Storia d'Italia
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Francesco Guicciardini

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Francesco Guicciardini

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La Storia d'Italia, la sola opera che Francesco Guicciardini destinĂČ alla pubblicazione, fu composta tra il 1537 e il 1540, quando l'autore, alla fine della sua carriera politica, viveva ad Arcetri, totalmente libero da impegni politici e diplomatici. L'opera Ăš costituita da venti libri e narra le guerre che portarono alla rovina dell'indipendenza italiana, dalla morte di Lorenzo il Magnifico, 1492, a quella del papa Clemente VII (1534).Ledizioni propone la versione digitale in formato epub di quest'opera fuori diritti.

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Informations

Éditeur
Ledizioni
Année
2013
ISBN
9788867050864
LIB. 1, CAP. 1
Proposito e fine dell’opera. Prosperità d’Italia intorno al 1490. La politica di Lorenzo de’ Medici ed il desiderio di pace de’ príncipi italiani. La confederazione de’ príncipi e l’ambizione de’ veneziani.
Io ho deliberato di scrivere le cose accadute alla memoria nostra in Italia, dappoi che l’armi de’ franzesi, chiamate da’ nostri prĂ­ncipi medesimi, cominciorono con grandissimo movimento a perturbarla: materia, per la varietĂ  e grandezza loro, molto memorabile e piena di atrocissimi accidenti; avendo patito tanti anni Italia tutte quelle calamitĂ  con le quali sogliono i miseri mortali, ora per l’ira giusta d’Iddio ora dalla empietĂ  e sceleratezze degli altri uomini, essere vessati. Dalla cognizione de’ quali casi, tanto vari e tanto gravi, potrĂ  ciascuno, e per sĂ© proprio e per bene publico, prendere molti salutiferi documenti onde per innumerabili esempli evidentemente apparirĂ  a quanta instabilitĂ , nĂ© altrimenti che uno mare concitato da’ venti, siano sottoposte le cose umane; quanto siano perniciosi, quasi sempre a se stessi ma sempre a’ popoli, i consigli male misurati di coloro che dominano, quando, avendo solamente innanzi agli occhi
o errori vani o le cupiditĂ  presenti, non si ricordando delle spesse variazioni della fortuna, e convertendo in detrimento altrui la potestĂ  conceduta loro per la salute comune, si fanno, poca prudenza o per troppa ambizione, autori di nuove turbazioni.
Ma le calamitĂ  d’Italia (acciocchĂ© io faccia noto quale fusse allora lo stato suo, e insieme le cagioni dalle quali ebbeno l’origine tanti mali) cominciorono con tanto maggiore dispiacere e spavento negli animi degli uomini quanto le cose universali erano allora piĂș liete e piĂș feli
ci. PerchĂ© manifesto Ăš che, dappoi che lo imperio romano, indebolito principalmente per la mutazione degli antichi costumi, cominciĂČ, giĂ  sono piĂș di mille anni, di quella grandezza a declinare alla quale con maravigliosa virtĂș e fortuna era salito, non aveva giammai sentito Italia tanta prosperitĂ , nĂ© provato stato tanto desiderabile quanto era quello nel quale sicuramente si riposava l’anno della salute cristiana mille quattrocento novanta, e gli anni che a quello e prima e poi furono congiunti. PerchĂ©, ridotta tutta in somma pace e tranquillitĂ , coltivata non meno ne’ luoghi piĂș montuosi e piĂș sterili che nelle pianure e regioni sue piĂș fertili, nĂ© sottoposta a altro imperio che de’ suoi medesimi, non solo era abbondantissima d’abitatori, di mercatanzie e di ricchezze; ma illustrata sommamente dalla magnificenza di molti prĂ­ncipi, dallo splendore di molte nobilissime e bellissime cittĂ , dalla sedia e maestĂ  della religione, fioriva d’uomini prestantissimi nella amministrazione delle cose publiche, e di ingegni molto nobili in tutte le dottrine e in qualunque arte preclara e industriosa; nĂ© priva secondo l’uso di quella etĂ  di gloria militare e ornatissima di tante doti, meritamente appresso a tutte le nazioni nome e fama chiarissima riteneva.
Nella quale felicitĂ , acquistata con varie occasioni, la conservavano molte cagioni: ma trall’altre, di consentimento comune, si attribuiva laude non piccola alla industria e virtĂș di Lorenzo de’ Medici, cittadino tanto eminente sopra ’l grado privato nella cittĂ  di Firenze che per consiglio suo si reggevano le cose di quella republica, potente piĂș per l’opportunitĂ  del sito, per gli ingegni degli uomini e per la prontezza de’ danari, che per grandezza di dominio. E avendosi egli nuovamente congiunto con parentado, e ridotto a prestare fede non mediocre a’ consigli suoi Innocenzo ottavo pontefice romano, era per tutta Italia grande il suo nome, grande nelle deliberazioni delle cose comuni l’autoritĂ . E conoscendo che alla republica fiorentina e a sĂ© proprio sarebbe molto pericoloso se alcuno de’ maggiori potentati ampliasse piĂș la sua potenza, procurava con ogni studio che le cose d’Italia in modo bilanciate si mantenessino che piĂș in una che in un’altra parte non pendessino: il che, senza la conservazione della pace e senza vegghiare con somma diligenza ogni accidente benchĂ© minimo, succedere non poteva. Concorreva nella medesima inclinazione della quiete comune Ferdinando di Aragona re di Napoli, principe certamente prudentissimo e di grandissima estimazione; con tutto che molte volte per l’addietro avesse dimostrato pensieri ambiziosi e alieni da’ consigli della pace, e in questo tempo fusse molto stimolato da Alfonso duca di Calavria suo primogenito, il quale malvolentieri tollerava che Giovan Galeazzo Sforza duca di Milano, suo genero, maggiore giĂ  di venti anni, benchĂ© di intelletto incapacissimo, ritenendo solamente il nome ducale fusse depresso e soffocato da Lodovico Sforza suo zio: il quale, avendo piĂș di dieci anni prima, per la imprudenza e impudichi costumi della madre madonna Bona, presa la tutela di lui e con questa occasione ridotte a poco a poco in potestĂ  propria le fortezze, le genti d’arme, il tesoro e tutti i fondamenti dello stato, perseverava nel governo; nĂ© come tutore o governatore, ma, dal titolo di duca di Milano in fuora, con tutte le dimostrazioni e azioni da principe. E nondimeno Ferdinando, avendo piĂș innanzi agli occhi l’utilitĂ  presente che l’antica inclinazione o la indegnazione del figliuolo, benchĂ© giusta, desiderava che Italia non si alterasse; o perchĂ©, avendo provato pochi anni prima, con gravissimo pericolo, l’odio contro a sĂ© de’ baroni e de’ popoli suoi, e sapendo l’affezione che per la memoria delle cose pas-sate molti de’ sudditi avevano al nome della casa di Francia, dubitasse che le discordie italiane non dessino occasione a’ franzesi di assaltare il reame di Napoli; o perchĂ©, per fare contrapeso alla potenza de’ viniziani, formidabile allora a tutta Italia, conoscesse essere necessaria l’unione sua con gli altri, e specialmente con gli sta-ti di Milano e di Firenze. NĂ© a Lodovico Sforza, benchĂ© di spirito inquieto e ambizioso, poteva piacere altra deliberazione, soprastando non manco a quegli che dominavano a Milano che agli altri il pericolo dal senato viniziano, e perchĂ© gli era piĂș facile conservare nella tranquillitĂ  della pace che nelle molestie della guerra l’autoritĂ  usurpata. E se bene gli fussino sospetti sempre i pensieri di Ferdinando e di Alfonso d’Aragona, nondimeno, essendogli nota la disposizione di Lorenzo de’ Medici alla pace e insieme il timore che egli medesimamente aveva della grandezza loro, e persuadendosi che, per la diversitĂ  degli animi e antichi odii tra Ferdinando e i viniziani, fusse vano il temere che tra loro si facesse fondata congiunzione, si riputava assai sicuro che gli Aragonesi non sarebbono accompagnati da altri a tentare contro a lui quello che soli non erano bastanti a ottenere.
Essendo adunque in Ferdinando, Lodovico e Lorenzo, parte per i medesimi parte per diversi rispetti, la medesima intenzione alla pace, si continuava facilmente una confederazione contratta in nome di Ferdinando re di Napoli, di Giovan Galeazzo duca di Milano e della republica fiorentina, per difensione de’ loro stati; la quale, cominciata molti anni innanzi e dipoi interrotta per vari accidenti, era stata nell’anno mille quattrocento ottanta, aderendovi quasi tutti i minori potentati d’Italia, rinnovata per venticinque anni: avendo per fine principalmente di non lasciare diventare piĂș potenti i viniziani; i quali, maggiori senza dubbio di ciascuno de’ confederati ma molto minori di tutti insieme, procedevano con consigli separati da’ consigli comuni, e aspettando di crescere della altrui disunione e travagli, stavano attenti e preparati a valersi di ogni accidente che potesse aprire loro la via allo imperio di tutta Italia: al quale che aspirassino si era in diversi tempi conosciuto molto chiaramente; e specialmente quando, presa occasione dalla morte di Filippo Maria Visconte duca di Milano, tentorono, sotto colore di difendere la libertĂ  del popolo milanese, di farsi signori di quello stato; e piĂș frescamente quando, con guerra manifesta, di occupare il ducato di Ferrara si sforzorono. Raffrenava facilmente questa confederazione la cupiditĂ  del senato viniziano, ma non congiugneva giĂ  i collegati in amicizia sincera e fedele: conciossiacosachĂ©, pieni tra se medesimi di emulazione e di gelosia, non cessavano di osservare assiduamente gli andamenti l’uno dell’altro, sconciandosi scambievolmente tutti i disegni per i quali a qualunque di essi accrescere si potesse o imperio o riputazione: il che non rendeva manco stabile la pace, anzi destava in tutti maggiore prontezza a procurare di spegnere sollecitamente tutte quelle faville che origine di nuovo incendio essere potessino.
LIB. 1, CAP. 2
Morte di Lorenzo de’ Medici. Morte di papa innocenzo VIII ed elezione di Alessandro VI. La politica amichevole di Piero de’ Medici verso Ferdinando d’Aragona ed i primi timori di Lodovico Sforza.
Tale era lo stato delle cose, tali erano i fondamenti della tranquillitĂ  d’Italia, disposti e contrapesati in modo che non solo di alterazione presente non si temeva ma nĂ© si poteva facilmente congetturare da quali consigli o per quali casi o con quali armi s’avesse a muovere tanta quiete. Quando, nel mese di aprile dell’anno mille quattrocento novantadue, sopravenne la morte di Lorenzo de’ Medici; morte acerba a lui per l’etĂ , perchĂ© morĂ­ non finiti ancora quarantaquattro anni; acerba alla patria, la quale, per la riputazione e prudenza sua e per lo ingegno attissimo a tutte le cose onorate e eccellenti, fioriva maravigliosamente di ricchezze e di tutti quegli beni e ornamenti da’ quali suole essere nelle cose umane la lunga pace accompagnata. Ma e fu morte incomodissima al resto d’Italia, cosĂ­ per l’altre operazioni le quali da lui, per la sicurtĂ  comune, continuamente si facevano, come perchĂ© era mezzo a moderare e quasi uno freno ne’ dispareri e ne’ sospetti i quali, per diverse cagioni, tra Ferdinando e Lodovico Sforza, prĂ­ncipi di ambizione e di potenza quasi pari, spesse volte nascevano.
La morte di Lorenzo, preparandosi giĂ  ogni dĂ­ piĂș le cose alle future calamitĂ , seguitĂČ, pochi mesi poi, la morte del pontefice; la vita del quale, inutile al publico bene per altro, era almeno utile per questo, che avendo deposte presto l’armi mosse infelicemente, per gli stimoli di molti baroni del regno di Napoli, nel principio del suo pontificato, contro a Ferdinando, e voltato poi totalmente l’animo a oziosi diletti, non aveva piĂș, nĂ© per sĂ© nĂ© per i suoi, pensieri accesi a cose che la felicitĂ  d’Italia turbare potessino. A Innocenzio succedette Roderigo Borgia, di patria valenziano, una delle cittĂ  regie di Spagna, antico cardinale, e de’ maggiori della corte di Roma, ma assunto al pontificato per le discordie che erano tra i cardinali Ascanio Sforza e Giuliano di san Piero a Vincola, ma molto piĂș perchĂ©, con esempio nuovo in quella etĂ , comperĂČ palesemente, parte con danari parte con promesse degli uffici e benefici suoi, che erano amplissimi, molti voti di cardinali: i quali, disprezzatori dell’evangelico ammaestramento, non si vergognorono di vendere la facoltĂ  di trafficare col nome della autoritĂ  celeste i sacri tesori, nella piĂș eccelsa parte del tempio. Indusse a contrattazione tanto abominevole molti di loro il cardinale Ascanio, ma non giĂ  piĂș con le persuasioni e co’ prieghi che con lo esempio; perchĂ© corrotto dall’appetito infinito delle ricchezze, pattuĂ­ da lui per sĂ©, per prezzo di tanta sceleratezza, la vicecancelleria, ufficio principale della corte romana, chiese, castella e il palagio suo di Roma, pieno di mobili di grandissima valuta. Ma non fuggĂ­, per ciĂČ, nĂ© poi il giudicio divino nĂ© allora l’infamia e odio giusto degli uomini, ripieni per questa elezione di spavento e di orrore, per essere stata celebrata con arti sĂ­ brutte; e non meno perchĂ© la natura e le condizioni della persona eletta erano conosciute in gran parte da molti: e, tra gli altri, Ăš manifesto che il re di Napoli, benchĂ© in publico il dolore conceputo dissimulasse, significĂČ alla reina sua moglie con lacrime, dalle quali era solito astenersi eziandio nella morte de’ figliuoli, essere creato uno pontefice che sarebbe perniciosissimo a Italia e a tutta la republica cristiana: pronostico veramente non indegno della prudenza di Ferdinando. PerchĂ© in Alessandro sesto (cosĂ­ volle essere chiamato il nuovo pontefice) fu solerzia e sagacitĂ  singolare, consiglio eccellente, efficacia a persuadere maravigliosa, e a tutte le faccende gravi sollecitudine e destrezza incredibile; ma erano queste virtĂș avanzate di grande intervallo da’ vizi: costumi oscenissimi, non sinceritĂ  non vergogna non veritĂ  non fede non religione, avarizia insaziabile, ambizione immoderata, crudeltĂ  piĂș che barbara e ardentissima cupiditĂ  di esaltare in qualunque modo i figliuoli i quali erano molti; e tra questi qualcuno, acciocchĂ© a eseguire i pravi consigli non mancassino pravi instrumenti, non meno detestabile in parte alcuna del padre.
Tanta variazione feciono per la morte di Innocenzio ottavo le cose della chiesa. Ma variazione di importanza non minore aveano fatta, per la morte di Lorenzo de’ Medici, le cose di Firenze; ove senza contradizione alcuna era succeduto, nella grandezza del padre, Piero maggiore di tre figliuoli, ancora molto giovane, ma nĂ© per l’etĂ  nĂ© per l’altre sue qualitĂ  atto a reggere peso sĂ­ grave, nĂ© capace di procedere con quella moderazione con la quale procedendo, e dentro e fuori, il padre, e sapendosi prudentemente temporeggiare tra’ prĂ­ncipi collegati, aveva, vivendo, le publiche e le private condizioni amplificate, e, morendo, lasciata in ciascuno costante opinione che per opera sua principalmente si fusse la pace d’Italia conservata. PerchĂ© non prima entrato Piero nella amministrazione della republica che, con consiglio direttamente contrario a’ consigli paterni nĂ© comunicato co’ cittadini principali, senza i quali le cose gravi deliberare non si solevano, mosso dalle persuasioni di Verginio Orsino parente suo (erano la madre e la moglie di Piero nate della famiglia Orsina), si ristrinse talmente con Ferdinando e con Alfonso, da’ quali Verginio dependeva, che ebbe Lodovico Sforza causa giusta di temere che qualunque volta gli Aragonesi volessino nuocergli arebbono per l’autoritĂ  di Piero de’ Medici congiunte seco le forze della republica fiorentina. Questa intelligenza, seme e origine di tutti i mali, se bene da principio fusse trattata e stabilita molto segretamente, cominciĂČ quasi incontinente, benchĂ© per oscure congetture, a essere sospetta a Lodovico, principe vigilantissimo e di ingegno molto acuto. PerchĂ© dovendosi, secondo la consuetudine inveterata di tutta la cristianitĂ , mandare imbasciadori a adorare, come vicario di Cristo in terra, e a offerire di ubbidire il nuovo pontefice, aveva Lodovico Sforza, del quale fu proprio ingegnarsi di parere, con invenzioni non pensate da altri, superiore di prudenza a ciascuno, consigliato che tutti gli imbasciadori de’ collegati entrassino in uno dĂ­ medesimo insieme in Roma, presentassinsi tutti insieme nel concistorio publico innanzi al pontefice, e che uno di essi orasse in no-me comune, perchĂ© da questo, con grandissimo accrescimento della riputazione di tutti, a tutta Italia si dimostrerebbe essere tra loro non solo benivolenza e confederazione, ma piĂș tosto tanta congiunzione che e’ paressino quasi un principe e un corpo medesimo. Ma-nifestarsi, non solamente col discorso delle ragioni ma non meno con fresco esempio, l’utilitĂ  di questo consiglio; perchĂ©, secondo che si era creduto, il pontefice ultimamente morto, preso argomento della disunione de’ collegati dall’avergli con separati consigli e in tempi diversi prestato l’ubbidienza, era stato piĂș pronto ad assaltare il regno di Napoli. ApprovĂČ facilmente Ferdinando il parere di Lodovico; approvoronlo per l’autoritĂ  dell’uno e dell’altro i fiorentini, non contradicendo ne’ consigli publici Piero de’ Medici, benchĂ© privatamente gli fusse molestissimo, perchĂ©, essendo uno degli oratori eletti in nome della republica e avendo deliberato di fare illustre la sua legazione con apparato molto superbo e quasi regio, si accorgeva che, entrando in Roma e presentandosi al pontefice insieme con gli altri imbasciadori de’ collegati, non poteva in tanta moltitudine apparire agli occhi degli uomini lo splendore della pompa sua: la quale vanitĂ  giovenile fu confermata dagli ambiziosi conforti di Gentile vescovo aretino, uno medesimamente degli eletti imbasciadori; perchĂ© aspettandosi a lui, per la degnitĂ  episcopale e per la professione la quale negli studi che si chiamano d’umanitĂ  fatta avea, l’orare in nome de’ fiorentini, si doleva incredibilmente di perdere, per questo modo insolito e inaspettato, l’occasione di ostentare la sua eloquenza in cospetto sĂ­ onorato e sĂ­ solenne. E perĂČ Piero, stimolato parte dalla leggierezza propria parte dall’ambizione di altri, ma non volendo che a notizia di Lodovico Sforza pervenisse che da sĂ© si contradicesse al consiglio proposto da lui, richiese il re che, dimostrando d’avere dappoi considerato che senza molta confusione non si potrebbeno eseguire questi atti comunemente, confortasse che ciascuno, seguitando gli esempli passati, procedesse da se medesimo: nella quale domanda il re, desideroso di compiacergli, ma non tanto che totalmente ne dispiacesse a Lodovico, gli sodisfece piĂș dell’effetto che del modo; conciossiacosachĂ© e’ non celĂČ che non per altra cagione si partiva da quel che prima avea consentito che per l’instanza fatta da Piero de’ Medici. DimostrĂČ di questa subita variazione maggiore molestia Lodovico che per se stessa non meritava l’importanza della cosa, lamentandosi gravemente che, essendo giĂ  nota al pontefice e a tutta la corte di Roma la prima deliberazione e chi ne fusse stato autore, ora studiosamente si ritrattasse, per diminuire la sua reputazione. Ma gli dispiacque molto piĂș che, per questo minimo e quasi non considerabile accidente, cominciĂČ a comprendere che Piero de’ Medici avesse occultamente intelligenza con Ferdinando: il che, per le cose che seguitorono, venne a luce ogni dĂ­ piĂș chiaramente.
LIB. 1, CAP. 3
La vendita dei castelli di Franceschetto Cibo nel Lazio a Verginio Orsino. L’indignazione del pontefice e gli incitamenti di Lodovico Sforza. Questi cerca distogliere dall’amicizia per Ferdinando d’Aragona Piero de’ Medici. Confederazione di Lodovico co’ veneziani e col pontefice. Suoi pensieri di maggiormente assicurarsi con armi straniere.
Possedeva l’Anguillara, Cervetri e alcun’altre piccole castella vicine a Roma Franceschetto Cibo genovese, figliuolo naturale di Innocenzio pontefice, il quale andato, dopo la morte del padre, sotto l’ombra di Piero de’ Medici fratello di Maddalena sua moglie, a abitare in Firenze, non prima arrivĂČ in quella cittĂ  che, interponendosene Piero, vendĂ© quelle castella per quarantamila ducati a Verginio Orsino: cosa consultata principalmente con Ferdinando, il quale gli prestĂČ occultamente la maggiore parte de’ danari, persuadendosi che a beneficio proprio risultasse quanto piĂș la grandezza di Verginio, soldato, aderente e parente suo, intorno a Roma si distendesse. PerchĂ© il re, considerando la potenza de’ pontefici essere instrumento molto opportuno a turbare il regno di Napoli, antico feudo della chiesa romana, e il quale confina per lunghissimo spazio col dominio ecclesiastico, e ricordandosi delle controversie le quali il padre e egli aveano molte volte avute con loro, e essere sempre parata la materia di nuove contenzioni, per le giurisdizioni de’ confini, per conto de’ censi, per le collazioni de’ beneficii, per il ricorso de’ baroni, e per molte altre differenze che spesso nascono tra gli stati vicini nĂ© meno spesso tra il feudatario e il signore del feudo, ebbe sempre per uno de’ saldi fondamenti della sicurtĂ  sua che da sĂ© dependessino o tutti o parte de’ baroni piĂș potenti del territorio romano: cosa che in questo tempo piĂș prontamente facea, perchĂ© si credea che appresso al pontefice avesse a essere grande l’autoritĂ  di Lodovico Sforza, per mezzo del cardinale Ascanio suo fratello. NĂ© lo moveva forse meno, come molti credettono, il timore che in Alessandro non fusse ereditaria la cupiditĂ  e l’odio di Calisto terzo pontefice, suo zio; il quale, per desiderio immoderato della grandezza di Pietro Borgia suo nipote, arebbe, subito che fu morto Alfonso padre di Ferdinando, se la morte non si fusse interposta a’ consigli suoi, mosse l’armi per spogliarlo del regno di Napoli, ricaduto, secondo affermava, alla chiesa; non si ricordando (tanto poco puĂČ spesso negli uomini la memoria de’ benefici ricevuti) che per opera di Alfonso, ne’ cui regni era nato e cui ministro lungo tempo era stato, aveva ottenuto l’altre degnitĂ  ecclesiastiche e aiuto non piccolo a conseguire il pontificato. Ma Ăš certamente cosa verissima che non sempre gli uomini savi discernono o giudicano perfettamente: bisogna che spesso si dimostrino segni della debolezza dello intelletto umano. Il re, benchĂ© riputato principe di prudenza grande, non considerĂČ quanto meritasse di essere ripresa quella deli-berazione, la quale, non avendo in qualunque caso altra speranza che di leggierissima utilitĂ , poteva partorire da altra parte danni gravissimi. ImperocchĂ© la vendita di queste, piccole castella incitĂČ a cose nuove gli animi di coloro a quali o apparteneva o sarebbe stato utile attendere alla conservazione della concordia comune. PerchĂ© il pontefice, pretendendo che, per la alienazione fatta senza saputa sua, fussino, secondo la disposizione delle leggi, alla sedia apostolica devolute, e parendogli offesa non mediocremente l’autoritĂ  pontificale, considerando oltre a questo quali fussino i fini di Ferdinando, empiĂ© tutta Italia di querele contro a lui, contro a Piero de’ Medici e contro a Verginio; affermando che, per quanto si distendesse il potere suo, opera alcuna opportuna a ritenere la degnitĂ  e le ragioni di quella sedia non pretermetterebbe. Ma non manco se ne commosse Lodovico Sforza, al quale erano sempre sospette l’azioni di Ferdinando; perchĂ©, essendosi vanamente persuaso, il pontefice co’ consigli di Ascanio e suoi aversi a reggere, gli pareva perdita propria ciĂČ che si diminuisse della grandezza d’Alessandro. Ma soprattutto gli accresceva la molestia il non si potere piĂș dubitare che gli Aragonesi e Piero de’ Medici, poi che in opere tali procedevano unitamente, non avessino contratta insieme strettissima congiunzione; i disegni de’ quali, come pericolosi alle cose sue, per interrompere, e per tirare a sĂ© tanto piĂș con questa occasione l’animo del pontefice, lo incitĂČ quanto piĂș gli fu possibile alla conservazione della propria degnitĂ , ricordandogli che si proponesse innanzi agli occhi non tanto quello che di presente si trattava quanto quello che importava l’essere stata, ne primi dĂ­ del suo pontificato, disprezzata cosĂ­ apertamente da’ suoi medesimi vassalli la maestĂ  dĂ­ tanto grado. Non credesse che la cupiditĂ  di Verginio o l’importanza delle castella, non che altra cagione avesse mosso Ferdinando, ma il volere, con ingiurie che da principio paressino pic-cole, tentare la sua pazienza e il suo animo: dopo le qua-li, se queste gli fussino comportate, ardirebbe di tentare alla giornata cose maggiori. Non essere l’ambizione sua diversa da quella degli altri re napoletani, inimici perpetui della chiesa romana; per ciĂČ avere moltissime volte quegli re perseguitati con l’armi i pontefici, occupato piĂș volte Roma. Non avere questo medesimo re mandato due volte contro a due pontefici gli eserciti, con la persona del figliuolo, insino alle mura romane? non avere quasi sempre esercitato inimicizie aperte co’ suoi antecessori? Irritarlo di presente contro a lui non solo l’esempio degli altri re, non solo la cupiditĂ  sua naturale del dominare, ma di piĂș il desiderio della vendetta per la memoria delle offese ricevute da Calisto suo zio. Avvertisse diligentemente a queste cose, e considerasse che, tollerando con pazienza le prime ingiurie, onorato solamente con cerimonie e nomi vani, sarebbe effettualmente dispregiato da ciascuno e darebbe animo a piĂș pericolosi disegni; ma risentendosene, conserverebbe agevolmente la pristina maestĂ  e grandezza, e la vera venerazione dovuta da tutto il mondo a’ pontefici romani. Aggiunse alle persuasioni offerte efficacissime ma piĂș efficaci fatti, perchĂ© gli prestĂČ prontissimamente quarantamila ducati, e condusse seco, a spese comuni ma perchĂ© stessino fermi dove paresse al pontefice, trecento uomini d’arme: e nondimeno, desideroso di fuggire la necessitĂ  di entrare in nuovi travagli, confortĂČ Ferdinando che disponesse Verginio a mitigare con qualche onesto modo l’animo del pontefice, accennandogli che altrimenti gravissimi scandoli da questo lieve principio nascere potrebbono. Ma piĂș liberamente e con maggiore efficacia ammunĂ­ molte volte Piero de’ Medici che, considerando quanto fusse stato opportuno a conservare la pace d’Italia che Lorenzo suo padre fusse proceduto come uomo di mezzo e amico comune tra Ferdinando e lui, volesse piĂș tosto seguitare l’esempio domestico, avendo massime a...

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