudiziaria fra stati dellâUnione europea, le lungaggini a ratificare le convenzioni del Consiglio dâEuropa sulla corruzione, o delle decisioni quadro in materia di sequestro, confisca dei beni, squadre investigative comuni... Certo, lâabbiamo visto, queste carenze sono compensate dallâottima reputazione di cui godono gli inquirenti italiani, i quali continueranno ad attraversare senza problemi le frontiere, ma si tratta nonostante tutto di una situazione precaria e provvisoria. Non sostenuta da coerenti adattamenti della legislazione italiana. E si Ăš spinti a questo punto a pensare allo strazio di un Falcone per «inventarsi» due-tre interlocutori, affidabili e fidati, negli Stati Uniti o in Francia, il procuratore Rudolph Giuliani, lâuomo dellâFBI Louis Freeh, o il magistrato Michel Debacq... Che spreco!
Lo spreco Ăš grande anche se si pensa piĂč in generale al carattere spesso dilettantesco, intermittente e «minimizzatore», dellâimpegno dello Stato in materia di crimine organizzato (un «difetto» che esisteva giĂ ai tempi di Falcone e che lui giudicava deleterio). E al pericolo che ne consegue oggi come ieri: lâincapacitĂ di questo Stato, anche quando la repressione Ăš efficace, a occupare gli spazi sottratti alle mafie con le leve della politica, della buona amministrazione, dello sviluppo economico. Quando ci si esalta per la cattura di un importante boss dei «Casalesi», quando ci si congratula per lâ«annientamento del gotha di Cosa Nostra» o per la carcerazione di qualche «capo Crimine» calabrese, ci si dimentica che altri mafiosi, camorristi e ândranghetisti prenderanno presto il posto dei loro predecessori. Questo lo diceva Falcone ventâanni fa. Ci si dimentica anche che quello che conta Ăš la struttura portante, i «valori», il radicamento nel territorio, le pratiche «consensuali» delle organizzazioni mafiose, e non soltanto i loro boss. Ci si dimentica che il successo delle mafie Ăš dovuto al loro essere dei modelli vincenti per la gente. E che lo Stato non ce la farĂ fin quando non sarĂ diventato esso stesso un «modello vincente». Una sfida difficile, perchĂ© le mafie, con la loro intelligenza del mondo moderno e la loro formidabile adattabilitĂ a ogni nuova condizione di vita e di «lavoro», hanno spesso, anche nella sconfitta, «una lunghezza di avanzo su di noi» come diceva umilmente Falcone. Hanno saputo trasformarsi in «colletti bianchi». Hanno dimostrato di saper usare meglio di tanti imprenditori i network della finanza e dellâeconomia, un sistema nervoso dalle mille raffinate terminazioni. E se, in piĂč, lo Stato si dimostra incoerente nel fare il suo dovere, allora la battaglia diventa davvero disuguale. Se per esempio lâamministrazione dei beni confiscati ai mafiosi dovesse rimanere farraginosa e irta di ostacoli cosĂŹ comâĂš oggi, rendendo improbabile lâuso pubblico di quei beni per la collettivitĂ , sarebbero ancora le mafie a giovarsene. Un esempio: quando un palazzo di proprietĂ malavitosa viene espropriato dallo Stato, poi, a causa dei costi di manutenzione elevati, delle lungaggini della burocrazia o del disinteresse generale, viene abbandonato a se stesso e cioĂš alla devastazione, lo Stato perde non soltanto quello stabile faticosamente sottratto alle mafie ma anche la sua credibilitĂ . «Meno lo Stato Ăš in grado di gestire e di proteggere, piĂč câĂš spazio per le mafie», conclude sconsolato Pietro Grasso. Ma câĂš qualcosa di piĂč grave della semplice omissione o della banale sottovalutazione in alcuni interventi dello Stato. Per esempio: i ritocchi non strettamente necessari decisi per il «41 bis»; le modifiche alla legge sui collaboratori di giustizia con quel limite discutibile dei 180 giorni per lâacquisizione delle loro dichiarazioni; i progetti di limitazione delle intercettazioni telefoniche sotto il pretesto che sono onerose, mentre tutti sanno che ognuna costa meno di 11 euro al giorno; o le critiche allâuso delle microspie. Non si puĂČ a questo proposito non pensare ad alcuni oggetti aneddotici ma simbolici che fanno parte ormai dellâalbum di famiglia dei poliziotti italiani: il ramo di ulivo nel quale il commissario Giuseppe Linares mise quelle microspie che hanno permesso la cattura di pericolosi mafiosi nelle campagne di Trapani, e che sta oggi nel suo ufficio alla squadra mobile; il pezzo di terra farcito di «pulci elettroniche » in provincia di Agrigento che rivelĂČ agli inquirenti una importante riunione mafiosa... «Senza intercettazioni e senza tecnologie raffinate non câĂš lotta alla mafia» dice Pietro Grasso che con Falcone lavorava giĂ prima del «maxiprocesso». E che condivise con lui ansie e successi.
Ma probabilmente il punto piĂč dolente di questo lungo elenco degli errori del dopo Capaci (che non cancella affatto gli incontestabili successi dellâAntimafia, occorre ricordarlo) riguarda un tema che era caro a Falcone: la comunicazione fra magistrati e pubblica opinione. Quando si decise a scrivere Cose di Cosa Nostra, dopo anni di solle...