Polen ĂnlĂŒ
Una mattina si svegliarono col rumore di unâesplosione. La gente di casa saltĂČ sul letto udendo quel rumore assordante. Il palazzo di fronte alla loro casa era avvolto dalle fiamme. Mentre tutti erano presi dalla fretta, madre Ćennure sussurrava delle preghiere. A Polen invece, chissĂ per quale motivo, era venuta in mente la poesia di Cemal SĂŒreya Tieni il resto:
Sto morendo, mio dio
Anche questo Ăš ormai accaduto
Ogni morte Ăš una morte prematura
Lo so mio dio
Ma questa vita che ti stai riprendendo
Non era male
Tieni il resto.
Quando lo raccontĂČ a Ăzgen Sadet risero insieme a lungo. Quando Ăzgen seppe che Polen era fra quelli che erano stati massacrati a Suruç, la prima cosa che le venne in mente fu quel ricordo. «ChissĂ se in quel momento le Ăš venuta in mente questa poesia? Ci penso sempre».
Polen era una donna che amava la poesia, che faceva ridere, una donna cocciuta, schietta e coscienziosa. Era una rivoluzionaria attiva, membra del Kgö. Quel giorno aveva viaggiato in autobus seduta accanto a OÄuz YĂŒzgeç. Fra di loro câera una questione irrisolta e il lungo viaggio divenne lâoccasione per risolverla.
Polen un giorno mi disse «questo non lo darei a nessuno. Lo do a te ma nascondilo assolutamente» e mi diede un orologio da polso. Io lo presi e dissi «va bene, prometto di non darlo a nessuno». Polen riattaccĂČ: «Guarda, ti conosco bene, tu sicuramente lo darai a qualcuno. Se fai cosĂŹ non te lo do». Promisi di nuovo e presi lâorologio. Il giorno dopo incontrai un amico che stava partendo per combattere nei battaglioni comunisti e volevo dargli qualcosa che gli fosse di ricordo. Non avevo con me nientâaltro che lâorologio che mi aveva regalato Polen. Proprio come Polen aveva immaginato, mi sfilai lâorologio e lo diedi a quellâamico. Quando vide che non avevo lâorologio al braccio si arrabbiĂČ. Durante tutto quel lungo viaggio verso Kobane ero riuscito a riconquistare la sua fiducia.
Lungo il viaggio parlammo a lungo delle nostre vite, delle nostre famiglie, di quello che avremmo voluto fare. Voleva conoscere le guerrigliere. E poi desiderava tantissimo vedere compagni che conosceva e che erano partiti per il Rojava. Cercava continuamente di capire se avremmo avuto la possibilitĂ di incontrare i guerriglieri comunisti, mi faceva continue domande. Avevamo un piano del genere, ma io volevo che fosse una sorpresa per lei e non glielo dicevo.
Anche per Polen, come per BĂŒĆra, lâinfluenza del martirio di Sinan SaÄır sul mettersi in viaggio fu molto forte. In fondo era come se seguisse una traccia. Questa traccia la portava tanto ai territori della rivoluzione quanto alla propria rivoluzione personale. DoÄukan racconta che Polen dopo la rivolta di Gezi si era ritirata in se stessa.
Durante le sollevazioni di Gezi Polen era rimasta spaventata dal fatto che molte persone erano state colpite agli occhi. Anche persone molto vicine a lei erano state colpite agli occhi dalla polizia. Questa paura in quei giorni si era trasformata in qualcosa che la bloccava. Tuttavia, non se lâĂš trascinata per tutta la vita, quella paura lâha poi affrontata e superata.
Dopo che le rivolte di piazza Taksim per Gezi Park volsero alla fine, per un lungo periodo non uscĂŹ di casa e non vide nessuno. In quei giorni leggeva molti libri, soprattutto poesia, e vedeva tantissimi film. Questa situazione andĂČ avanti dallâestate del 2013 fino allâinverno del 2014. DopodichĂ© tornĂČ a prendere parte alla vita e alla lotta. Secondo Ăzgen, che fu testimone di quei giorni, in realtĂ il filo che la legava alla lotta non si era mai reciso.
In quei giorni aveva bisogno di riposare la mente e di conoscere meglio se stessa. Ma anche mentre era a casa aveva dei parametri molto chiari. Per esempio, aveva partecipato al funerale di Berkin. Era giusto che ci andasse e ci andĂČ. PartecipĂČ alla marcia in ricordo di Hrant Dink il 19 gennaio. Anche quella era una cosa a cui lei sarebbe assolutamente dovuta andare. Discuteva con se stessa e quando si ritrovĂČ tornĂČ alla vita sociale come una Polen diversa. Distrusse se stessa per ricrearsi di nuovo. Nel romanzo di OÄuz Atay Giochi Pericolosi ( Tehlikeli Oyunlar ) ci sono âPrimo Hikmetâ e âSecondo Hikmetâ come personaggi. Allo stesso modo, Polen diventĂČ come una seconda Polen. Specialmente la morte di Sinan ebbe su di lei un effetto particolare. Anche Sinan era una persona che aveva le sue timidezze e le sue paure. Questo Polen lo sapeva. Che una persona del genere prendesse parte alla lotta nei suoi fronti piĂč avanzati fece sĂŹ che Polen si interrogasse molto su se stessa.
Ezgi Bedel continuĂČ a vedere Polen anche dopo le rivolte di Gezi. Qualche giorno alla settimana andava a casa sua e passava un poâ di tempo con lei: «Polen in quel periodo credeva di essersi un poâ ritirata in sĂ©, ma dentro di lei il legame con la lotta non aveva perso di forza. Non vedevo affievolirsi in lei la connessione con le persone e con il movimento. Fra di noi ci chiamavamo âlavoratriciâ. E in effetti Polen era davvero una lavoratrice del movimento».
Anche Havva Custan mi ha dato la stessa descrizione di Polen: lavoratrice della rivoluzione.
âLavoratore della rivoluzioneâ si usa dire, e Polen era proprio cosĂŹ. Alle assemblee non parlava molto. Se durante la discussione qualcuno esprimeva quelle che erano anche le sue idee, a lei bastava dire che era dâaccordo con quel compagno. Durante le elezioni del 7 giugno si era data davvero molto da fare. Non lasciava indietro niente. Ha camminato per giorni interi per le strade di BeĆiktaĆ e di Sarıyer. Il suo scopo era essere una lavoratrice per la rivoluzione.
Anche quel giorno al Centro Culturale Amara era davanti, fra i responsabili. Doveva raccogliere le carte dâidentitĂ e fare le fotocopie. A Istanbul, prima di partire, quando qualcuno le chiedeva cosa avrebbe fatto laggiĂč, lei rispondeva «trasporterĂČ delle pietre sulla schiena». E se avesse raggiunto Kobane lo avrebbe fatto veramente. Era forzuta e non era una ragazza pigra. Inoltre, a Kobane avrebbe voluto fare un disegno su un muro. La sua intenzione era di colorare un grosso muro con un disegno che sarebbe piaciuto anche ai bambini e che avrebbe incluso tutti i simboli della resistenza dal passato a oggi.
Mentre Polen stava ricostruendo se stessa, non poteva non ascoltare lâappello della rivoluzione del Rojava. Il Rojava era il posto che le ridava speranza. Con DoÄukan ne parlavano spesso.
Polen seguiva da vicino e conosceva molto bene gli sviluppi che avvenivano in Medio Oriente. Vedeva il Rojava come una riserva dâossigeno per la regione. Per lei era qualcosa di molto prezioso e quindi voleva andare a vedere. Il Rojava era qualcosa che faceva parte di noi e a noi molto vicino. Per questo motivo Polen doveva vedere. Voleva a tutti i costi fare qualcosa per quel posto, anche di molto piccolo.
Secondo Can Papila, Polen si mise in viaggio pensando a se stessa.
Uno degli scopi di andare a Kobane era senzâaltro la solidarietĂ . Sicuramente questa aveva un ruolo nello spingere Polen a mettersi in viaggio. Tuttavia câĂš anche qualcosa di molto piĂč intimo. Polen era entrata in un periodo di introspezione, di autoanalisi, di molti pensieri. Andare a Kobane per lei significava passare a un altro livello. Avrebbe visto la rivoluzione, avrebbe visto le guerrigliere e probabilmente sarebbe tornata indietro come unâaltra Polen. Secondo me Polen andava a Kobane per se stessa e per il proprio spirito di rivoluzione.
In quei giorni la rivoluzione del Rojava, grazie alla resistenza di Kobane, aveva sollevato nei giovani socialisti un interesse enorme. Lâinfluenza giocata sulle loro scelte personali dalla partecipazione alla resistenza di loro amici, compagni e conoscenti era molto grande. Secondo Ece ĆimĆek inoltre, quel viaggio era legato anche alla loro giovinezza.
Ricreare qualcosa. Era qualcosa collegato alla nostra gioventĂč, alla nostra lotta, e soprattutto al nostro essere donne. Trovarci in un luogo col quale avevamo creato un legame ideologico, allo stesso tempo aveva a che fare con la nostra gioventĂč. In quei giorni io lavoravo a Etha. Sarei partita anche io, perĂČ fu incaricato di partire il nostro amico Yunus. Andare a vedere le strade e le case in cui i tuoi compagni sono stati uccisi. La morte di Sinan, che non era stata solo la sua morte, ma la morte di ciascuno di noi. Anche per Polen era cosĂŹ. Era cosĂŹ per tutti noi. Era un periodo di grandi interrogativi. Lo era per Polen, ma era cosĂŹ anche per tutti noi. PerchĂ© Ăš scoppiata quella bomba a Suruç? Ci ho pensato a lungo. Il vero motivo che fece scoppiare quella bomba ha a che fare con le cose che avremmo voluto fare in futuro. Non voleva semplicemente impedirci il passaggio da Suruç a Kobane; voleva impedire che al ritorno ci portassimo con noi la speranza, la voglia di lotta, la determinazione, lâentusiasmo per la rivoluzione.
I loro amici e i loro compagni avevano preso parte alla resistenza armata. Anche grazie al loro sangue, ai loro corpi, alla loro forza di volontĂ , Kobane si era salvata dallâoccupazione di Daesh; adesso toccava ricostruirla. Come dice Ăzgen, che in quel periodo era copresidente della Sgdf, i giovani socialisti pensavano che adesso fosse il loro momento di intervenire.
Durante lâassemblea generale in cui decidemmo di andare a Kobane nessuno si oppose. Prendemmo quella decisione allâunanimitĂ . Mentre succedevano un sacco di cose vicino a noi, fare qualcosa per Kobane era una prioritĂ nelle nostre coscienze. Lâavevamo difesa insieme e adesso lâavremmo ricostruita insieme. E il compito della ricostruzione toccava anche a noi. Pensavamo veramente che fosse arrivato il nostro turno. La campagna per Kobane ha tracciato per noi una linea molto concreta. In ogni situazione, parlavamo delle azioni di liberazione e di rottura dei confini di coloro che si erano dedicati alla rivoluzione. Era soprattutto lâazione di liberazione delle donne che ci emozionava. Del resto non Ăš una cosa che succede spesso nella storia mondiale, ovvero che la propria generazione sia testimone di una rivoluzione. Da un certo punto di vista ci ritenevamo fortunati. Noi eravamo fra i promotori delle rivolte di Gezi, dentro Gezi eravamo cresciuti, e adesso eravamo testimoni della rivoluzione delle donne del Rojava. Per questo motivo volevamo vedere le terre della rivoluzione, volevamo respirarle, viverle. Dovevamo farlo assolutamente.
Polen generalmente partecipava a tutte le attivitĂ della Sgdf. Nel 2012 era andata a Roboski a condividere il dolore del popolo kurdo. Anche Dilcan Acer era fra quelli che andarono: «Non andammo a Roboski per fare unâattivitĂ sociale. La solidarietĂ implica un altro sentimento, unâaltra soddisfazione. Polen conosceva questo sentimento. E con quello devâessere partita per Kobane. Inoltre con questo viaggio voleva in qualche modo fare la storia».
Dopo il terremoto era andata a Van. Era a KĂŒrecik per la foresta memoriale Sinan Cemgil e sotto il sole senza annoiarsi scavava buche per piantare i giovani arbusti.
Si Ăš data da fare per tutto. Durante la campagna per Kobane lavorava in un bar e allo stesso tempo partecipava allâorganizzazione, e cercava di imparare il kurdo. Ezgi, BĂŒĆra e Polen avevano iniziato a partecipare alle lezioni di kurdo che si tenevano al Beksav. Secondo Ece, credevano cosĂŹ tanto in questo viaggio che cercavano di imparare il kurdo con grande gioia e grande convinzione.
La sua famiglia sapeva di questo viaggio a Kobane. Sua madre Ćennure non le disse di non andare. PerchĂ© comunque sapeva che anche se le avesse detto «non andare» non avrebbe ascoltato e sarebbe andata.
In quei suoi occhi, nel suo sguardo ho visto un calore. Quando obiettai che era pericoloso mi disse «mamma, al massimo ci arrestano». Che potesse scoppiare una bomba del genere non sarebbe venuto in mente nemmeno al diavolo. Non sono pentita di non averle detto di non andare. PerchĂ© quella bambina lâho cresciuta io. Non era certo una bambina di cui io debba pentirmi. Non sono io a dovermi pentire, ma quelli che hanno fatto scoppiare quella bomba. Sono orgogliosa di lei. E del resto non poteva che essere cosĂŹ. PerchĂ© lâho cresciuta io Polen. Era davvero cocciuta. Ho sempre voluto che i miei figli fossero un passo davanti a me. Fin da piccola lâho abituata a leggere libri. Anche io leggevo, ma volevo che loro leggessero molto piĂč di me. Suo padre era quasi intimorito, non si azzardava a discutere con lei. PerchĂ© parlava in maniera accademica. Con tutto quel che sapeva non avrebbe dato scampo a suo padre.
Una sera tornando a casa mi raccontĂČ una cosa. Mentre tornava a casa in autobus aveva le cuffiette alle orecchie e ascoltava la musica. Un uomo che le stava a fianco le disse qualcosa allâorecchio. A causa delle cuffiette non aveva sentito bene, cosĂŹ si tolse le cuffie e chiese allâuomo cosa avesse detto. Lâuomo ripetĂ© «sei molto carina». Impossibile, non era una frase che Polen poteva accettare da una persona sconosciuta. Quellâuomo lo avrebbe spiaccicato a terra. «Alla prima fermata scendi oppure ti seppellisco qui» gli disse. Mentr...