parte seconda
Il laboratorio dei sogni
3. Alice nel paese del business
Il design al servizio dellâinnovazione
Ogni realtĂ di business sta cercando di capire come gestire questo nuovo panorama sociale ed economico. Come da manuale, per molte organizzazioni il primo passo in questo viaggio evolutivo Ăš solitamente quello di affidarsi a modelli preesistenti, nella speranza di trovarvi soluzioni semplici ed efficienti, che siano accessibili e facili da implementare. Questi modelli, nel mondo dellâinnovazione, sono generalmente gestiti dal binomio marketing-ricerca e sviluppo. E quindi a quelle comunitĂ professionali le aziende â piccole, medie e grandi â si rivolgono, chiedendogli di evolvere il loro modo di operare, adattandosi al nuovo scenario. E cosĂŹ professionisti educati e abituati a «performare» secondo modelli predefiniti, radicati nel modus operandi dellâintera comunitĂ di business, tentano di reinventarsi, di ridisegnarsi, cercando di comprendere come fare innovazione reale e radicale, applicata a prodotti, brand e comunicazione, spesso per la prima volta nella loro vita. E i risultati sono per definizione a dir poco inconsistenti. Per molte industrie, in particolare nel largo consumo, si tratta di territori nuovi, inesplorati, pieni di trappole inaspettate. Quella che in passato veniva chiamata innovazione, fatta di evoluzioni incrementali di prodotti e marchi, non Ăš piĂč sufficiente. Lavorare in mono-dimensione, facendo leva su un solo vantaggio competitivo â il brand per esempio, o un brevetto tecnologico o ancora la distribuzione su larga scala â e difendendosi poi con barriere allâentrata, non Ăš piĂč sufficiente. Una semplice variazione del vostro prodotto, una variazione di formula, di stile, di colore, di meccanica, confezionata per generare news ed eccitare il sistema, non Ăš piĂč sufficiente. La competizione Ăš piĂč aperta e aggressiva che mai ed Ăš tutta focalizzata sullâutente finale, sulla persona, sullâessere umano. Vince chi crea soluzioni rilevanti a 360 gradi, su dimensioni multiple: il miglior prodotto, il miglior brand, accessibile attraverso la migliore esperienza, comunicato nel modo migliore, distribuito nel modo migliore, con un servizio che sia il migliore possibile. Tutto insieme. Ă sufficiente non investire su una dimensione per lasciare aperto un pericoloso varco dâentrata a qualsiasi concorrente: se non risolvete voi un problema per il vostro target audience lo farĂ qualcun altro al posto vostro. Non potete difendere la vostra mediocritĂ , lâeccellenza vincerĂ . Prima o poi vincerĂ . Il vostro prodotto puĂČ essere eccellente in svariate dimensioni, ma se esiste anche una sola area di insoddisfazione per lâutente qualcuno prima o poi la sfrutterĂ per penetrare. La vostra cittĂ avrebbe potuto avere qualche anno fa il servizio taxi piĂč efficiente del paese, con le auto piĂč comode e pulite, con i prezzi piĂč vantaggiosi. Forte di quel servizio e di un assoluto monopolio, quella vostra cittĂ non aveva sviluppato unâapplicazione che consentisse a chiunque di ordinare e pagare la propria vettura in modo piĂč rapido, comodo e intuitivo, con tempistiche dâarrivo chiare e monitorabili, evitando attese interminabili in aree non servite e garantendo una sicurezza personale mai esperita prima. La vostra cittĂ non aveva sviluppato tutto ciĂČ semplicemente perchĂ© farlo sarebbe stato troppo complesso, troppo costoso, troppo laborioso. E assolutamente non necessario, secondo molti. Uber decise invece che fosse sia fattibile che necessario. Lâinsoddisfazione dellâutente era diventata il varco di accesso per la start-up di San Francisco. La storia racconta che lâepisodio che fece scattare lâidea fu una corsa in auto con conducente pagata 800 dollari da Garrett Camp, uno dei fondatori. La frustrazione di Garrett innescĂČ un processo creativo e imprenditoriale che evidenziĂČ una serie di insoddisfazioni ben piĂč ampie rispetto al costo della corsa e che portĂČ poi alla creazione di una delle imprese piĂč note e di successo nel mondo del trasporto urbano moderno. Unâimpresa che ha aggiunto valore concreto nella vita di milioni e milioni di persone in giro per il mondo.
Ma lâatto di innovare, seppur complesso, non Ăš sufficiente. A rendere la sfida ancora piĂč ardua si aggiunge il fatto che lâinnovazione deve accadere con velocitĂ estrema e con frequenza accelerata. In un mondo globale e globalizzato, la percentuale di potenziali attori che stiano sviluppando soluzioni che possano competere con la vostra Ăš esponenzialmente maggiore rispetto al passato. Questo alza il livello di difficoltĂ e di complessitĂ . Occorre muoversi in modo accelerato, occorre arrivare primi sul mercato. E quando il vostro prodotto sarĂ finalmente commercializzato, ci sarĂ un altro esercito di concorrenti pronti a sviluppare qualcosa di superiore con lâutente finale in mente: non ci si puĂČ fermare. A Uber sono seguiti Lyft, Gett, le applicazioni dei taxi nelle varie cittĂ . E Uber a sua volta inizia a competere in modo piĂč o meno impattante con i servizi di consegna â di prodotti e di cibo, da dhl a Grubhub â facendo leva sulla propria piattaforma per entrare in altre industrie, con lo scopo di servire lâutente finale in modo olistico e completo. In questo scenario complesso occorre un modo nuovo di operare, di progettare, di pensare, che sia multidisciplinare, ma totalmente connesso e integrato, che sia visionario, ma anche pragmatico, aperto e flessibile, rapido ed efficace. I modelli tradizionali e i loro attori spesso non hanno lâagilitĂ , la competenza, la mentalitĂ e lâapproccio adeguati alla nuova sfida. E mentre nellâarco degli anni le aziende del mondo tentavano di adattare e formare processi e talenti esistenti alle sfide emergenti, una nuova comunitĂ professionale ha iniziato a fiorire, a svilupparsi, a crescere sempre piĂč sulla terra fertile di queste nuove sfide. Una comunitĂ che per anni ha vissuto ai margini del cosmo del business, in una specie di eden protetto e isolato. Una comunitĂ che solo recentemente ha iniziato ad avanzare fuori dal proprio territorio, navigando in modo incerto e avventuroso nelle nuove galassie siderali di quellâuniverso inesplorato. Una comunitĂ fatta di progettisti umanistici e poliedrici. Una comunitĂ chiamata design.
Definizione di design: lo stereotipo della cosmesi
Alcuni si chiederanno cosa abbia a che fare il design con lâinnovazione o con il business. Chi si fa questa domanda non ha idea di cosa sia davvero il design. Eppure, coloro che si pongono questo interrogativo sono numerosissimi. In questo contesto diventa quindi indispensabile spiegare innanzitutto cosa si intenda con questo termine, spesso frainteso e male interpretato da molte comunitĂ , professionali e non. Il significato della parola design Ăš stato discusso, investigato, vivisezionato e decifrato, nellâarco degli anni, da un numero indefinito di professionisti e teorici. Nellâaccezione comune, nellâutilizzo che ne fa la gente della strada, il design viene solitamente associato a due concetti: il bello e il lusso. Un oggetto di design, un abito di design, unâauto di design sono solitamente manufatti ad alto contenuto estetico e ad alto costo. La dimensione estetica in particolare Ăš assoluta, prioritaria, senza compromessi, al punto che dal prodotto di design talvolta non ci si aspetta nemmeno una reale funzionalitĂ . La funzionalitĂ in altre parole diviene solamente un valore opzionale â un nice to have per dirla allâinglese. Il divano di design puĂČ eventualmente essere poco comodo, la scarpa di design puĂČ eventualmente essere difficile da indossare, la casa di design puĂČ eventualmente essere organizzata in modo poco pratico. La mancanza di funzionalitĂ Ăš spesso accettata come prezzo da pagare in nome di bellezza e originalitĂ . Perlomeno nellâaccezione comune. Questa interpretazione del design si focalizza perĂČ su una sola dimensione della disciplina, quella nota, quella glamour, quella piĂč celebrata. Si tratta di una definizione estremamente limitata e limitante, adottata nel linguaggio quotidiano creando un fraintendimento interpretativo che poi si propaga ineluttabilmente anche nel mondo delle imprese. Quante volte nellâarco degli ultimi venticinque anni, nella giungla del business, mi sono imbattuto nello stereotipo del design inteso come decorazione formale e costosa dellâoggetto, contrapposta alla praticitĂ essenziale del prodotto di stampo pseudo-ingegneristico. Ă il concetto del lipstick on a pig come lo chiamano gli americani: il rossetto sul maiale, la cosmesi della funzionalitĂ â a prescindere dal fatto che quella funzionalitĂ sia effettivamente presente o meno. Unâoperazione che secondo il parere di molti Ăš assolutamente opzionale, idealmente evitabile, il piĂč delle volte, nella maggior parte delle industrie. In 3m chiamavamo quellâapproccio al design cake decoration, la decorazione della torta. E la combattevamo con tutte le nostre forze. Se volete investire milioni di dollari in una funzione di design e letteralmente bruciare i vostri soldi allora escludete i vostri designer dai processi di sviluppo, dateli in mano esclusivamente a marketing e r&d e poi coinvolgete i creativi nel ruolo di decoratori (della torta) alla fine del percorso, prima della produzione, per fare qualche ritocco formale, per rendere il prodotto piĂč bello. Posso sentire il fruscio dei milioni di dollari che vanno in fiamme. E posso visualizzare quei designer-decoratori che come Minions arrivano in fila chiamati dallâingegnere o dal marketer di turno, armati di matite, Photoshop e stampanti (3d), per abbellire il prodotto funzionale o il packaging efficiente. PerchĂ© il business leader poco illuminato interpreta i designer-decoratori proprio come dei Minions: «Galoppini dalla limitata intelligenza strategica, gran creativitĂ e immenso cuore», certamente incapaci di aggiungere reale valore allâinizio del processo, chiamati a svolgere un ruolo che per anni Ăš stato opzionale nella maggior parte dei settori industriali e che solo recentemente sta diventando sempre piĂč necessario a causa di quelle che molti considerano delle velleitĂ dellâutente moderno e viziato. Talvolta câĂš piĂč rispetto per il professionista e per la disciplina, ma anche in quei casi resta lo stereotipo del creativo tutta passione e poca strategia. Ed Ăš incredibile invece quanto questa interpretazione si distanzi anni luce da quella che Ăš la realtĂ del design e la definizione formale e formalizzata di unâintera categoria professionale, articolata e teorizzata in documenti ufficiali, nella letteratura professionale, in percorsi di formazione scolastica, in lauree e master universitari, nellâarco di decine e decine di anni.
Definizione di design: estetica e funzionalitĂ
Nel 1994, allâinizio del mio quinquennio di studi universitari al Politecnico di Milano, ci avevano fornito una definizione tecnica che era esponenzialmente piĂč amplia di quella condivisa dai non addetti ai lavori: il concetto di design si riferiva alla capacitĂ di ideare, progettare e creare oggetti dâuso da prodursi in serie, bilanciandone gli aspetti estetici e quelli funzionali. La serialitĂ era indicata come una delle variabili principali che distinguevano il design dallâarte. Al fattore puramente formale noto alle masse si aggiungeva il concetto di funzionalitĂ : il designer lavorava su entrambe le dimensioni, non era solo il maestro della forma come credevano erroneamente i piĂč. Sognava e plasmava forme, ma doveva essere anche in grado di comprenderne la fisica, la chimica e la meccanica, per miscelare estetica e funzione in perfetto equilibrio dallâinizio dellâiter progettuale fino al lancio del prodotto sul mercato. Lâingegnere entrava in gioco nel corso del progetto, in dialogo con il designer, per garantire la fattibilitĂ e la producibilitĂ dellâidea, nonchĂ© per generare successivamente i disegni tecnici per la produzione. Ricordo in quegli anni i miei docenti piĂč poetici che privilegiavano forma, significato e filosofia di progetto, come Andrea Branzi o Alessandro Mendini, e altri piĂč tecnici che priorizzavano funzionalitĂ , fattibilitĂ ed efficienza, come Alberto Meda o Makio Hasuike. Ma a prescindere dalla vocazione personale, questi maestri avevano tutti un comune denominatore che li connetteva: erano sempre in grado di padroneggiare con eleganza e mestiere i due ingredienti fondamentali dellâimpasto progettuale, lâestetica e la funzione, lâemozione e la materia, la poetica e la meccanica. Erano gli esordi della prima universitĂ del design in Italia e da studenti avevamo lâincredibile opportunitĂ e il raro privilegio di lavorare con grandi progettisti internazionali, che a Milano vivevano e praticavano la professione e che nel Politecnico trovavano una piattaforma per ispirare e per trovare ispirazione, in questo scambio con giovani menti brillanti, fresche di energia e cariche di ingenuitĂ . Ă letteralmente incomprensibile come intere comunitĂ professionali, nel business e nella scienza, ignorassero allora e spesso ignorino tuttora, in modo cosĂŹ diffuso e radicato, quelli che sono i principi fondamentali della pratica del design, relegandola alla sola dimensione estetico-formale, senza considerare tutta la formazione sugli aspetti tecnico-funzionali.
Definizione di design: persona, tecnologia e business
Nellâarco degli anni dellâuniversitĂ mi resi poi conto che in realtĂ il design si muoveva su territori ancora piĂč estesi. Il nostro curriculum di studi al Politecnico di Milano si articolava su tre dimensioni fondamentali, a cui ogni corso era poi riconducibile.
- La prima di quelle dimensioni era quella tecnica. Si studiava fisica, matematica, scienza dei materiali. Ogni progetto doveva considerare fattibilitĂ e tecnologie di produzione.
- La seconda era la dimensione dellâessere umano e della societĂ . Si studiava antropologia culturale, etnografia, semiotica e una serie di discipline legate alle scienze umane.
- La terza era la dimensione del business. Si studiava marketing, branding, economia aziendale.
Ogni soluzione progettuale doveva considerare, amalgamare e bilanciare i tre territori: doveva essere desiderabile (persona), fattibile (tecnologia/fattibilitĂ tecnica) e commercializzabile (business/fattibilitĂ economica). Nel momento in cui anche uno solo dei tre territori fosse stato trascurato il progetto stesso sarebbe crollato. Le tre aree erano studiate indipendentemente al Politecnico, separate verticalmente, come fili distinti che durante lâanno venivano poi tessuti e intrecciati lâuno con lâaltro sul telaio dei vari progetti assegnatici. Questa separazione era parzialmente voluta per consentirci un approfondimento piĂč puro e verticale delle varie discipline, ma era anche parzialmente casuale, generata dalla totale novitĂ del corso di laurea e dalla mancanza di sinergie reali e consolidate tra i vari docenti provenienti da mondi diversi, in una facoltĂ appena formata in Italia e mai esistita prima. Quelle sinergie sarebbero nate solo col tempo e con lâesperienza, negli anni successivi. Ma quella collisione di universi distinti in unâunica piazza educativa fu per me invece estremamente preziosa. Mi insegnĂČ a navigare il caos dellâindefinito, a pensare in termini di analisi e sintesi, a riconciliare dimensioni diverse e frammenti disconnessi in visioni olistiche e unitarie. E diventĂČ poi il cardine primario della mia interpretazione allargata del design.
Essere umano e societĂ , scienza e tecnologia, marketing ed economia: a queste tre dimensioni, nel curriculum di studi, si affiancavano poi tutta una serie di corsi tecnici per apprendere il mestiere, dal disegno a mano al design digitale, dalla progettazione 3d alla prototipazione, dalla fotografia alla teoria del colore. Ogni anno lavoravamo su tre progetti, spesso con aziende partner, dal piccolo produttore locale alla grande multinazionale. Tre progetti allâanno per quattro anni e poi il tirocinio e il grande progetto finale di tesi al quinto anno: tredici progetti, gradualmente sempre piĂč complessi, organicamente sempre piĂč vicini al mondo reale delle imprese. In questi progetti lâobiettivo variava costantemente a seconda della natura del prodotto e dellâazienda, ma lâapproccio restava costante: lâidentificazione di un utente e dei suoi problemi o desideri e la creazione di prodotti o servizi che potessero risolverli o esaudirli, che fossero producibili in serie e che fossero commercializzabili. Persona, tecnologia, business. DesiderabilitĂ , fattibilitĂ tecnica, fattibilitĂ economica. Le tre lenti di ogni proc...