Food Marketing2
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Food Marketing2

Il food conquista la città

Carlo Meo

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  1. 160 pages
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Food Marketing2

Il food conquista la città

Carlo Meo

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Perché nelle città chiudono le banche e aprono al loro posto hamburgherie, bistrot e ristoranti? Perché mangiamo sempre più spesso fuori casa e quando siamo in casa riscaldiamo qualcosa di pronto o aspettiamo l'arrivo di un pasto cucinato da altri? Cracco ce la farà a mantenersi in Galleria a Milano? Parigi è ancora la capitale del food chic e Londra dell'innovazione? Il superfood è un'idea geniale di marketing e la pasticceria il peccato indulgente dei nostri tempi? Il food è diventato un linguaggio urbano, una narrazione delle nostre città, un settore dell'economia dell'esperienza, ma soprattutto un business, perché solo le città possono garantire i risultati economici concreti. Nelle città il prodotto food diventa un concetto che interpreta i nuovi significati di consumo delle persone e che ha bisogno di nuovi formati per essere venduto. Naturale evoluzione del precedente Food Marketing, questo libro spiega come avere successo nel nuovo mondo del food, nell'evoluzione del marketing tradizionale verso il design dell'esperienza e mette in evidenza le tendenze e le opportunità per aziende e imprenditori, proponendo un nuovo modello di approccio strategico e operativo al mercato.

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Informations

Éditeur
Hoepli
Année
2019
ISBN
9788820391157
1
Città. Il luogo della conoscenza e dei nuovi consumi
Il termine “urbanizzazione” è il neologismo che si affianca alla globalizzazione, è il fenomeno più importante nel mondo del commercio e in particolare nella vendita e somministrazione dei prodotti food. In realtà non è un termine veramente nuovo ma assume nuovi significati. La storia dell’umanità ha avuto altri momenti e processi di urbanizzazione – pensate alla rivoluzione industriale inglese e alla narrazione dickensiana della stessa – ma quella che stiamo vivendo sta trasformando, probabilmente come nel passato, tradizioni, stili di vita e relazioni delle persone. Per collegarci al nostro argomento, nella Londra del 1700 il gin si distillava clandestinamente nelle vasche da bagno. Oggi nelle città esistono i “Gin tonic bar” specializzati nella somministrazione di gin e toniche premium. In Italia sono in commercio ormai decine di gin artigianali. L’impatto dell’urbanizzazione tocca sia l’aspetto delle dimensioni – la città come luogo di individualità tra milioni di simili – sia quello della qualità – la città come luogo di non relazione, di relazioni istantanee o competitive. Ma il fenomeno dell’urbanizzazione ha forse il suo impatto più forte ed evidente nella concentrazione della ricchezza e nella sua spesa in consumi nella città, il luogo allo stesso tempo della rendita e della spesa. Il luogo dove non si produce nulla, piuttosto “si intermedia e si serve”, ma dove si consuma tutto il possibile. Il luogo più adatto per sfruttare i vantaggi unici dell’economia della conoscenza e l’arma della finanziarizzazione. Dove la ricerca di soluzioni, esperienze, narrazioni, mobilità e altri significati di consumo esplode in maniera forte.
Il “senso” di quello che si consuma appare molto più complesso di quello della vecchia città e della contrapposizione con un’economia rurale, dove produrre nell’orto, cucinare e mangiare era la normalità, dove il prodotto tipico, tanto per fare un esempio, era quello “normale”, dove ancora gli chef erano cuochi o osti. Nella vecchia città il mercato era un mercato, non un concept commerciale di mercato creato ad hoc. La città agisce semplificando su due dimensioni di senso dei consumi, lo spazio e il tempo. Lo spazio non è solo il luogo dove ci troviamo (casa, ufficio, strada) ma il quartiere, il distretto del food, a cui siamo prossimi, la food-hall o il travel retail della stazione o dell’aeroporto nei quali stiamo transitando. Oggi i negozi si concepiscono prima di aprirli e le persone li scelgono più che subirli. Il tempo non è come si crede solo veloce, “fast”, ma dilatato – si mangia a ogni ora (e in ogni luogo) – o “lento” – perché vogliamo rallentarlo per gustarci con calma qualunque cosa. Ma all’interno di questo semplice frame di riferimento è l’individualità dell’uomo urbano che conta, la sua autodeterminazione nella scelta del dove, come e cosa mangiare. Approfondirò tutti questi temi ma anticipo che se il dove e il cosa sono concetti deterministici, nuovi/vecchi format di vendita, nuovi vecchi/cibi, il come è un concetto tipicamente urbano. Il tavolino, metafora rurale del mangiare in comune, scompare a favore del nulla, dello strapuntino per single, del bancone fronte preparazione del piatto, e se il tavolo ricompare, ha perduto la tovaglia, alla faccia dell’igiene. Sette dei primi dieci ristoranti stellati del mondo iniziano le prime portate del pasto facendovi usare solo le mani – forchette e coltelli, conquiste della civiltà, non servono più – mentre la moneta elettronica, la carta di credito, per pagare il conto è indispensabile. Il food è diventato totalmente estetico e sensoriale: il “come” si mangia e si beve è diventato oggetto di studio antropologico. Per converso, se vogliamo analizzare l’evoluzione del rurale, cioè di tutto quello che non è urbano, possiamo tranquillamente affermare che è uno dei mondi esperienziali che funzionano molto bene dal punto di vista food. Siamo nel mondo del “pittoresco” e del “romantico”: l’agriturismo ne è probabilmente l’esempio migliore, la metafora della fuga dalla città. Scappo dalla città. La vita, l’amore e le vacche è un film comico americano del 1991 che aveva già anticipato come sarebbero andate le cose. Di conseguenza diventano oggetto di culto la vecchia osteria di paese, il crotto alpino, il ristorante sulla spiaggia, lo spaccio di mozzarelle a Pompei, la più antica fabbrica del cioccolato della Sicilia. Natura, arte, panorami mozzafiato: food-pittoresco! Purtroppo, e ne parleremo anche in provincia, sulle spiagge e nei crotti è arrivata l’influenza urbana, vista in tv o su internet: scompaiono anche lì le tovaglie, i piatti diventano quadrati, il vino è di tutto il mondo e sul mare mangi il sushi. La cultura del territorio si piega all’aspirazionalità della città: molta imitazione poca innovazione.
La città, non si può negarlo, è anche un luogo di forti contrapposizioni interne: basata sulla ricchezza deve fare i conti con la moltitudine che la abita e da cui è attratta. Di fianco ai quartieri ricchi la città si allarga negli slums dei poveri. Ma ormai è normalità anche nei centri storici della nostra città la presenza costante di senza tetto. Queste persone non consumano e non mangiano come gli altri ma sono comunque “un prodotto” dell’urbanizzazione. E come spesso accade, invece che risolvere un problema lo si sfrutta per operazioni che uniscono la solidarietà al marketing: Il Refettorio di Massimo Bottura è un vero e proprio concept di ristorazione presente a Parigi, Londra, Milano, Rio De Janeiro, Bologna e Modena, in cui si combatte lo spreco alimentare riutilizzando materie prime e si offre un pasto ai poveri. Solo che le location sono bellissime (Place de la Madeleine a Parigi per esempio) i locali sono disegnati e arredati dai migliori architetti-designer-artisti e il ristorante diventa un palcoscenico dove cucinano chef famosi, come Ducasse e Alléno all’inaugurazione a Parigi. Il magazine Le Monde, il 14 maggio 2018, ha suscitato l’ira dello chef italiano e dei suoi fan perché si è permesso di scrivere che il refettorio era pieno a metà: sembra che i bisognosi di Parigi non vadano in centro… e siano un po’ spaventati dalla cura dell’ambiente. Bottura via Facebook ha ribattuto così: “Caro, avresti dovuto aggiungere che non è questione di numeri ma di comunicazione. Il giornalista di Le Monde non ha capito niente del progetto”. Commedia dell’assurdo.
Food, città, povertà, un mondo di contraddizioni. Ma le città, proprio perché centro dei consumi mondiali, movimentano, usano e sprecano tanto. Soffermiamoci sulle movimentazioni dei prodotti alimentari: avete mai pensato alla strada che ha fatto il mango o l’avocado che state mangiando? Si tratta di semplici vegetali ma non sono stati colti nel parco vicino casa: il maggiore produttore di avocado è il Messico, mentre il mango arriva dall’India. Il gambero rosso di Mazara che mangiate nel sushi viene pescato e viene abbattuto a bordo, quindi spedito. Perché non è solo un fatto di trasporto, dalla Sicilia a Milano o Londra, ma di energia impiegata e consumata per conservarlo, trasformarlo o cucinarlo. Vi siete mai posti la domanda di quanto consuma un ristorante o una gelateria? Oppure un abbattitore o un forno per la pizza (elettrico o a legna non cambia nulla). La città è il luogo delle esperienze di consumo ma esiste un mondo prima di mangiare un prodotto pur semplice come un gelato. Dietro l’urban food c’è l’industria del food: in mezzo sta la trasformazione del prodotto e infine l’esperienzialità del consumo. Ora vado a quantificare il fenomeno dell’urbanizzazione sia dal punto di vista degli “umani” sia della ricchezza.
Il mondo in città
Negli anni ’60 solo un terzo della popolazione mondiale viveva in città. Nel 2050 la proporzione sarà invertita: già oggi più della metà della popolazione mondiale vive in città, con punte dell’82% in Nord America, dell’80% in America Latina e nei Caraibi e del 73% in Europa. In persone, tanto per darvi un’idea, la popolazione urbana è passata dai 746 milioni degli anni ’50 ai 3.9 miliardi del 2014. La Banca Mondiale calcola che circa 60 milioni di persone si trasferiscono in città ogni anno: ciò vuol dire circa un milione di persone alla settimana.
La crescita demografica dei prossimi anni a livello mondiale sarà quasi totalmente assorbita dalle città, dove dobbiamo aspettarci di accogliere 1.1 miliardi di persone nei prossimi dodici anni! Lo spazio occupato dalle città sul globo terrestre è solo il 5% della superficie totale!
Per contro Africa e Asia rimangono per adesso nazioni rurali, dove solo il 40% e il 48% vive in città: i due continenti, insieme, ospitano il 90% della popolazione rurale mondiale. Però India, Cina, e Nigeria sono le nazioni in cui da oggi al 2050 crescerà maggiormente la popolazione urbana.
Scrivendo di metropoli, l’oscar va a Tokyo, la città più grande del mondo con 38 milioni di abitanti, seguita da Delhi con 25 milioni (ma proiettata entro 5 anni a raggiungere i 36 milioni), Shanghai con 23 milioni, Mumbai e San Paolo, entrambe con circa 21 milioni di abitanti. Entro il 2030 al mondo ci saranno 41 megalopoli con più di 10 milioni di abitanti.
Ma le città che cresceranno di più in termini di abitanti sono quelle di medie dimensioni, quelle con meno di un milione di abitanti, tipo Milano, Napoli e Bari, per intenderci.
In Italia le cose vanno di pari passo: su 60 milioni di persone, 47 vivono in aree metropolitane, in condizioni certamente migliori di quelle che vivono in provincia. Ed eccoci a un secondo passaggio: la città non è solo il luogo dove vogliono abitare tutti ma anche (e ovviamente le cose sono collegate) quello della ricchezza e della rendita.
La ricchezza in città
Ripartiamo dall’Italia: la città di Milano va talmente forte da crescere a ritmi doppi rispetto a tutto il Paese.
Il PIL della Regione Lombardia è salito nel 2017 dell’1,8% (e il capoluogo del l’1,9%). Ma nei quattro anni 2014-2017 Milano cresce del 6,2%, quasi due volte il ritmo dell’Italia, e oggi risulta sopra il livello pre-crisi del 3,2%, contro un differenziale ancora negativo per Lombardia (-1,1%) e Italia (-4,5%). Dipenderà tutto dall’Expo? Probabilmente anche sì, ma Milano riassume tutte le caratteristiche della città moderna occidentale: un ottimo livello di servizi alla persona, la presenza di due delle migliori Università al mondo (Bocconi e Politecnico), l’eccellenza di due settori cool come la moda e il design, un sistema efficiente di trasporti. Metabolizzata la sconfitta dell’Ema, si aspetta l’arrivo della sede europea della London Stock Exchange.
Milano vive un altro fenomeno tipico dell’urbanizzazione: il ritorno in città degli uffici delle principali aziende mondiali, quelle nuove però, come Google, Amazon, Microsoft e Samsung, che hanno preso tutte domicilio nei nuovi quartieri di Porta Nuova. Le 3.600 imprese estere presenti a Milano raggiungono un fatturato pari a 167,6 miliardi di euro – un terzo del valore di tutte le società presenti in Italia – e danno lavoro a 280.000 persone.
Milano rappresenta un fenomeno che ha caratteristiche globali: il nuovo modello economico non è più basato sull’industria bensì sulla conoscenza, e il risultato è la diseguaglianza territoriale in vertiginoso aumento. Il capitale non investe più sul lavoro ma sulla rendita: la finanza, i servizi, l’immobiliare, il commercio. L’economista Joan Rosés, professore alla London School of Economics, racconta: “Immaginatevi un mondo con poche e piccolissime isole di prosperità, immerse in un mare di povertà e stagnazione. Ci stiamo dirigendo proprio lì”. Joan Rosés, insieme a Nikolaus Wolf, capo economico alla Humboldt University di Berlino, ha creato un algoritmo in grado di definire dove si sta accumulando la ricchezza.
L’assurdità è che la povertà non è solo concentrata nel Sud del mondo e neanche dell’Italia: in realtà è dietro l’angolo di una città come Milano, dove si incontrano alcuni dei Comuni più indigenti d’Italia. Dalle dichiarazioni dei redditi del 2017 si scopre che fra i dieci Comuni con la media reddituale più bassa d’Italia ci sono i due municipi comaschi, Cavargna e Val Rezzo, la trentina Dambel e ben quattro comuni della Provincia Verbano Cusio Ossola, che separa il Piemonte dalla Svizzera: si tratta di Cavaglio-Spoccia, Gurro, Falmenta e Cursolo-Orasso.
Con l’aumento delle disuguaglianze si arriverà, se non alla fine, a un ridimensionamento di un concetto che solo pochi anni fa era vincente: quello dei distretti industriali, spazzati via dalla nuova tendenza dei capitali ad accentrarsi nelle città più forti e a produrre all’estero dove conviene di più.
Senza scomodare la Cina, dove le città sono affollate e ricche mentre la provincia è abbandonata e povera, il modello francese Parigi-centrico, quello inglese basato su Londra e la Spagna con il dualismo Madrid-Barcellona, sono esempi simili a quello di Milano. Chi non vive in città si sente tagliato fuori, non ha accesso a servizi e conoscenza, alimenta nostalgia e rancori. Tutto ciò rappresenta un buon bacino elettorale per il populismo. Il caso di Hillary Clinton che vince facile a New York e nella Silicon Valley, mentre Trump fa sue le regioni rurali e depresse dell’America è ormai storia. Così come il calcolo per cui concedendo sole quaranta sterline di contributo alle famiglie povere rurali inglesi si sarebbe evitata la Brexit.
Ci spiega bene il meccanismo delle Knowledge Economy legato alle città Andrea Filippetti del CNR, in un’intervista all’Espresso del maggio 2018: “La conoscenza agisce come una forza in grado di deformare i territori circostanti e di attrarre altra conoscenza, capitale umano, imprenditorialità, denaro. Questo processo si amplifica fino a creare le attuali capitali, come Londra, Parigi e Milano, oppure le recenti Varsavia e Praga, o la Silicon Valley […]. La conoscenza tende a creare distanze siderali tra centri e periferie delle nazioni. Se l’informazione viaggia a costo zero in tutte le parti del globo, i processi di generazione e diffusione della conoscenza sono fortemente locali […]. Il mito di lavorare da una spiaggia sarda per una società di Milano è pura utopia. Per ottenere, mantenere e fare bene quel lavoro bisogna esserci in città, stare spalla a spalla con informatici, designer, bancari. Se Londra è la capitale dell’Information Technology applicata alla finanza, è perché i due mondi comunicano: banalmente può succedere che la sera al bancone di un pub il colletto bianco di una banca racconti i suoi problemi di lavoro all’occhialuto nerd e così, insieme, trovino la soluzione da cui nasce il Fintech. Si chiama economia dell’agglomerazione”.
Segnatevi questo ulteriore neologismo. Invece, soffermiamoci sul luogo dove si incontrano i due protagonisti della nuova idea Fintech: un pub, non un ascensore di un grattacielo o le aule di un’università. Chi vive e lavora in città usa il food e i suoi luoghi come linguaggio di discussione e occasione di relazione. Cibarsi non è da economia della conoscenza, vivere esperienze food sì. Sempre a Milano, ha aperto Tenoha, format giapponese presente a Tokyo che integra negozio di design, ristorante e bar per aperitivi, sale di coworking comuni, insieme a uffici in affitto per start-up, aperti 24 ore su 24, con ogni tipo di servizio disponibile. Le città hanno bisogno di perseguire strategie molto simili a quelle di branding delle multinazionali per posizionarsi sul mercato globale della coscienza e del turismo: dalla attività di lobby siamo passati al marketing e al design dei servizi. Il sindaco in questa visione è anche un amministratore delegato, non solo un amministratore della cosa pubblica.
Bloomberg Associates è una società di consulenza internazionale fondata dall’ex sindaco di New York, che aiuta le città a posizionarsi, attrarre investimenti, ripensare i propri spazi, applicare le best practice internazionali. Nella lotta per essere una città di primo piano, Las Vegas e Detroit per rivitalizzare le loro città hanno deciso di investire 150 milioni di dollari nello sviluppo di negozi, ristoranti, intrattenimento, specialmente nei luoghi intorno ai loro municipi, e altri 150 milioni in prestiti a interessi zero a start-up. Cosa non si fa per essere una città trendy!
C’è gente, ci sono i soldi: ora si mangia!
Riassumendo: l’urbanizzazione è un processo inarrestabile che raggruppa in uno stesso luogo milioni di persone. Le città producono ricchezza basata sui servizi, l’economia della conoscenza risiede nelle città.
Conoscete un luogo migliore per investire e consumare nel mondo food?
Partiamo da una certezza: il mercato dei consumi fuori casa continua a crescere: l’Italia è il terzo Paese in Europa, dopo Spagna e Francia. Il rapporto tra consumi fuori casa e in casa è del 47,6% nel Regno Unito, del 53,6% in Spagna e addirittura del 59% in Irlanda. In Italia la quota si attesta al 35%, sei punti percentuali al di sopra della Francia. Le famiglie italiane nel 2017 hanno speso per mangiare fuori casa oltre 83 miliardi di euro, il 3% in più dell’anno precedente. Ma se ci riferiamo alle città come Londra, Parigi, New York, la percentuale di consumi fuori casa schizza a oltre il 70% dei consumi totali. Le città ci impongono di mangiare sempre a pranzo fuori casa e ci divertono nel tentarci a mangiare fuori spesso anche a cena. Ma in mezzo c’è lo snacking, il “piluccare” durante la giornata, la vogl...

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