Capitolo 1.
Fra conoscenza e autoritĂ :
religione e potere nella cittĂ di Roma
Sulle origini di Roma vi sono poche certezze. Su tutti gli aspetti del problema â di ricostruzione generale, di dettaglio, o di metodo â esistono dissensi radicali, spesso non componibili, fra gli studiosi che vi si sono misurati. Arnaldo Momigliano, con qualche ottimismo, definĂŹ questo periodo una scuola di metodo storico. Su un punto vi è però un ragionevole consenso: la sequenza tradizionale dei sette re non ha alcuna credibilitĂ , anzitutto dal punto di vista cronologico. Nella storia umana non sono note dinastie di sovrani tanto uniformemente longevi. Ai re vengono attribuiti ruoli precisamente codificati: Romolo è il fondatore della cittĂ ; Numa costituisce gli ordinamenti religiosi; Tullo Ostilio è un grande capo militare; Anco Marcio consolida le prime conquiste; Tarquinio Prisco rappresenta il legame con lâEtruria e, attraverso suo padre, il corinzio Demarato, con il mondo greco; Servio Tullio, figlio di una schiava, è un grande riformatore politico; Tarquinio il Superbo è il tiranno che crea le condizioni per la nascita di un nuovo regime. Attraverso le personalitĂ dei re si definisce il faticoso processo di costituzione della comunitĂ politica. La tradizione storica su Roma arcaica non è univoca in nessuno dei suoi aspetti: è un terreno di controversie, di versioni difformi e in aperto conflitto. Basti pensare alla varietĂ di storie che circolavano intorno allâarrivo di Enea in Italia prima del grande poema di Virgilio, o alla trama di tradizioni confliggenti riguardo al ruolo e al destino di Remo, il fratello del re-fondatore. A Roma la storiografia emerge come genere letterario dalla fine del terzo secolo a.C., e trasferisce nella ricostruzione del passato remoto della cittĂ la temperie politica e culturale dei tempi in cui è prodotta.
Il rapporto fra la cittĂ e gli dèi è un tema decisivo di tutta la tradizione storica. A Roma non esiste una mitologia paragonabile a quella che incontriamo nella letteratura greca, da Esiodo a Pindaro, da Callimaco allo pseudo-Apollodoro, riguardo alla genesi del cosmo e alle genealogie degli dèi. Il che non significa che Roma non conosca il mito. Al contrario, tutta la cultura romana è intessuta di storie che danno conto del rapporto fra dèi e uomini. La religio, secondo unâantica etimologia, sarebbe proprio lâintreccio dei legami fra uomini e dèi. Un punto focale della tradizione è il ruolo degli dèi nel costituirsi e nello sviluppo della cittĂ , sia come luogo fisico che come comunitĂ politica. Molta parte della conoscenza religiosa riguarda proprio la capacitĂ di collocare correttamente gli dèi e il loro spazio allâinterno della cittĂ : di comprenderne le origini e di assicurarne la continuitĂ . Quando un raffinato intellettuale greco, Plutarco di Cheronea, scrisse un trattato sulla religione e le antichitĂ di Roma, le Questioni romane, lo strutturò come unâimmaginaria passeggiata attraverso la cittĂ , dove la vista di un monumento suscitava un interrogativo o richiamava una storia, e ne sollecitava altre, a loro volta associate ad altri luoghi poco distanti.
Intorno ai luoghi celebri e ai monumenti di cui la cittĂ di Roma era costellata esistevano tradizioni che ne spiegavano il significato e la rilevanza: punti di orientamento, e nel contempo fronti di intensa controversia. Una di esse poneva il problema del rapporto fra religione e potere, e fra potere e conoscenza, con particolare forza. Durante il periodo tardorepubblicano, nel Comizio, a pochi passi dalla Curia dove si riuniva il Senato (lâassemblea dove sedevano magistrati ed ex magistrati), vi era la statua bronzea di un uomo con la testa coperta da un mantello, impegnato in un atto rituale; poco lontano vi era un altare, sotto il quale si diceva fossero sepolti una pietra e un rasoio.
A quel monumento era associata una clamorosa vicenda dellâetĂ regia, alla quale la tradizione letteraria dava grande risalto. Il re Tarquinio Prisco aveva deciso di riformare il sistema delle tribĂš nelle quali era suddiviso il corpo civico: un assetto che risaliva alla fondazione delle cittĂ e agli ordinamenti di Romolo. Modificarlo significava dunque ripensare lâassetto definito fra Romolo e gli dèi. Atto Navio, un esperto della scienza augurale, espresse pubblicamente la sua opposizione. Il re lo sfidò in maniera sprezzante: lo esortò a interpellare gli dèi riguardo alla fattibilitĂ di unâazione che aveva in mente, senza però rivelargli di che si trattasse. Atto celebrò un rito augurale, ispezionando il volo degli uccelli nel cielo, e comunicò al re il consenso degli dèi. A quel punto, Tarquinio gli diede apertamente dellâimpostore: lâazione che egli aveva in mente di compiere consisteva nel tagliare una pietra con un rasoio, ed era dunque manifestamente impossibile. Atto lo invitò però a tentarla in ogni caso. Tarquinio gettò il rasoio contro una pietra durissima, solitamente usata per affilare le lame, che si aprĂŹ senza resistenza. Il responso di Atto fu dunque clamorosamente confermato. Il re riconobbe subito la validitĂ del suo consiglio e decretò una statua in suo onore, proprio nel luogo dove la lama era penetrata nella pietra. Il progetto di riformare le tribĂš fu prontamente abbandonato; il sovrano potĂŠ aumentare il numero di uomini che vi erano arruolati, ma senza cambiare la struttura del contingente. La superiore conoscenza religiosa di Atto Navio aveva dunque prevalso sulla volontĂ politica del re. Da allora, secondo Dionigi di Alicarnasso, ogni atto pubblico di qualche rilievo fu preceduto da un rito augurale, che permettesse di stabilire quale fosse lâatteggiamento degli dèi rispetto a una determinata azione. La statua del Comizio ricordava dunque un momento nel quale si era ridefinito il legame fra iniziativa politica e obblighi religiosi: il conflitto tra re e sacerdote si era risolto a favore di questâultimo, e aveva consentito a tutta la comunitĂ di ripristinare un corretto rapporto con gli dèi.
Che cosa rendeva speciale ed efficace la conoscenza di Atto Navio? La sua esperienza era esemplare, ma non era certo tipica di quanto conosciamo nella successiva storia di Roma. Come i sacerdoti dellâetĂ repubblicana, Atto non agiva in nome di una conoscenza estatica o ispirata, ma in base a riti pubblici e codificati. Dâaltra parte, operava da solo, mentre nella storia romana i sacerdoti agiscono normalmente allâinterno di un collegio, un comitato che esegue rituali collettivamente ed esprime pareri su questioni di carattere religioso. Proprio nella sua capacitĂ di agire individualmente risiede una parte decisiva della sua forza. Quando il suo consiglio a Tarquinio si rivela corretto, il re comprende che Atto è piĂš caro agli dèi di ogni altro uomo; ancora prima dello scontro con il re, il collegio augurale lo aveva invitato a prendere parte alle sue decisioni. Anche la costruzione della straordinaria conoscenza religiosa di Atto aveva tratti eccezionali, e al tempo stesso profondamente rappresentativi dellâesperienza storica romana. Secondo Dionigi di Alicarnasso, il padre â un umile agricoltore â aveva riconosciuto in lui una capacitĂ divinatoria innata, e lo aveva inviato in Etruria ad apprendere lâarte augurale. La forza della sua conoscenza derivava da quella combinazione fra talento e cultura, e lâelemento straniero ne era un aspetto costitutivo.
Se il sapere di Atto è esclusivo e per molti aspetti enigmatico, si manifesta e si esplica in pubblico: il dibattito con il re avviene nel Comizio, e il prodigioso taglio della pietra è un evento memorabile, proprio perchĂŠ spettacolare. Anche da questo punto di vista la vicenda di Atto è rappresentativa di un tratto fondamentale della religione romana. I sacerdoti agiscono costantemente in pubblico, e i luoghi della politica sono anche luoghi del sacro â luoghi dove il sacro viene ÂŤdatoÂť, dispensato e gestito, secondo unâetimologia tardoantica della parola latina sacerdos. La loro conoscenza sacrale si affianca e si integra al campo della decisione politica.
NellâetĂ repubblicana questo tratto diventa un aspetto dominante, largamente riflesso nelle fonti a nostra disposizione. Nel 191 a.C., il Senato dibattĂŠ le modalitĂ della dichiarazione di guerra al re Antioco III, e si chiese se occorresse trasmetterla direttamente al re o se fosse sufficiente presentarla alla frontiera del regno. Uno dei consoli ricevette istruzioni di consultare i feziali, i venti sacerdoti che si occupavano delle procedure con le quali si apriva e si concludeva una guerra: un istituto che si faceva anchâesso risalire allâetĂ regia. I feziali risposero citando un responso che avevano dato pochi anni prima, alla vigilia del conflitto con il re di Macedonia, Filippo V: entrambe le modalitĂ erano del tutto accettabili. Il responso dei sacerdoti non riguarda certo la scelta politica di aprire un conflitto, ma si limita al tema, pure importante, dei modi e dei tempi con cui quella scelta viene attuata. I precedenti hanno un ruolo significativo, se non proprio dirimente. Ogni collegio opera sulla base di una sua conoscenza specialistica, consolidata nel tempo e tramandata attraverso le generazioni. Una parte decisiva di quel sapere è affidata alla dimensione orale: allâesempio e allâammaestramento che i sacerdoti piĂš esperti trasmettono ai giovani. Vi sono però testi scritti che raccolgono le decisioni precedenti e i princĂŹpi di comportamento ai quali i sacerdoti devono attenersi.
Cicerone vi riserva alcuni cenni, tutti obliqui o velati dallâironia, in un suo discorso, Sulla sua casa (De domo sua), rivolto nel settembre del 57 a.C. proprio ai pontefici, chiamati a valutare la legittimitĂ della confisca della sua casa, avvenuta lâanno prima su iniziativa del tribuno Clodio, suo implacabile avversario. Sul terreno dove essa sorgeva era stato dedicato un tempio alla dea Libertas, personificazione della libertĂ : la materia rientrava dunque nelle competenze dei pontefici. Nel suo discorso Cicerone fa svariati cenni allâesistenza di documenti ufficiali che ne conservano i precedenti (libri e commentarii), e anche ai libri reconditi nei quali si conserverebbe la conoscenza specialistica dei pontefici e degli auguri. Cicerone adotta il tono del cittadino fedele ai propri obblighi religiosi, ostentatamente rispettoso delle prerogative dei sacerdoti e determinato a non indagare segreti che non gli competono; dâaltra parte, dimostra di conoscere i precedenti e denuncia nellâignoranza del suo avversario un sintomo della sua empietĂ . Tutto il suo discorso si regge su un importante assunto: non è unâarringa su una questione privata, pro domo sua, ma un intervento su una questione che riguarda il rispetto di importanti obblighi rituali, e dunque la cittĂ nel suo insieme. Ă una questione in cui lâaspetto religioso e quello politico si intrecciano indissolubilmente, non solo e non tanto perchĂŠ ne sono protagonisti due noti e controversi personaggi politici.
Al centro della vicenda è il Senato, che ha chiesto ai pontefici di pronunciarsi sulla questione, e al quale il collegio espone le sue conclusioni, due giorni dopo avere ascoltato le ragioni di Cicerone. I pontefici erano, per lo piĂš (ma non necessariamente), anche membri del Senato. Dopo la relazione di Marco Licinio Lucullo a nome di tutto il collegio, ciascuno di essi intervenne individualmente, giustificando il parere favorevole alla restituzione del terreno a Cicerone. La conoscenza collettiva del collegio e quella del singolo sacerdote si intrecciano e si combinano, ma la questione non si esaurisce qui. Spetta al Senato dirimere la questione, e Clodio â che fa parte anchâegli dellâassemblea, in quanto ex questore ed ex tribuno â tenta sino allâultimo di impedire un pronunciamento a favore del suo rivale, prima cercando di bloccare i lavori con un discorso interminabile, poi servendosi del veto di un tribuno suo sostenitore. Nonostante questo, il decreto del Senato (senatus consultum) favorevole a Cicerone viene infine approvato.
Siamo eccezionalmente ben informati su questa vicenda grazie al ruolo diretto che Cicerone vi ebbe, e grazie allâintreccio di due testimonianze: un suo discorso e una sua lettera, scritta poco dopo la seduta del Senato in cui si discusse il caso. Le circostanze erano straordinarie, ma il principio di fondo ha un valore piĂš generale. A Roma la conoscenza religiosa è ampiamente distribuita, attraverso lâĂŠlite politica e, come vedremo nella parte finale di questo capitolo, attraverso la cittadinanza. In Senato si prendono le decisioni sulle questioni di rilievo religioso: si decide, in primo luogo, quali questioni meritino di essere considerate. Ai collegi sacerdotali vengono dunque affidati compiti precisi, entro i quali possono esercitare la loro discrezione e dimostrare la loro competenza. Dopo una grande vittoria militare, il Senato può decretare preghiere solenni agli dèi, e affidarne la celebrazione ai pontefici: vari libri del De bello Gallico di Giulio Cesare si chiudono con una supplicatio. Quando da Roma o da una cittĂ alleata viene annunciato un evento umanamente inspiegabile, spetta al Senato decidere se considerarlo un prodigio, cioè un segno di ostilitĂ divina, e in quali forme espiarlo: un passo che viene affidato al sapiente consiglio di uno o piĂš collegi sacerdotali.
Sarebbe riduttivo vedere in questo equilibrio un rapporto gerarchico fra Senato e collegi sacerdotali. La questione è complicata dal fatto che, come giĂ abbiamo visto, i sacerdoti sono per lo piĂš membri del Senato, o appartengono a famiglie di rango senatorio. Il concetto di ordine sacerdotale è completamente estraneo alla cultura romana. Nelle loro deliberazioni, i sacerdoti sanno di dovere tener conto degli orientamenti del Senato, e conoscono bene la natura delle istruzioni che sono state loro trasmesse. Soprattutto, possono difendere e argomentare le loro decisioni di fronte allâassemblea, attraverso un meccanismo che permette di illustrare il punto di vista del collegio e di esprimere le posizioni dei suoi singoli componenti. Inoltre, ogni qualvolta una questione di carattere religioso veniva discussa in Senato, era presente un buon numero di senatori che appartenevano a un collegio sacerdotale, e potevano dunque esprimere unâopinione informata e spesso autorevole.
In questa tensione fra la sfera collettiva e il ruolo dellâindividuo risiede un altro aspetto di grande importanza. Nellâambito di un collegio sacerdotale, i membri piĂš anziani, che avevano rivestito un sacerdozio per piĂš tempo, erano di norma i piĂš autorevoli. Gli equilibri erano però instabili. Molti sacerdoti avranno avuto impegni in campagne militari o in provincia: Cesare fu pontefice massimo dal 63 al 44 a.C., ma per la maggior parte di quel periodo fu lontano da Roma. Non stupisce, in ogni caso, che molte figure centrali nella politica romana si fossero assicurate un sacerdozio: oltre a Cesare, anche Mario, Silla, Pompeo, Cicerone, Clodio, Catone, Antonio, Lepido, Ottaviano furono membri di un collegio sacerdotale. In circostanze normali, la partecipazione ai lavori di un collegio permetteva di seguirne da vicino i dibattiti e le decisioni, e assicurava una notevole visibilitĂ , attraverso il coinvolgimento diretto in feste religiose e rituali pubblici in una posizione di rilievo.
In circostanze eccezionali, lo statuto di sacerdote assicurava unâautorevolezza dalle conseguenze potenzialmente enormi. Nel luglio del 133 a.C., quando una fazione della nobiltĂ decise di intraprendere unâazione violenta nei confronti di Tiberio Sempronio Gracco, che tentava di assicurarsi la rielezione al tribunato della plebe, il pontefice massimo P. Scipione Nasica se ne mise a capo: in un intervento in Senato invitò coloro che avessero a cuore le sorti della res publica a unirsi a lui. I suoi movimenti e i suoi gesti...