Tutta un'altra storia
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Tutta un'altra storia

La Grande Guerra raccontata dalle donne e dai bambini

Raffaella Calgaro

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La Grande Guerra raccontata dalle donne e dai bambini

Raffaella Calgaro

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La guerra non è un affare solo militare. Sradica e annulla comunità. Priva dei diritti elementari interi popoli coinvolgendoli in un dramma senza fine. Case distrutte, famiglie smembrate, fughe improvvise. È questa la tragedia umana che attraversa le genti quando la Grande Guerra entra nelle case, devastando i legami familiari e imponendo un allontanamento forzato. Donne, vecchi e bambini, catapultati in prima linea, diventano protagonisti inermi e silenziosi di una fuga dalla violenza alla ricerca della pace. Senza una meta, senza cibo, senza vestiti.
Le profughe fuggono dal loro microcosmo, viaggiano in tutte le regioni d’Italia, soffrono, perdono i figli. Il mondo femminile acquisisce un potere decisionale mai avuto prima; l’angelo del focolare scompare per lasciare posto a una donna che ha nelle proprie mani il destino della famiglia. E i bambini, in un tempo che non comprende, né lascia spazio all’infanzia, diventano all’improvviso adulti. La guerra ridefinisce regole e valori, cancella l’identità della gente che abita a ridosso del conflitto.
La memoria di questo popolo, semplice e umile, dà finalmente respiro a una narrazione storica accantonata o chiusa nel cassetto per troppo tempo.

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Informations

Éditeur
Marcianum Press
Année
2022
ISBN
9788865128602

Una convivenza non sempre facile

immagine 1
Soldati nella zona di Arsiero, 1916. Foto archivio Sergio Zorzi

Arsiero, Asiago
Half a hundred more,
Little border villages,
Back before the war,
Monte Grappa, Monte Corno,
Twice a dozen such,
In the piping times of peace
Didn’t come to much.

(Ernest Hemingway, Parigi 1922)

La guerra incide profondamente sull’ambiente dei civili, non solo per il clima che genera, ma anche perchĂ© giustappone spazi umani prima impensabili. Questo Ăš quanto avviene nei paesi vicentini con l’arrivo delle truppe che si impongono occupando alberghi, scuole, centri parrocchiali e abitazioni private. Il lontano si fa vicino e nella nuova spazialitĂ , che si viene a creare, prende forma un’esistenza forzatamente ‘fianco a fianco’. I soldati sono giovani provenienti in gran parte dalle campagne e giungono in prossimitĂ  del fronte spesso impreparati e con poche risorse. Molti di loro si avvicinano ai civili ma il processo di accettazione da parte dei locali non Ăš cosĂŹ scontato, nĂ© cosĂŹ facile.
L’esistenza di tende, cucine da campo e armi deposita sui luoghi nuovi linguaggi di violenza, che strappano gli abitanti da un’armonia antica e li proietta in un ‘altrove’ di guerra e aggressivitĂ . E la necessitĂ  di difendersi da tutto ciĂČ genera confini:

A casa mia vignĂ©va i soldĂ  par magnare, noialtri a stĂ vino de qua, e lĂČri se mĂ©teva te ‘nantra stansa, de lĂ  [1] .
(A casa mia venivano i soldati per mangiare, noi stavamo di qua, e loro si mettevano in un’altra stanza, di là).

Nelle case il limite Ăš segnato: al di qua stanno i civili, al di lĂ  i soldati. Non si tratta di semplici definizioni spaziali, ma della necessitĂ  di marcare la diversitĂ  di due mondi, inconciliabili per alcuni aspetti e tuttavia costretti a rimanere vicini per la guerra. Continua la profuga:

Dove che i soldĂ  i magnava te sentivi altro che sbĂšchi, tuti i canfini de la stansa i ÊƒĂ© ‘ndĂ  spacĂ .
(Dove mangiavano i soldati sentivi solo urla, tutte le lampade a petrolio della stanza sono andate rotte).

I soldati «di là» urlano e spaccano le lampade; «di qua» i civili stanno fermi e ascoltano.
Prendiamo la testimonianza di un’altra donna: muta il paese, mutano le circostanze, ma medesima Ăš la marcatura del «di qua» e del «di là» tra civili e soldati:

Mi ricordo i soldati in paese
 Anche vicino a casa mia. Loro erano di là e noi eravamo di qua
 mia mamma diceva loro buongiorno e buonasera e poi ognuno a casa sua
 ancora meglio se era scuro [2] .

La promiscuitĂ  fuori dalla trincea imbarazza, sottolinea le differenze, evidenzia contaminazioni difficili da accettare. Si sopporta a fatica una convivenza imposta e si cerca di evitare ogni occasione di contatto, anche quando Ăš necessario perchĂ© fonte di guadagno. I soldati domandano di lavare le divise; le donne rispondono non sempre a tono. Una donna ricorda l’abitudine della madre di prendere la «roba» con la forca per poi portarla a lavare nelle acque dell’Astico. Dice a questo proposito:

I soldĂ  i passava davanti a casa mia par andare a l’AstĂšgo e ogni tanto i ghe domandava a me mama se la podĂšva lavarghe la rĂČba da vestire, tipo le camiʃe, ma me mama tante volte no la gavĂšva gnanca stĂČmego
 se a volte i ghe butava in tĂšl mucio anca le mudande coi peĂČci, me mama la ciapĂ va la roba co’ la forca e la portava a l’Astego a lavare [3] .
(I soldati passavano davanti a casa mia per andare all’Astico e ogni tanto le domandavano se poteva lavare loro la roba da vestire, come le camicie, ma mia mamma tante volte non aveva neanche stomaco
 se a volte le buttavano nel mucchio anche le mutande con i pidocchi, mia mamma prendeva la roba con la forca e la portava a lavare all’Astico).

Fare la lavandaia, un mestiere all’epoca molto diffuso, permette alle donne di mantenere la famiglia. La paga ù buona e le donne si recano alle fontane e lungo i fiumi per lavare la biancheria dei militari. Ma anche qui gli spazi rimangono definiti: le lavandaie sono da una parte, i soldati dall’altra, come ci racconta la foto.

immagine 2
Inglesi che portano i panni da lavare alle donne, Caltrano/ Calvene 1918. Fotografia archivio Sergio Zorzi

Al distanziamento si aggiunge la paura. Tra i ricordi femminili trapelano storie di soldati che di notte penetrano nelle case per prendere vino, cibo o, nella peggiore delle ipotesi, per usare violenza nei loro confronti.
Una profuga in un’intervista, fatta dopo molti anni, ricorda la paura provata nei confronti dei soldati allorquando una notte, nella catapecchia dove viveva da sfollata con la madre e le sorelle, sentì bussare:

Dopo qualche settimana, ad ogni modo, si spostarono a Santorso, in una catapecchia che fino a poco prima aveva ospitato dei muli: la porta la chiudevano con una specie di chiodo, suo padre lavorava per il genio, e il via vai dei soldati era continuo: qualche preoccupazione c’era, insomma
 Una sera sul tardi sentirono bussare una voce che chiamava: ‘Caterina! Caterina!’ Fossero state zitte almeno! Invece risposero che lì non abitava nessuna Caterina, che erano una famiglia di sfollati. Quel tizio insisteva. Sta di fatto che quella notte dovettero passarla in piedi, quasi puntellate contro la porta, e con l’accetta a portata di mano [4] .

Il conflitto Ăš ancora lontano dai centri abitati, ma si impone nei paesi per l’enorme numero di truppe e cavalli che continuano ad acquartierarsi. Le testimonianze parlano di chiese sequestrate per ammassare cavalli e carriaggi, di piazze e di campi occupati dalle truppe. Il soldato ha bisogno di scorte di carne fresca e acquista a prezzi irrisori le bestie nelle stalle. Requisisce legname, fieno, cibo. Richiede ulteriori approvvigionamenti ma i paesi sono allo stremo. Quando nel febbraio del 1916 il Distretto Militare di Vicenza chiede al sindaco la quantitĂ  di fieno presente a Breganze, lo stesso, esausto per le numerose richieste, risponde che «da piĂč mesi continua da parte del R. Esercito il prelevamento di fieno presso le famiglie».
La giurisdizione militare, che non negozia ma si impone, giunge a privare una famiglia della casa, che viene occupata dai soldati nel giro di poche ore senza spiegazioni di sorta. La testimone, all’epoca dei fatti una bambina, ci racconta la vicenda.
Tutto succede all’ora di cena quando nell’abitazione, dove vive una donna che ha appena partorito due gemelli, un tenente italiano, accompagnato dal sindaco, entra in cucina. Il soldato senza tanti preamboli ordina ai presenti, che stanno cenando, di mettere lenzuola pulite sui letti e di andarsene velocemente. Una donna si mette a piangere. I componenti della famiglia si trovano nel giro di qualche ora senza casa, buttati in mezzo alla strada, al buio. Sono le due e mezza di notte e la puerpera, costretta ad allontanarsi a piedi con i due gemelli, perde sangue lungo la strada:

So che ʃe vignĂč el sindaco, el ghe gĂ  dito a me mama che bisogna andare via. ÊƒĂš vignĂč anca el tenente, me ricordo ancora che a gĂšrimo drio a magnĂ re a sĂ©na, e ‘sto ultimo el ne ga dito –‘Avanti, mangiare in fretta e cambiare tutte le lenzuola che stasera qui dormiamo noi!’- Me mama la se gĂ  messo a piĂ ndare, no la voleva mia partire, la gavĂšva anca due gemĂši de me cugina che i gera nati in giornata
De drio a la me casa gli italiani i gavĂšva fato le trincee co’le gradiglie e par Cogolo le strade
 le gavĂšva le rĂšle parchĂ© i tedeschi no i vedĂšsse che passava i camion
Insoma ne gĂ  tocĂ  partire ale 2 e meʃa de nĂČte: me cugin el gĂ  ciapĂ  due piumini de quei che i meteva sĂČra i leti e dopo averli poÊƒĂ  dentro ala cariĂČla, el gĂ  messo dentro i dĂč gemĂši
me mama la me ga mĂšsso su due vestitini e sĂšmo partii cussì
 Tuti a pĂŹe, anca me cugina che la gavĂšva apĂšna partorĂŹo e la perdeva ancora el sangue par strada [5] .
(So che Ăš venuto il sindaco e ha detto a mia mamma che bisognava andare via. È venuto anche il tenente, mi ricordo ancora che stavamo cenando e questo ultimo ci ha detto: ‘Avanti, mangiare in fretta e cambiare tutte le lenzuola che stasera qui dormiamo noi!’ Mia mamma si Ăš messa a piangere, non voleva partire, aveva anche due gemelli di mia cugina che erano nati in giornata
 Dietro alla mia casa gli italiani avevano fatto le trincee con le armature di sostegno e per Cogollo le strade 
 avevano pareti intrecciate perchĂ© i tedeschi non vedessero che passavano i camion
Insomma ci Ăš toccato partire alle due e mezza di notte: mio cugino ha preso due piumini, di quelli che metteva sui letti, e dopo averli appoggiati nella carriola, ha messo i due gemelli
 La mamma mi ha messo su due vestitini e siamo partiti cosĂŹ 
 Tutti a piedi, anche mia cugina che aveva appena partorito e perdeva ancora sangue per strada
)

Il marito della puerpera mette i due neonati in una carriola e, lungo la strada, «rabià nero», non risparmia una battuta verso Cadorna e Salandra:

So che gavĂšmo incontrĂ  un ĂČmo ansiĂ n ʃĂČ par la strada e questo, vedendo che me cugin el portava ‘na cariĂČla con dentro i dĂč gemĂši, praticamente dĂč fagĂČti, el ga domandĂ : ‘parĂČn cossa gavĂŹo ne la cariĂČla?’, e me cugin el ghe ga risposto rabiĂ  nero: ‘Cadorna e Salandra!
(So che abbiamo incontrato un anziano lungo la strada e questo, vedendo che mio cugino portava una carriola con dentro due gemelli, praticamente due fagotti, ha chiesto: ‘Padrone, cosa avete nella carriola?’ e mio cugino gli ha risposto pieno di...

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