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LâINGLESE
PLANETARIO
Globalenglish e itanglese
Italia-Spagna 0 a 2
Italia-Francia 0 a 1
Italia-Germania 0 a 0?
Globalenglish e itanglese
Espansione e contaminazioni
âQuel ramo del lago di Como sud coast oriented, tra due catene non-stop di monti tutte curvy, a seconda dellâup-down di quelli, divien quasi a un tratto small-size e a prender un look da fiume, tra un promontorio a destra, e unâampia costiera overside; e il ponte, che ivi linka le due rive, par che renda ancor piĂč friendly allâocchio questo effetto double face, e segni lo stop del lago e il restart dellâAdda, fino al remake del lago dove le rive, sempre piĂč extralarge, lascian lo spread dellâacqua rallentarsi in un relax di nuovi golfi curvy.â
Dopo aver sporcato i panni nel Tamigi, ecco il famoso incipit de LâInnominato Wedding Planner for Renzo & Lucia, by Alex A. Manzoni, nella traduzione in itanglese che sto scrivendo per meglio rendere comprensibile alle nuove generazioni un testo ormai datato nel suo linguaggio ottocentesco, visto che il globalenglish avanza e si espande in tutto il mondo. Lo so, non Ăš bello cominciare con parolacce del genere un libro che si prefigge di dimostrare che il numero degli anglicismi Ăš insopportabile, e bisognerebbe evitare questo linguaggio che sta compromettendo seriamente il nostro lessico. Prometto di non farlo piĂč. Ma Ăš diventato difficile fare a meno dellâinglese, e soprattutto in certi ambiti Ăš un esercizio di stile che mette a dura prova, come quegli scritti senza la lettera âeâ, i lipogrammi di Georges Perec o di Umberto Eco. Persino uno dei linguisti piĂč importanti e popolari, Tullio De Mauro, nel 2010 ammetteva di non saper âcome sostituire, ormai, parole come monitorâ,1 ma non se preoccupava granchĂ©. Forse un anglolatinismo come video, che per lo meno ha un suono italiano e passa inosservato, Ăš troppo ambiguo. O forse termini come schermo o visore sono ormai antiquati.
Lâinglese Ăš la lingua planetaria, dicevo, e il suo influsso si osserva in ogni idioma. Parole come bed and breakfast, business, design, fast food, web e altre, dalla A di abstract alla Z di zoom, formano un vocabolario sovranazionale o quasi. Un glossario sempre piĂč ricco che si rintraccia nellâitaliano, nel francese, nello spagnolo e nel tedesco. E ovunque, anche nei Paesi meno intaccati del nostro, tutti ricorrono allâinglese e tutti si lamentano e si preoccupano per gli inquinamenti lessicali.
In Francia si parla del franglais almeno dagli anni Sessanta.2 Il termine Ăš formato dalla contrazione di français e anglais, se non si fosse capito. In Germania si biasima il Denglish (alla tedesca Denglisch), ma ci sono molte altre coniazioni di questo stampo,3 in una gara per dare un nome alla âcosaâ in cui ognuno si inventa la sua. In Spagna tutto ciĂČ si chiama per lo piĂč spanglish, e negli Stati Uniti non Ăš solo una definizione astratta, scherzosa e sprezzante, ma un fenomeno linguistico reale, con le proprie caratteristiche che sono oggetto di studio e allo stesso tempo di indignazione e allarmismi. Si Ăš diffuso da tempo nelle comunitĂ bilingui tra ispanici, portoricani, messicani e cubani e ha dato vita addirittura alle prime testimonianze letterarie.4 Alcuni personaggi di fama internazionale sono diventati veri e propri punti di riferimento di questo ibridismo, per esempio Jennifer Lopez o Ricky Martin, che in molte canzoni alternano inglese e spagnolo un poâ come da noi aveva fatto Pino Daniele con lâanglonapoletano di âYes I know my way, ma nunâ Ăš addĂČ mâaie purtato tuâ.5 Recentemente, attraverso la Rete, lo spanglish sta dilagando ben oltre i confini territoriali e i quartieri ispanici di cittĂ come New York o Los Angeles in una versione definita cyberspanglish.
Come il latino del periodo della grande espansione di Roma, anche lâinglese, quando arriva a lambire i confini del globo, conquista terreno ma allo stesso tempo si sporca, si ibrida e si reinventa in chi lo impiega. Uno di questi segnali Ăš lâapparire degli pseudoanglicismi. Quelle parole che usiamo ogni giorno e suonano inglesi come tutte le altre, eppure non si usano nĂ© in Gran Bretagna nĂ© negli Stati Uniti. Beauty case per esempio, che oltremanica si dice vanity case o in altri modi. Oppure smoking, che Ăš presente nei divieti di fumare ma non indica lâabito elegante. E non si usano autogrill, slip nĂ© tante altre parole che nascono in modo misterioso e si diffondono come le leggende metropolitane, correndo veloci di bocca in bocca. Le reinvenzioni dal suono anglicizzante e le unioni miste di radici inglesi come autostop o footing (che in inglese esiste ma non nellâaccezione sportiva che gli diamo noi) non sono i soliti âmatrimoniâ allâitaliana: si celebrano ovunque.
Tutto il mondo Ăš paese
Lâirruzione dellâangloamericano nelle altre lingue travalica i confini della piccola Europa e coinvolge tutto il pianeta. Dallâaltra parte del mondo câĂš il chinglish, un miscuglio di inglese e cinese che ha dato origine anche a colorate varietĂ locali che ricordano lâitaliano broccolino dei nostri emigranti quando, prima dellâera della fuga di cervelli, le navi attraversavano lâoceano stipate di italiani in cerca di lavoro. Una manovalanza che per sopravvivere in un mondo di cui non conosceva la parlata riportava i suoni angloamericani a quelli del proprio dialetto pugliese, calabrese, napoletano o siciliano. Brooklyn era cosĂŹ simile a broccolo che sembrava quasi facile dirlo. In questo modo nasceva un lessico anglo-italo-dialettale in cui la macchina lavatrice (washing machine) era vascinga mascina, il negozio (shop) scioppa, il lavoro (job) giobba, buonanotte (good night) cunnĂ ite.
In Asia câĂš anche lâhinglish per lâhindi, il konglish per il coreano e il tinglish per il thai.6 E poi ci sono il japish o lâenglanese per indicare la contaminazione con il giapponese. Il caso nipponico Ăš particolarmente interessante, visto che si tratta di un popolo tradizionalmente combattivo e storicamente segnato in modo profondo dalle bombe atomiche e dallâumiliante resa agli americani. Nel 2013, un settantunenne giapponese ha intentato una causa contro lâemittente di Stato NHK per il continuo uso di âprestitiâ linguistici trascritti nellâalfabeto del katakana.7 âChi, al giorno dâoggi, userebbe il termine shukyu (antico lessema che significa âcalciare una pallaâ) per indicare il gioco del calcio?â, si chiedeva in un cinguettĂŹo (tweet) di qualche anno fa lâantropologo Ichiro Numazaki, per poi dichiararsi contrario a tradurre con gli ideogrammi una parola come supporter (tifoso). Da tempo lâAgenzia per gli Affari Culturali Giapponesi denuncia lâuso crescente delle parole straniere che intaccano la bellezza della lingua tradizionale e creano un ostacolo per la comunicazione tra giovani e anziani. Ma gli anglicismi prevalgono ancor di piĂč nel settore tecnologico. Una parola come walkman Ăš un marchio registrato nel 1979 dalla giapponese Sony, anche se viene considerato un termine inglese. E lo Ăš, nella sua struttura e formazione, esattamente come slow food, la risposta made in Italy al fast food.8
A questo punto Ăš palese: tutto il mondo Ăš paese. E bisogna tenere ben presente questo scenario internazionale, prima di domandarsi cosa stia avvenendo, e cosa Ăš giĂ avvenuto, in Italia.
Allâinizio degli anni Settanta il giornalista Nantas Salvalaggio aveva definito italese âil linguaggio semicomico â un intruglio di italiano e inglese â che progressivamente invade le nostre case attraverso le riviste e i fumetti dei figli.â Una denuncia un poâ moralistica e basata sulle impressioni e il fastidio, piĂč che sui numeri. Al 1977 risale invece la coniazione di itangliano,9 annoverato come voce del vocabolario Treccani (2000), e poi si Ăš parlato di italiaricano, italiese, itenglish, mentre nel dizionario Gabrielli si Ăš ritagliato il suo spazio il lemma itanglese che suona piĂč in sintonia con il franglese da cui eravamo partiti.
Comunque lo si chiami, il problema Ăš sempre lo stesso, quello denunciato nel 1987 da Arrigo Castellani in un articolo che sarebbe passato alla storia: il âMorbus anglicusâ che affliggerebbe la nostra lingua.10
Angloscettici e angloentusiasti
Le posizioni storiche in campo sono due, semplificando un poâ quel che ne pensano i linguisti. Da una parte ci sono i ânegazionistiâ. Ritengono che la penetrazione dellâinglese nellâitaliano sia normale e non ci sia nulla di cui preoccuparsi, perchĂ© non Ăš in grado di intaccare o stravolgere la nostra lingua, nĂ© strutturalmente nĂ© per la quantitĂ di parole che entrano. Questa schiera ha visto tra i suoi piĂč illustri rappresentanti Tullio De Mauro, che nel 2010 ha esposto lucidamente una sintesi divulgativa di come la pensava in unâintervista (Gli anglicismi? No problem, my dear) diventata una sorta di manifesto, in Rete.11
Uno dei punti forti di queste tesi Ăš che ciĂČ che accade oggi con lâinglese sia giĂ accaduto tra Settecento e Ottocento, quando il Paese culturalmente dominante, per lâEuropa, era la Francia. Ma lâitaliano ha saputo assorbire tutti i francesismi e ne Ăš uscito piĂč ricco. Niente di nuovo sotto il sole, dunque. Sopravviveremo senza accusare troppo il colpo. Il âliberismo linguisticoâ minimizza, parte dalla convinzione che una lingua abbia in sĂ© gli anticorpi per assorbire le contaminazioni e autoregolamentarsi senza essere snaturata, e non va protetta nĂ© difesa. Guai a farlo! Ă un tabĂč. In questa schiera si annidano anche gli âangloentusiastiâ cui non importa se migliaia di parole angloamericane colonizzano il nostro lessico, anzi le accolgono come doni e come il segno di un internazionalismo linguistico indice di modernitĂ . Qualcuno preferirebbe persino insegnare in lingua inglese nei corsi universitari, e si schiera a favore dellâabbandono dellâitaliano nella scienza e in altri settori dove riterrebbe piĂč opportuno passare alla lingua sovranazionale.
Sullâaltro fronte ci sono le posizioni etichettate come âpuristeâ e âneopuristeâ, che hanno i loro autorevoli precedenti in studiosi come Bruno Migliorini e nel grido di allarme di Arrigo Castellani con il suo morbus anglicus: lâeccessivo uso degli anglicismi e la facilitĂ con cui si accolgono senza adattarli e italianizzarli sono un virus in grado di accumulare parole dal suono lontano dalla nostra cadenza, dai nostri vocaboli che terminano in vocale e dalla loro musicalitĂ . Questa massa di âcorpi estraneiâ sempre piĂč fitta sta snaturando la nostra parlata e la nostra storia. Castellani sottolineava anche una profonda differenza con quanto era avvenuto allâepoca dello splendore del ...