Bibbia parola di uomo
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Bibbia parola di uomo

Ortensio da Spinetoli

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Bibbia parola di uomo

Ortensio da Spinetoli

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La Bibbia, come si sa, è una collezione di libri: settantadue, per l'esattezza. Di fatto il loro numero rimane imprecisato poichè molti di essi includono scritti di autori che non hanno lasciato il loro nome. Si tratta di testi molto particolari: vantano un'origine divina, sono cioè "ispirati".Chi ha scritto è stato mosso e assistito da Dio stesso e, dunque, ogni testo ha paradossalmente due "autori", uno evidentemente subordinato all'altro. In virtù di questa singolare origine la Bibbia ha sempre goduto di un'indiscussa autorità presso qualsiasi credente. Tutto quello che essa dice è da ritenersi sicuro, garantito, vero.Eppure anche la Bibbia è nata in un mondo reale. E se quel mondo era sepolto dalla sabbia e dai detriti bisognava riportarlo alla luce, riscoprirlo, esaminarlo, studiarlo.La Bibbia non era un hortus conclusus, un prodotto a se stante, un'oasi nella letteratura antica, bensì un libro con tutti i pregi, ma anche con alcuni o molti "difetti", alla pari degli altri. Nonostante fosse stato "scritto" da Dio, possedeva tratti che erano solo umani, meglio ebraici e orientali.Il presente volume ha un titolo volutamente provocatorio perchè mira a sfatare un equivoco fondamentale nella generale considerazione del testo sacro, quello di identificarlo con la parola di Dio in assoluto. Per il credente la portata del libro biblico è inequivocabile, ma si tratta di sapere dove sia la sua originalità e nello stesso tempo stabilire dove siano le sue carenze, i suoi limiti, le sue lacune.

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Informations

Année
2018
ISBN
9788861536470

L’interpretazione

La Bibbia è un libro non solo di altri tempi, ma anche di un altro mondo, culturalmente lontano, diverso da quello in cui sono vissuti, vivono e vivranno i suoi eventuali lettori. Per poterla comprendere bisogna riportarsi al momento storico e persino ai luoghi in cui i singoli libri sono stati scritti. In altre parole, occorre ritornare alla situazione esistenziale dei suoi protagonisti e di coloro che hanno raccolto e tramandato le loro vicende; una conoscenza che non si può dare per scontata ma che si acquisisce solo dopo anni di diligente e faticoso lavoro. “Esegesi” ed “ermeneutica” sono due termini tecnici ricorrenti in tutte le lingue moderne che significano analisi, esame, spiegazione, interpretazione e valgono per i testi di qualsiasi letteratura. Le norme dell’esegesi biblica, una volta piuttosto approssimative, come in tutte le altre discipline, oggi sono diventate più precise, si può aggiungere più scientifiche, presso tutte le scuole.

Prima lettura

Non occorre certo essere degli specialisti per prendere in mano e cercare che cosa possa dire un testo biblico. Sia l’Antico sia il Nuovo Testamento si possono aprire sempre con grande profitto culturale, spirituale per chiunque. Se casomai qualche testo fosse difficile o scabroso si potrebbe sempre circoscrivere e passare a un altro più facile. Se alcuni racconti si rivelano efferati, se qualche salmo sembra disorientare, se qualche annunzio profetico appare troppo sibillino, basta andare a quelli più rasserenanti e chiari.
Non occorre essere dei competenti per leggere utilmente la Bibbia, basta avere il cuore e la mente aperti a recepire il suo messaggio. Tuttavia pagine difficili e anche indecifrabili si incontrano in quasi tutti i libri, sia dell’Antico sia del Nuovo Testamento.
E sono per esempio tali quelle relative alla giustizia divina, alle “escandescenze” di Gesù, come quelle riguardanti le Sue presunte preoccupazioni organizzative del movimento che si era suscitato intorno alla Sua persona. Le risposte evasive che sono state spesso date in passato, al giorno d’oggi non sembrano più reggersi. Il vostro parlare sia “sì” o “no”, direbbe anche in questo caso Matteo (5,37).
La volontà, per non dire l’ostinazione, di fermarsi al tenore del testo (“così sta scritto, così va letto”), al letteralismo, oppure la preoccupazione di attenersi in primo luogo o esclusivamente al messaggio spirituale, rifiutando qualsiasi “indagine” ritenuta solo “accademica”, non ha giovato e non giova alla giusta comprensione del testo, il primo intento che dovrebbe proporsi chi si ponga a leggerlo.
L’astensione dai facili pronunciamenti è sempre segno di maturità ed è pure l’atteggiamento più consono al tenore di un libro che in tutti i casi raccomanda di portare rispetto a quanti hanno il “torto” di professare opinioni diverse dalle proprie. Le guerre di religione sono in sé una contraddizione patente, ma sono esistite ed esistono tuttora e tali possono definirsi anche quelle che si sono scatenate intorno all’interpretazione da dare alla Bibbia. I tempi sono cambiati ma le riserve, la diffidenza nei riguardi dei promotori del rinnovamento esegetico permangono ancora. La Bibbia è sempre il libro di tutti e per tutti. La differenza tra le varie letture ebraico-cristiane o cattolico-evangeliche è sempre secondaria e non vale la pena di rinunciare alla propria tranquillità e pace interiore per far prevalere l’una sull’altra, con il rischio di perdere l’essenziale: l’incontro con Dio, con Gesù Cristo, con il Vangelo.

L’interpretazione scientifica

L’impostazione esegetica tradizionale è segnata da alcune ben note lacune: innanzitutto da carenza di metodo, quindi da pregiudiziali teologiche, infine da taluni condizionamenti storici.
La carenza fondamentale è stata metodologica. Quando non si ha la giusta chiave per aprire le porte del castello non si può pretendere di entrarvi e quindi di aggirarsi nei suoi meandri. Per questa ragione la lettura della Bibbia è rimasta per secoli alla superficie del testo, ferma al suono materiale delle parole, a quello che il brano sembra a prima vista voler dire, piuttosto che a ciò che realmente dice. Se è scritto che Jahvé passeggiava per i viali del giardino (Gn 3,8), che il serpente parlava (Gn 3,1) o l’asina di Balaam pronunciava oracoli (Num 23,7), oppure che l’angelo di Jahvé nella notte dell’esodo oltrepassava le porte delle case ebraiche segnate dal sangue dell’agnello (Es 12,13) e, più avanti, che l’arcangelo Gabriele si è presentato a una vergine di Nazareth (Lc 1,26) o che lo Spirito è sceso su Gesù in forma di colomba (Lc 9,22), vuol dire che è questo ciò che è esattamente accaduto.
Se poi Gesù è presentato da Paolo e Giovanni come “capro espiatorio” o “agnello pasquale”, che “è morto per i nostri peccati” o è “figlio di Dio”, è così che deve essere inteso, nel suo senso ovvio. Tuttavia il linguaggio figurato è antico quanto l’uomo, anche se non è stato preso in considerazione nei confronti dei libri biblici, come se non si addicesse al “parlare divino”.
La determinazione a fare appello al senso letterale ha fatto dimenticare che questo in realtà può trovarsi in modo “proprio” o “improprio” (figurato, simbolico, allegorico). Una simile distinzione elementare non è stata tenuta in debito conto nel corso dei secoli (come si verifica tuttora in molti settori fondamentalisti ebraico-cristiani) e ha reso impossibile capire il tenore e quindi il contenuto di qualsiasi brano biblico.
Occorre sì attenersi innanzitutto alla “lettera”, ma non al letteralismo. Il linguaggio metaforico, allegorico, simbolico è un modo di parlare corrente presso tutti i popoli al pari del linguaggio diretto o piano. Il senso traslato, infatti, è tale perché è al di sopra o entro ciò che appare in superficie. In qualsiasi scritto, leggendo, occorre sempre badare al linguaggio o al genere letterario che si ha davanti.
La lettura tradizionale, oltre a rimanere ancorata al “primo” senso del libro, si è trovata condizionata da certe pregiudiziali teologiche dei suoi interpreti che li hanno indotti a sopravvalutarne la portata.
Se infatti la Bibbia è un libro che ha Dio per autore, non è mai esagerato attribuire alla sua parola un valore, un significato senza possibili restrizioni di contenuto. Come non si possono porre limiti alla onnipotenza e onnipresenza divina, non è nemmeno possibile, ammissibile, circoscrivere il peso dei suoi discorsi. Potuit, decuit ergo fecit (“era possibile, era conveniente, quindi l’ha fatto”), si è qualche volta ripetuto per favorire certe dommatizzazioni mariane; un assioma che implicitamente è stato adottato dagli esegeti del passato. L’importante non era avere delle regole metodologiche a supporto dei percorsi di ricerca che sfociavano in determinate conclusioni o affermazioni, ma avere una grande fede in Dio. Tutta la letteratura rabbinica, che nasce da “commenti” ai testi dell’Antico Testamento, così come quella degli autori neotestamentari (si pensi in particolare a Matteo, Paolo, Giovanni) è accomodatizia, cioè adattata alle situazioni che si vogliono illustrare, apologetica, devozionale. I “padri” infatti parlano dei “sensi” delle Scritture. Alcuni – per esempio gli esponenti della scuola alessandrina – arrivano a ipotizzare un “senso anagogico” (da anagoghè, elevazione), quello che va “al di sopra”, che tenta cioè di avvicinarsi alla stessa realtà divina. È stato anche chiamato senso “mistico”, ma è sempre in qualche modo una forzatura, se non proprio una vera, voluta mistificazione.
Il metodo esegetico tradizionale si potrebbe definire “induttivo”, poiché parte da presupposti, postulati teorici indiscussi (l’ispirazione) e da essi invita a trarne (dedurne) le conseguenze che sembrano d’obbligo ma alla fine sono solo supposizioni più che vere spiegazioni. La comprensione del testo sacro non è stata poi agevolata dall’estrazione socio-culturale dei suoi interpreti: uomini di determinato rango (clero e alto laicato), di una formazione che pur senza alcun esplicito proposito li ha esortati a leggere la parola di Dio in funzione della loro collocazione nel quadro comunitario. Sono stati così quasi costretti a dare importanza alle pagine più “vicine”, almeno apparentemente più “consone” alla situazione esistente, e a lasciar passare in second’ordine, fino a dimenticare del tutto, quelle che la contraddicevano e, peggio, la condannavano. La posizione che occupavano li ha spinti a fermare l’attenzione sui temi che salvaguardavano l’apparato, più che su quelli che lo mettevano in discussione.
Fin tanto che non si è verificata la svolta illuministica, non sono nate la società moderna e la nuova impostazione della cultura, anche l’esegesi biblica è rimasta antiquata, legata alla tradizione più che aperta al progresso scientifico.

Il metodo storico-critico-letterario

La Bibbia è un libro per tutti, ma non tutti sono in grado di leggerlo rettamente. Non basta una qualsiasi competenza per ritenersi capaci di comprendere un testo antico, di un arco culturale lontano dal proprio. Nemmeno un teologo, in quanto tale, può impancarsi a esegeta. L’eunuco della regina Candace andava interrogandosi sul senso di Is 53 e non ne sarebbe venuto fuori se non gli fosse stato dato di incontrare il diacono Filippo (At 8,26). La spiegazione scientifica della Bibbia può considerarsi facoltativa, ma quando si tratta di formulare pronunciamenti dottrinali o di impartire direttive etiche in nome di Dio occorre assolutamente sapere ciò che un determinato testo dica. E, se non si è in grado di stabilirlo, bisogna astenersi da indebite conclusioni teologiche, tanto più dall’imporle agli altri. Il profeta Geremia (7,4) attacca duramente quanti facevano appello alla “parola del Signore” per avallare le loro menzognere affermazioni. “Io non li mandavo ed essi correvano; non avevo parlato ed essi profetavano” (Gr 23,21). Ma non occorre tornare tanto indietro per confermare siffatte constatazioni: il nuovo Catechismo della Chiesa cattolica (1993), come l’ultima enciclica di Giovanni Paolo II (Ecclesia de Eucharistia, 2003), in cui i richiami biblici sembrano più fortuiti che appropriati, ne dà un’ampia conferma.
La Bibbia, si dice, narra un’esperienza di fede, che non può essere compresa dal ricercatore che ne fosse sprovvisto; ma è un’affermazione che, per quanto vera, potrebbe rivelarsi pretestuosa. Non occorre essere marxisti per leggere Il capitale. Certo la sintonia ideologica fra chi ha scritto e chi legge è sempre una condizione di vantaggio per entrare nello spirito e nell’intento di un libro che ne illustra i contenuti, ma non per questo il libro è precluso a chi non crede. Se l’“ateo” non riuscisse a scoprire il senso e la portata di un testo sacro o ne stravolgesse il significato sarebbe solo perché non si è munito, nel leggerlo e soprattutto nell’interpretarlo, dei necessari “strumenti tecnici”, non perché non ha fede.
Un medico cristiano non è a questo titolo più capace di un collega miscredente. Per la riuscita della sua professione non è al primo posto la fede ma la competenza, che non è sostituita nemmeno dalla santità della vita.
La fede è sempre preferibile all’incredulità per comprendere un testo che ne tratta come la Bibbia, ma non è la condizione insostituibile quale è invece solo la conoscenza e il retto uso del metodo ermeneutico. Molti sacerdoti, pastori d’anime, guide comunitarie, sono senz’altro uomini di grande fede ma non sono egualmente buoni esegeti. Pio X, pur sommo pontefice e per di più proclamato santo, ha reso ciononostante un cattivo servizio alla scienza biblica, opponendosi strenuamente ai primi tentativi di ricerca scientifica che si facevano nella Chiesa.
L’interpretazione di un testo presuppone che si conoscano chi l’ha scritto, il tempo in cui è vissuto, in modo da determinare e valutare rettamente il senso e il peso delle parole che adopera, dei riferimenti cui fa allusione o di cui parla esplicitamente, dei discorsi che pronuncia, delle proposte che avanza. La Divina Commedia non è comprensibile per chi non sia a conoscenza della personalità dell’Alighieri, della sua poetica e della sua straordinaria cultura “scientifica”, filosofica e teologica e dell’ambiente fiorentino del Trecento.
Maometto proviene da un preciso contesto culturale (arabo-ebraico-cristiano) che ha determinato la sua svolta religiosa e ha dato una chiara impronta alla sua predicazione e quindi ai suoi scritti. Se si esce da un tale riferimento è impossibile comprendere il Corano.
Questo tentativo di ricollocare il libro nel suo contesto di origine dà al metodo esegetico la sua prima connotazione, quella di “storico”. Si tratta di una riambientazione che va fatta con accuratezza, in base a riferimenti e documenti presenti nel territorio in cui è sorta la Bibbia o nei paesi circonvicini. Bisogna arrivare ad avere non tanto idee quanto conoscenze esatte sul mondo e sul tempo in cui sono sorti i vari libri biblici. La stessa attenzione va data alla letteratura contemporanea al libro sacro – in concreto ai testi cuneiformi, sumero-accadici, babilonesi, assiri, quindi egiziani, hittiti e fenici – per rendersi conto del livello e delle modalità di pensiero che circolavano nella terra d’Israele e nei dintorni; un mondo cui attualmente è possibile accedere grazie alla decifrazione delle lingue antiche avvenuta solo nel secolo XIX, ma che al loro tempo erano sicuramente note agli autori sacri.
L’ebraico è una lingua povera di vocaboli e di forme verbali, ma l’ebreo non è povero di idee, di emozioni, di sentimenti o di progettualità, solo che è costretto a far passare tutto il suo mondo interiore, in particolare la sua eccezionale esperienza di Dio, in un linguaggio che è sempre del tutto inadeguato. Tutte le parole dell’uomo sono convenzionali, ma quelle dell’uomo biblico lo sono più delle altre. Non si tratta di divagare ma di andare alla radice dei termini, alle loro risonanze, alle possibili derivazioni e applicazioni per stabilire ...

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