Baudelaire
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Baudelaire

Dal fango all'oro

Stefano Agosti

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Dal fango all'oro

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«Mi hai dato il tuo fango e io ne ho fatto oro» scrive Baudelaire nell'Ébauche d'un Ă©pilogue, un unico verso a custodire un'intera dichiarazione di poetica: la scoperta dell'oro della poesia nel cuore del prosaico – negli inferi dei bassifondi, fra i demoni celesti delle cittĂ  –, l'immersione negli abissi dell'eros e dell'ebbrezza, in una noia fisica e metafisica che trova il suo atroce riscatto nella bellezza. Soprattutto, la ricerca del verso come parola alchemica, formula filosofale per le infinite metamorfosi della materia: metafore, sinestesie, comparaisons che tramutano lampade in sguardi sanguinanti, parole in fate dagli occhi di velluto, languidi baci in liquidi cieli disseminati di stelle.Grazie a un'eccezionale contiguitĂ  con il testo di Baudelaire, Stefano Agosti mostra come questa sostanza mutante – scaturita da una delle piĂč potenti pulsioni emotive mai registrate dalla letteratura – si riversi in una struttura geometricamente ordinata, segnando l'ingresso della poesia lirica nella modernitĂ .Leggere questo testo, che di Les Fleurs du Mal costituisce un indispensabile contrappunto critico, significa ripercorrere la nervatura portante del grande Canzoniere dell'era moderna: «l'istanza flagrante, dirompente, grondante del "moi"» che governa gli itinerari pseudobiografici del poeta, i momenti in cui il significante si solleva alle piĂč pure manifestazioni di musicalitĂ  e in cui una violenza espressiva inedita si infiltra nei moduli di una suprema elaborazione formale. È un movimento nelle profonditĂ  di un'opera scritta da Baudelaire con tutto il suo cuore, tutto il suo odio, tutta la sua religione e la sua tenerezza, che nella lettura di Stefano Agosti giunge intatta al lettore contemporaneo.

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Informations

Éditeur
Il Saggiatore
Année
2019
ISBN
9788865766934

PARTE PRIMA

Forme e figure

1. Un nuovo Canzoniere

Una rassegna sommaria e puramente indicativa dei luoghi (dei «topoi») che caratterizzano la poesia di Baudelaire, comporterebbe:
l’egemonia imperante della percezione; il presente nella sua «qualitĂ  essenziale di presente»;* l’artificiale in opposizione al naturale come il presupposto stesso dell’arte; «la bellezza particolare del male, o il bello nell’orribile»;** il gusto dell’infinito e il fantasma della morte; l’attrazione e la repulsione del corpo femminile; la dolcezza e il veleno; il fascino del macabro e la tensione della forma; la folla e «l’uomo della folla» (Poe); la «rue»; la prostituta e il suo «maquillage»; l’estromissione della natura dall’esistenza ordinaria del Soggetto cui subentra, nei suoi varĂź aspetti, la cittĂ  come luogo esclusivo dell’esperienza individuale; la scoperta della poesia nel cuore del prosaico, come quella della dissonanza nella costruzione del canto; l’orgoglio e l’angoscia; l’ebbrezza e la noia; il fuoco e la cenere; l’abdicazione del concetto di fronte a una postulazione di identitĂ ; e cosĂŹ via.
Tali, in ordine sparso e, come si Ăš detto, a puro titolo indicativo, i «luoghi» di quello che si definirĂ  – o Ăš giĂ  stato definito – il Canzoniere della nostra modernitĂ  (su alcuni dei quali interverremo nel corso della presente ricognizione).
Si tratta, comunque, di un Canzoniere sghembo dal rispetto della composizione, se esso comporta, delle sei sezioni di cui Ăš costituito, una sezione, la prima (Spleen et IdĂ©al), che risulta comprensiva di ben 85 poesie, il che equivale a circa due terzi dell’intero corpus dell’opera.
Cui si aggiungerĂ  tutta una serie di assestamenti, dalla prima edizione del 1857 alla seconda del 1861, anche di grande importanza come l’inserimento in quest’ultima della sezione Tableaux parisiens; assestamenti dovuti magari a cause esterne, come quella, ad esempio, che obbligĂČ l’Autore, dopo la condanna per offesa al pudore, a eliminare sei poesie dall’insieme. Le quali, unitamente ad altre composizioni, vengono pubblicate a Bruxelles nel 1866, sotto il titolo chiaramente allusivo di Épaves («Relitti»), integrate nelle Fleurs du Mal nell’edizione del 1868 – e, quindi, postuma – curata da Charles Asselineau e da ThĂ©odore de Banville, e preceduta da una «notice» firmata da Gautier.
Il genere «canzoniere», a differenza di una pura e semplice «raccolta», da cui si distingue per una soggiacente struttura, diciamo, diegetica, vuoi, approssimativamente, d’ordine narrativo, puĂČ essere riconosciuto alle Fleurs du Mal anche perchĂ© sottoscritto dall’Autore medesimo. Infatti, in una celebre lettera a Vigny (del 15 dicembre 1861), Baudelaire cosĂŹ parlĂČ del suo libro: «Le seul Ă©loge que je sollicite pour le livre est qu’on reconnaisse qu’il n’est pas un pur album et qu’il a un commencement et une fin». Concetto che ribadisce al suo avvocato per la difesa durante il processo: «Le livre doit ĂȘtre jugĂ© dans son ensemble, et alors il en ressort une terrible moralité».
Libro dunque «architetturale e premeditato», ove aggiunte e aggiustamenti obbediscono a un criterio compositivo prestabilito, come del resto dichiara ancora lo stesso Baudelaire nel seguito della citata lettera a Vigny: «Tous les poĂšmes nouveaux ont Ă©tĂ© faits pour ĂȘtre adaptĂ©s au cadre singulier que j’avais choisi».
E tuttavia questa preordinata struttura che designa il libro in quanto «canzoniere» non lo colloca affatto in uno spazio mentale protetto e separato, gestito dal Soggetto a partire da una certa distanza nei confronti dei proprĂź materiali. No. La struttura concettuale del libro risulta investita da una delle piĂč potenti pulsioni emotive che registri la storia della letteratura, e di cui Baudelaire fornisce il documento impressionante in una altrettanto celebre lettera al notaio Ancelle (il tutore che gli era stato imposto) del 18 febbraio 1866: «Faut-il vous dire, Ă  vous qui ne l’avez pas plus devinĂ© que les autres, que dans ce livre atroce, j’ai mis tout mon cƓur, toute ma tendresse, toute ma religion (travestie), toute ma haine? Il est vrai que j’écrirai le contraire, que je jurerai mes grands Dieux que c’est un livre d’art pur, de singerie, de jonglerie; et je mentirai comme un arracheur de dents» (sottolineature nel testo).
Se il modello petrarchesco che presiede al genere si connota, nel capostipite, sul piano della forma per il suo carattere monolinguistico (Contini) e, sul piano dei contenuti, che le Ăš correlato, per una omologa riduzione degli estremi nei riguardi di ogni tendenza (o tentazione) all’espressivitĂ , il «Canzoniere» baudelairiano, fatta salva la struttura diegetica che lo sottende, ne stravolge radicalmente le forme. Per cui si potrĂ  parlare, sĂŹ, di «Canzoniere dell’etĂ  moderna», ma articolato su materiali non petrarcheschi bensĂŹ, piuttosto, «danteschi», se, come segnala ancora Contini, l’esperienza di Dante comporta, da un lato, la massima escursione del lessico, dall’altro, l’istanza di un Soggetto esso stesso sottoposto a un’incessante divaricazione patemica.
Con una precisazione tuttavia. Che il virtuale riferimento dantesco – ma attivo di fatto – sarĂ  al Dante infernale o, al massimo, purgatoriale, e non al Dante paradisiaco. A meno che non si vogliano ascrivere a un’eventuale esperienza «paradisiaca» le composizioni quasi interamente versate nella musicalitĂ  piĂč pura, di cui sarebbe senz’altro emblema Harmonie du soir.
Che il modello o l’esempio «infernale» – anche se preterintenzionale – sia soggiacente al nostro «Canzoniere», Ăš quanto esibisce, e addirittura secondo modalitĂ  decisamente provocatorie, proprio la poesia di apertura rivolta «al lettore» (Au Lecteur): ove la violenza del concetto si associa alla «violenza» del lessico, spesso adibito per accumulo di sostantivi, in serie, appunto, dantesche, del tipo, ad esempio:
PiĂč non si vanti Libia con sua rena;
ché se chelidri, iaculi e faree
produce, e cencri con anfisibena.
(Inf., xxiv, v. 85 sgg.)
CosĂŹ, infatti, qui, in vari punti del testo (si veda al v. 1 e al v. 25), e in particolare alla strofa ottava:
Mais parmi les chacals, les panthĂšres, les lices,
Les singes, les scorpions, les vautours, les serpents,
Les monstres glapissants, hurlants, grognants, rampants,
Dans la ménagerie infùme de nos vices:
violenza lessicale inerente – come in Dante – ai piĂč disparati campi di estrazione degli elementi (per la maggior parte di livello basso), anche associati per contrasto semantico (Ăš, giĂ  qui, la sperimentazione della dissonanza). Si va, infatti, dai vocaboli scientifici (v. 21 «helminthes») ai vocaboli di conio arcaico-popolare (v. 22 «ribote»), o di derivazione straniera («houka», nell’ultima strofa), cui si dovrĂ  annettere il valore «tecnico» del verbo «manger» (quinta strofa), che, nell’idioletto corrente della lingua della relazione erotica, designa il rapporto dell’oralitĂ  (espressa tramite, appunto, la bocca) con le parti sessuali del partner (la strofa Ăš stata infatti eliminata nella prima pubblicazione sulla Revue des Deux Mondes del 1° giugno 1855, ove risulta sostituita da una riga di puntini).
E non si tiene conto, ovviamente, d’una violenza d’ordine generale – concettuale e tematica – che impronta la poesia liminare, e che si manifesta nella presentazione delle molteplici e multiformi aberrazioni dell’individuo sociale e privato della modernitĂ , classificate come vizi o peccati o degenerazioni, tutti di natura volontaria e, per ciĂČ stesso, passibili della piĂč implacabile esecrazione.
Si aggiunga una serie di figure emblematiche (o di fantasmi simbolici) fuori misura, da Ermete Trismegisto, manipolatore della mente e della volontà, e definito infatti come un «savant chimiste», al Diavolo vero e proprio i...

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