Rinascerai
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Il tempo sospeso dal Covid-19 come dono di grazia

Rinaldo Paganelli

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  1. 120 pages
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Il tempo sospeso dal Covid-19 come dono di grazia

Rinaldo Paganelli

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Cosa ci è rimasto delle ore passate in casa in confinamento da covid-19? Cosa abbiamo imparato come comunità cattolica dall'assenza prolungata di celebrazioni liturgiche ed eucaristiche?Padre Rinaldo Paganelli introduce una riflessione sul senso del tempo, psicologico e cronologico, alla luce delle vicende vissute durante il lockdown, attraverso un percorso sensoriale che confronta i cinque sensi in un prima e dopo coronavirus, poiché entrando in contatto col nostro corpo sentiamo nascere risposte e domande, facciamo memoria. Proprio a partire dalla memoria del suo vissuto personale, come uomo e ministro della Chiesa, l'autore ripercorre la vicenda misurandosi con l'idea del tempo: sospeso, non perso, ma ritrovato nel silenzio della comunità e della propria interiorità. Silenzio che nella Parola trasforma tutti i sensi e ridona al corpo la presenza di Dio, che ha creato l'uomo come sua dimora.

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Informations

Année
2021
ISBN
9788861538108

Accendere il fuoco

Per raccontare una storia non bisogna credere di avere la verità in tasca, ma essere cantori del forse, del dubbio, del ma. Far in modo che i pensieri e le idee si accendano, prendano luce per rischiarare chi legge. Provo a rendere possibile questo compito lasciandomi guidare dai sensi. Entrando in contatto col nostro corpo sentiamo nascere risposte e domande, facciamo memoria che è risposta del perché siamo così e del come viviamo gli eventi.

Quello che abbiamo udito

Abbiamo sviluppato molto il senso dell’udito nel bisogno di ascoltare la complessità dei giorni che ci è toccato vivere. Ci siamo allenati ad accogliere il detto e il non detto delle notizie. Tutto si è trasformato in inclinazione verso l’altro.

Ispirati da quello che ci dice lo Spirito

L’ascolto attento di tante informazioni e situazioni mi ha permesso di sintonizzarmi sulla banda larga della realtà. Sono diventato capace di vivere una duplice posizione, incarnata e impegnata e al tempo stesso slegata e libera. Affinare l’ascolto mi ha dato la possibilità di non poter smettere di camminare. Sicuro di ciò che mi mancava, capivo che ogni realtà in cui ci si viene a trovare è sempre provvisoria, e che la ricerca va avanti. Che ci deve essere dell’altro. Lasciandomi abitare da ciò che ancora non è visibile ho colto che è l’attuale civiltà tecnologica ad aver reso possibile e diffusamente praticato uno scambio, un commercio di merci, persino di uomini-merce, la cui rapidità e intensità ne impedisce il controllo. È il mondo globalizzato, ridotto a uso e consumo omologato, a impedire autentiche relazioni fra gli uomini, ad allontanare l’uomo dalla natura, che sia suolo natio o terra promessa, avvicinabili solo lentamente, passo a passo, con confidenza amorevole e quotidiana. È lo sfruttamento intensivo del suolo, a desertificare, inquinare, squilibrare ogni ambiente terrestre, stipando innumerevoli esseri umani in immonde megalopoli, prive di umanità e realtà13.
Quando gli uomini sopravvivono esclusivamente “supportati” da una tecnologia che domina incontrastata e incontenibile, osannata benché altamente infettiva e parassitaria, la vita umana viene meno. Abbiamo bisogno che ciò che facciamo possa cambiare almeno un po’ il mondo, portando la nostra impronta personale, unica. Questo è il nostro mandato, il nostro contributo possibile alla creazione14. È la scintilla che ci fa simili al Padre, unico vero creatore. Noi non possiamo creare le cose dal nulla, ma possiamo dare una forma personale. Gli impegni vissuti bene non hanno più bisogno di tempo libero ma piuttosto di tempo festivo. Un tempo pensato non solo per fare cose finalmente spensierate, ma anche e soprattutto per coltivare le relazioni e per rinforzare i legami.
Questo è ciò che penso e forse è ciò che pensi anche tu, che stai leggendo. Sento di suggerire a me stesso, a chi voglio bene, agli altri, di ripartire da ciò che ci sta dicendo la nostra interiorità, la nostra spiritualità. Credo che, nel tempo che abbiamo vissuto, la componente intellettuale, la componente sensibile, che ci aiutano a “dare le forme”, sentono il bisogno di farsi ispirare un po’ di più da quello che lo Spirito ci dice di fronte a questi fatti, per non dare spazio a una deriva tecnocratica, a forme di razionalismo esasperato o a fredde forme economiche. Ci viene rimandata la necessità di superare il produttivismo per tornare a generare. Generare richiede il prendersi cura, per poi lasciare andare ciò di cui ci si è preso cura. Il produttivismo, che determina la nostra incapacità a stare fermi, spinge a moltiplicare indefinitamente le cose, ha a che fare con il consumo. Certo non con la salvezza, che invece ha a che fare con la pienezza della vita. Pienezza di vita che sta nella fragilità. Dobbiamo assumere la fragilità come condizione di opportunità e come condizione permanente. È dalla cura della fragilità che si genera la creatività umana.

Per rigenerare l’umanità

La fragilità e il limite ci costituiscono. Non solo alla nascita e alla morte, ma durante tutta la vita ogni aspetto dell’esistenza è segnato e reso significativo da limiti. La natura, gli altri, la sofferenza, il dolore, la libertà sono abissali limiti per noi umani. Li esperiamo, ma senza comprendere appieno i loro perché. Solo nella consapevolezza dei propri limiti l’uomo potrà attendere un soccorso da parte di Dio, trascendente ogni presunzione, ideologia o idolatria umana. Solo comprendendo la propria limitata finitezza, l’uomo potrà riconciliarsi con la natura, con gli altri esseri umani, con ogni realtà visibile o ignota. Fino a ieri eravamo abituati a fare i conti solo privatamente. E proprio per questo ne siamo rimasti facilmente travolti. Da qui il diffuso senso di angoscia, con il paradosso che non ci siamo mai sentiti così minacciati, anche se da un certo punto di vista non siamo mai stati così sicuri. Per cogliere il valore vero della precarietà occorre essere disposti a farsi toccare dalla realtà nella sua multiforme e contraddittoria complessità. Dove niente è mai solo bello e solo brutto, solo buono o solo cattivo. La prossimità alla condizione concreta della vita è un’urgenza che va assunta come via per rifondare la nostra umanità.
La coscienza della precarietà condurrà su cammini volti a un nuovo equilibrio fra attività umane e natura, fra persone e persone, facendo capire che la tecnologicizzazione della vita non è un progresso felice e infinito, ma anche che non potrà essere, una mera decisione umana, dall’oggi al domani, persino se presa di comune accordo da tutti i centri di potere mondiali. La tentazione di superare di nuovo la fragilità con la potenza è dietro l’angolo. La si legge nelle domande e nei pensieri: troveremo un altro vaccino e saremo a posto; risistemeremo i conti pubblici e saremo a posto, manteniamo la distanza e saremo a posto. Per carità, sono cose importanti, i vaccini, i conti pubblici e la distanza. Ma non sono quelli che ci portano in una civiltà umana più piena, più bella, più giusta. Quella è la strada di prima. E la strada di prima porta a dove siamo adesso, a ciò che abbiamo appena smesso di fare. Piuttosto occorre porsi in preghiera, in ascolto anche delle minime cose, dei più invisibili esseri naturali, di ciò che eccede ogni nostro limite mortale e quindi meglio lo rende visibile, capace di dare orizzonte ai nostri cammini. Nell’ascolto, nella misura, nel passo lento, nell’intelligenza non prevaricatrice, nell’amorevole cura per ogni realtà e persona, troveremo le risorse intangibili per rigenerare la vita e l’umanità.

Riparare la vita con l’essenziale

La tecnologia è essenziale alla vita umana, lo sappiamo ogni giorno, ma diventa evidente in momenti come quelli che abbiamo vissuto: le mascherine, i respiratori, tutti i dispositivi necessari ad allestire una terapia intensiva. Essenziale è la ricerca scientifica che consente di preparare i vaccini, di fabbricare i farmaci. Sono i momenti come questi che affermano la verità della necessità di investire di più nella ricerca, in quella che sta in ascolto dei bisogni essenziali. Non c’è vita umana se non c’è ricerca e senza ricerca non c’è tecnologia che produce quegli artefatti utili a rendere quanto più possibile buona la qualità della vita. Molti sforzi scientifici sono diretti a rendere il più artificiale possibile la vita, quasi a perseguire il sogno di poter recidere i legami con il mondo naturale sempre troppo imprevedibile.
Proprio perché la tecnologia consente di costruire il mondo umano come altro dal mondo della natura, che noi troviamo già, si rischia di dimenticare quello che noi siamo: materia vivente nel tessuto naturale della vita. Un segno dei tempi che deve far pensare è il fatto che l’essere umano è entrato nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Conosciamo lo sforzo per fabbricare l’essere umano come un voler scambiare la vita ricevuta con un prodotto delle nostre mani. Per essere proprietari e cancellare ogni debito di gratitudine e ogni limite. Mai come oggi capiamo invece che la concretezza della nostra condizione umana è la vulnerabilità e l’interdipendenza. Noi siamo parte della natura. Pensare la vita nella sua complessità e imprevedibilità è azione salutare del pensiero: obbliga all’umiltà, a uno sguardo più misurato, a cercare un pensare che anziché recidere i legami con la terra ci ricordi che noi siamo fatti della stessa cosa di cui è fatto il resto del mondo naturale:
Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente (Gen 2,7).
Il Signore prende contatto con ciascuno, e prende contatto attraverso la polvere, che è qualcosa di irrilevante e insignificante, ma nella povera polvere ritroviamo le tracce di Dio. Il Signore non ti tocca per farti cadere, nemmeno per darti fastidio, ma perché sei la sua eredità, cioè un bene per gli altri (Is 43,1-7). Ogni volto, ogni uomo, anche il più fragile, esiste grazie a Dio che si è sporcato le mani. E il fatto che Dio si è abbassato, per raccogliere la polvere della terra, significa che nessun uomo è straniero, fragile o maledetto.
Davvero succedono tutte le cose, ma queste non riescono ad essere più forti e grandi del senso di appartenenza. Si ha la percezione che la vita si snoda dentro un costante accompagnamento. Rapportate a Dio queste realtà consegnano il senso di una trasformazione costante. Con Lui comunichi non solo quello che ti capita, ma nel momento in cui lo porti alla memoria hai la percezione di essere lavorato da quella realtà che ti abita e che con Lui condividi. È questo nostro essere parte di un mondo che non possiamo controllare alla radice di quella fragilità che oggi un semplice e terribile virus ci ricorda. La nostra vulnerabilità obbliga ad aver cura della vita. Perché la vita ha bisogno di cura. Senza cura non c’è vita. C’è una cura che procura quanto è necessario a nutrire la vita e a conservarla. C’è una cura per far fiorire le potenzialità dell’essere, che si fa parte dell’esistere. C’è una cura che ripara le ferite, quelle del corpo o dell’anima, così che il quotidiano camminare nel tempo possa riprendere.

Ascoltare la forza della solidarietà

“Chi può metta, chi non può prenda.” In questa semplice affermazione popolare, posta sul “panaro” nei vicoli di Napoli, c’è il mistero della bellezza di chi siamo e di quello che possiamo essere. Il luogo in cui c’è gusto è nelle cose quotidiane, vissute con l’apertura del dono, perché il dono è da ricevere non da fare. Donare è la ricetta per dare infinito sapore alla vita, perché permette di riconoscere la vita nascosta in ogni cosa. In casa, al lavoro, nel dolore, nelle relazioni… in tutto, perché solo ciò che viene fatto con e per amore diventa vivo. Così la vita di sempre diventa la vita per sempre. Ho trovato conforto in una serie di notizie che mi hanno dato gusto e fatto assaporare la vita per sempre.
Sapere che più di settemila medici e moltissimi infermieri si sono offerti per prestare servizio negli ospedali di frontiera della Lombardia dove si combatteva ogni giorno per salvare vite rischiando la propria.
Sentire di tecnici e operari che hanno lavorato giorno e notte per ampliare i posti di terapia intensiva ed equipaggiarli di nuovi ventilatori polmonari.
Vedere gli ultrà dell’Atalanta, insieme agli alpini, donare tempo e passione per la realizzazione di un ospedale da campo a Bergamo.
Sapere di migliaia di giovani che hanno fatto la spesa per gli anziani che abitano nelle vicinanze per evitare loro di correre rischi.
Istituire da parte della diocesi di Bergamo un fondo di sostegno di cinque milioni per le famiglie in difficoltà.
Apprezzare i finanziamenti stanziati dalla Conferenza Episcopale Italiana che hanno innescato, in assenza di liturgia, il segno della carità.
Vedere che anche il popolo meno disciplinato del mondo ha saputo rispettare regole che limitavano fortemente la vita di tutti perché ha capito che si stava vivendo una tragedia immane.
Accogliere aiuti di strumenti e medici da paesi non sempre considerati amici o comunque vicini come Cina, Russia, Cuba, Albania, Polonia. Sono tutti fatti che danno consolazione.
I segni di solidarietà ci hanno fatto grandi discorsi che difficilmente ci era capitato di ascoltare con tanta forza di numero e di impegno. Sono i discorsi che ci aiutano a rispondere ai colpi inferti dalla sorte. Grazie a tutta questa gente comincio, e cominciamo, addirittura a pensare che, se sapremo fare tesoro di questa tremenda catastrofe che ci ha colpito, può anche darsi che la società che ne uscirà potrà essere meno superficiale e meno ingiusta di quella che in questi giorni rimpiangiamo.
Non tutto parla in positivo. Scandalo e polemiche a Las Vegas, dove decine di senzatetto sono stati sistemati temporaneamente “come auto” in un grande parcheggio all’aperto. Il rifugio della Catholic Charities è stato chiuso dopo che un clochard è risultato positivo al coronavirus e le autorità non hanno trovato di meglio che il parcheggio del Cashman Center, paradiso dei casinò, complesso per convention e partite di baseball. Proprio qui siamo stati resi partecipi di una curiosa deriva dell’inventiva solidale umana: il distanziamento sociale a misura di senzatetto. A suscitare l’indignazione sono state le foto, pubblicate sui social. Il parcheggio era meticolosamente recintato con un reticolato che identifica lo spazio, rigorosamente nudo e crudo, dove, per concessione dello Stato, i senzatetto possono trovare alloggio. Un alloggio senza alloggio: per definizione il senzatetto non necessita di strutture, qualche metro quadro di asfalto definito da una riga bianca rappresenta, in fondo, il massimo cui un senzatetto può aspirare.
Se non si ha in sé un seme che sta germogliando di suo, ogni emergenza rischia di attivare il cinismo di sopravvivenza, la percezione che lo stato di pericolo in fondo legittimi ognuno a tagliare, a decidere chi si può scartare, a sentirsi parte di una tribù eletta in grado di alchimie improbabili. Come assimilare due metri quadri di asfalto a un riparo degno di un uomo.

Lo spazio che l’olfatto si è creato

Ci consegna un linguaggio invisibile, non occupa spazio, eppure riempie la realtà, non ha una forma ben precisa ma prende possesso velocemente dello spazio. L’olfatto ci trasmette i diversi profumi della vita, le sensazioni si materializzano e diventano considerazioni, valutazioni.

L’osservanza delle regole

Nel volgere di pochi giorni ci si è trovati avviluppati in una maglia di prescrizione di divieti come pesci in una rete. Tutti hanno provveduto a cancellare impegni. La mia agenda, giorno dopo giorno, ha lasciato spazio al bianco. Se in un primo momento ho pensato che qualche appuntamento si potesse spostare in avanti, col passare del tempo mi sono reso conto che i progetti non erano più in mio potere. Ho chiesto il rimborso per i viaggi in treno. Ho provato a pensare come poter riorganizzare la ripresa nel rispetto delle regole. Ho continuato a cancellare facendo spazio all’idea che si sarebbe aperta una strada migliore, e come avrei potuto realizzare meglio quanto mi era richiesto. Poi gradualmente il tempo vuoto che si apriva l’ho sentito un’occasione per lasciar decantare gli impegni, e gli scritti, per migliorarli quando li avrei ripresi in mano. Questa è ricchezza per chi ha la possibilità di vivere nel rispetto delle regole.
La regola viene facilmente sentita e vissuta come astratta e anche ostile alla libera espressione. L’ambito della legge e delle sue sanzioni è una strategia che difende la vita e insieme accresce il disagio e la sofferenza, ostacola la soddisfazione di bisogni primari e genera la desolazione quotidiana. È indubbio che in certe situazioni ci risulta più facile evitare limiti e doveri, anche se tutto si trasforma in confusione. Ma troviamo quasi normale amare quella realtà indistinta piuttosto che le regole. Riusciamo a sentire trascurabile la trasgressione per una sosta vietata, fumare in un’area vietata, non portare la mascherina in luoghi raccomandati. È inevitabile, quasi naturale odiare le regole.
L’insoddisfazione e la fatica nell’osservare le regole che col passare dei giorni montava a causa delle restrizioni mi ha ributtato dentro la mia Chiesa, che amo. Mi sono ritrovato con il pensiero che la Chiesa in quanto tale viene spesso associata a precetti e divieti. Il bagaglio di norme che consegna ai suoi fedeli ancora oggi staziona nelle menti delle persone di mezza età e oltre. Ne è seguita tutta una disciplina del fai-da-te, quando non addirittura allontanamenti dalla Chiesa, proprio in relazione alla pesantezza che derivava da norme che alcuni fedeli non potevano o non volevano rispettare. Ma ho sentito anche tutta la ricchezza delle regole riandando nella Scrittura. Due passaggi chiari: “Ascolta Israele, le leggi e le norme che oggi io proclamo ai vostri orecchi: imparatele e custoditele per metterle in pratica” (Dt 5,1) per l’Antico Testamento; e per il Nuovo Testamento la sintesi di vita per il cristiano, ama Dio e ama il pro...

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