A un certo punto mi sono stufato di stare in collegio. Sono andato da padre Cavalli e glielâho detto: «Io non mi voglio piĂč fare prete, voglio tornare nel mondo».
«Il mondo?»
«Voglio andare a vedere come Ú fatto».
Lui non voleva crederci. Ha insistito in ogni modo: «Ma la tua mâera sembrata una vocazione profonda. Ripensiamoci, magari Ăš una crisi che ti passa. Chiediamo consiglio al Signore, aspettiamo».
Io niente. Mâero stufato e basta. E allora ha telefonato a mia madre â o meglio, ha telefonato alla signora Elide, che era lâunica ad avere il telefono al di qua della circonvallazione, e che poi ha chiamato mamma â proponendo anche a lei di aspettare. Ma quella â mamma, non la signora Elide â gli ha risposto peggio di me: «Se proprio deve tornare, ritorni e basta, non la stiamo a tirare alle lunghe. Sia lodato Gesucristo».
E cosĂŹ sono tornato.
Mi ha accompagnato fratel Pippo. A Roma prendemmo il pullman. Era rosso. Me lo ricordo ancora adesso. Noi stavamo seduti dietro, sui sedili di fondo. Nellâattesa che partisse, gli sportelli erano aperti ed entrava aria. Vento sul viso. Erano i primi di maggio e la giornata era piena di sole. Fratel Pippo si rigirava tra le mani la fascia nera dei vincenziani, mischiata alla corona del rosario. Lâautista, davanti, stava sbracato coi piedi sul volante, e mandava la radio a tutto volume. Câera Betty Curtis, che cantava a squarciagola: «Chari-ooot... La terra, / la terra / ci porterĂ fortuna. / La luna, / la luna / ci svelerĂ il domani». E io tornavo a casa felice e contento.
Ma chi evidentemente non era per niente felice e contento erano proprio quelli di casa. LĂŹ stavano giĂ stretti per conto loro e â bene o male â ognuno sâera ritagliato il cantuccio suo: in una camera Otello e Manrico, nellâaltra mio padre e mia madre con Violetta e MimĂŹ. Lui era fissato con la lirica: le prime le aveva chiamate una Norma e lâaltra Tosca. Ogni tanto tornavano anche loro â con mariti e figli â e allora si rimescolavano le carte: questi estranei in cameretta e Otello e Manrico in sala da pranzo, coi materassi per terra. Chi glielo aveva fatto fare a mio padre di mettere al mondo tutti sti figli? Sette: quattro femmine e tre maschi.
Mussolini e la Madonna glielo avevano fatto fare. Mussolini perchĂ© dava il premio a ogni figlio che nasceva e â anche se lui Ăš morto nel 1945 e il premio non lo hanno dato piĂč â mio padre sâera preso il vizio e ha continuato a fare figli fino al 1953, quando mamma ha definitivamente detto: «Basta». Ed era basta per davvero. Ogni sera una tragedia. Si portava sempre a letto qualche figlio; o meglio: sempre la piĂč piccola, MimĂŹ â lâunica che abbia mai sbaciucchiato e che di nome vero, perĂČ, faceva Turandot â e se la metteva in mezzo per impedire a lui di saltare dalla parte sua. Ă una storia che Ăš andata avanti anni, pure dopo arrivata la menopausa. Non il fatto di portarsi MimĂŹ a letto, ma quello di non far saltare mio padre: «Oramai mi sono stomacata. Non riesco proprio a capire quelle che ci trovano gusto». Lui invece pare ce lo trovasse.
Lâaltra ragione era la Madonna. La chiesa restava categorica: ogni tentativo di sfangarla era peccato mortale, figuriamoci se mio padre e mia madre erano disposti a perderci il paradiso. E cosĂŹ, ogni botta una tacca. Ecco perchĂ© eravamo tanti. Troppi.
Per fortuna câera stato padre Pio. Mia madre era andata a trovarlo subito dopo la guerra, nel â44. O meglio: la guerra câera ancora, ma su al Nord. Da noi era passata. E come era passata â nel giugno 1944 â lei era andata da padre Pio giĂč in Puglia. Con un pellegrinaggio di fortuna. Su un camion. Tutti sopra il pianale di legno. Una quarantina di persone ammucchiate. Tutti parenti. Sulle strade ancora piene di buche dei bombardamenti. Trecento e passa chilometri allâandata e altrettanti al ritorno. Sempre a sobbalzare su quel pianale di legno. Ed era incinta di sei mesi. Col pancione. Sobbalza qui, sobbalza lĂ , appena Ăš tornata a casa â dopo la benedizione di padre Pio â ha abortito di aborto naturale. Padre Pio ci ha fatto la grazia. Se no invece di sette eravamo otto.
Comunque sono tornato. Mâaspettavo abbracci e baci. Invece non mâha nemmeno salutato. Stava arrabbiata come una bestia. Ha sbrigato con due chiacchiere fratel Pippo e lo ha mandato via. Ha fatto finta di dirgli: «Vuol mangiare con noi?». Ma quello in quanto a mangiare aveva giĂ mangiato la foglia: «No grazie, non tengo fame. Sia lodato Gesucristo», mâha fatto una carezza sulla testa e via. Mi sono ritrovato lĂ . Con tutti che mi guardavano storto. «Cominciamo bene», ho pensato.
Mâha portato in camera. Ha aggiunto una rete: «Questo Ăš il letto tuo». Ha liberato un cassetto del comĂČ, riversandone la roba in un altro: «Svuotaci la valigia» e se ne Ăš andata. Ă arrivato Manrico: «Mâhai fregato il cassetto, eh?». E lĂŹ ho capito subito chi sarebbe stato la rovina mia.
Era il cocco di mamma ed erano anni che non lo vedevo. Non ci eravamo mai incrociati. Quando câera uno non câera lâaltro. A dieci anni â quando io ne avevo cinque â era partito lui per il seminario. Era stato il primo, aveva aperto la strada. Mio padre, a dire il vero, ci aveva provato anche con Otello, il piĂč grande, ma quello non aveva abboccato. Li aveva portati tutti e due al San Tarcisio, un collegio dei salesiani, e gli aveva fatto vedere il campo di calcio, quello di pallacanestro, il ping-pong. E gli aveva comprato un sacco di caramelle. Alla sera, alla fine, se nâera uscito: «Vi piace qua? Guardate come Ăš bello, ci volete restare?»
«Papà », aveva risposto Otello, «a me non mi piace per niente. Riportami subito a casa». Manrico invece sÏ: «Mi voglio fare prete», e ha inguaiato pure me.
Ă entrato in seminario. Ma non al San Tarcisio dai salesiani, che stava a Roma. Ă andato a Siena dai vincenziani, perchĂ© erano missionari e lui voleva andare a convertire gli africani. Ă stato lĂŹ cinque anni e a mio padre e mia madre chissĂ che gli pareva. Non era solo un modo per farlo studiare, desideravano proprio un figlio prete. Câera giĂ nostro cugino Pericle in seminario, ma a loro non bastava, era almeno un figlio che volevano «donare al Signore». Era la massima grazia che potessero chiedere al Padreterno, e a lui â a mio padre â brillavano gli occhi mentre lo diceva. Mia madre invece sembrava triste e sconsolata, e a me e Violetta â quando le chiedevamo «Mamma, a chi vuoi piĂč bene?», sperando ognuno di essere il prescelto â regolarmente ci gelava: «A Manrico che Ăš lontano, perchĂ© lâho donato al Signore». Quel cavolo di Signore. Che altro potevo fare?
Mio padre, almeno, tutte le volte si smarcava: «Se ti taglio un dito, quale farĂ piĂč male, lâindice o il medio?»
«Sarà uguale».
«Ecco» rifaceva lui, «i figli Ăš lo stesso. Non ce nâĂš uno che gli vuoi piĂč bene e a un altro meno. Sono tutti uguali». Ma nĂ© io nĂ© Violetta gli abbiamo mai creduto.
Lui poi si dava un sacco di arie â mio fratello â quando una volta lâanno veniva a casa in vacanza, quindici giorni dâestate, con la tonaca nera. Parlava mezzo senese e appena aprivo bocca mi diceva: «Sciocchino».
«Aspetta tu, quando mi faccio prete io» pensavo.
Andavano a trovarlo a Natale e Pasqua, una volta mio padre e lâaltra mia madre. Partivano la mattina presto della vigilia. Pigliavano la messa nella cappella di Stazione Termini e tornavano il giorno dopo. Una volta, a Natale, per farmici prendere confidenza hanno portato pure me, poichĂ© oramai era deciso che lâanno dopo sarei partito anchâio. Ma quando siamo arrivati a Siena dentro il seminario â e lui ci Ăš corso incontro â appena mâha visto sâĂš sbiancato: «PerchĂ© avete portato Accio? Io volevo Violetta».
CosĂŹ lâanno dopo sono partito. Dai vincenziani ovviamente, perchĂ© dovevo convertire gli infedeli. Volevo andare in Africa nel Congo, oppure a Molokai. PerĂČ le richieste erano parecchie, allâepoca, e Siena gli si era riempita. La prima e seconda media le avevano spostate a Zagarolo, vicino Roma, in una tenuta in aperta campagna â Colle Palazzolo si chiamava â e cosĂŹ mio padre adesso ne aveva due di doni del Signore, uno a Siena al quinto ginnasio e lâaltro a Zagarolo, e nessuno era piĂč contento di lui: «à un sacrificio che faccio volentieri», confidava ai suoi amici della Corale San Marco. Ma a me pare che il sacrificio lo facessimo tutto noi. Mi pare adesso, naturalmente, mica allora; allora mi pareva che non ci fosse scelta, dovevo diventare santo e basta.
La prima sera mâha preso lo sconforto, dentro quel letto. Ero un ragazzino di dieci anni, e mi sono rincantucciato sotto le coperte, coprendomi bene la testa per non sentire quelli che piangevano dentro gli altri letti, e che facevano venire voglia di piangere anche a me. Uno lo avevano portato dal paese con la macchina a nolo, perchĂ© a quei tempi non câerano mezzi, e quando la macchina ha scaricato i bagagli ed Ăš ripartita e hanno chiuso il cancello, lui ha tentato di corrergli dietro, sbatteva i pugni addosso alla lamiera del cancello, e piangeva e strillava mentre padre Cavalli lo teneva. Poloni invece lo aveva accompagnato il padre con la lambretta da Ascoli Piceno. Duecentocinquanta chilometri. Pure a me mâaveva portato mio padre. Con il treno. Mia madre non sâĂš manco scomodata: «MimĂŹ Ăš piccola, chi la tiene?». Padre Cavalli la tiene.
E mi sono messo a pregare, dentro a quel letto. Avemarie a rotta di collo e Padrenostri: «Dio fammi la grazia: faâ che domani mi sveglio e ho giĂ ventiquattrâanni e mâhanno appena fatto prete». La mattina invece mi sono ritrovato a punto e a capo: da solo in mezzo al seminario. Anzi non in mezzo, ma proprio allâincomincio. E ci sono rimasto deluso. Non tanto perchĂ© stessi lĂŹ, ma perchĂ© non mâaveva fatto la grazia. La sera prima ci avrei giurato, ero sicuro. NellâIsola misteriosa, quando Pencroff apre la Bibbia a caso e gli capitano i versetti «Chi cerca trova / Bussate e vi sarĂ aperto», il giorno dopo trovano subito la cassa con tutti gli attrezzi. «Bussate e vi sarĂ aperto» era per me veritĂ di Dio, e ho bussato tutta la notte anche in sogno. Sognavo mia madre e le dicevo: «Bussa anche tu, e bussa forte». Ma manco col bastone.
Il primo anno, perĂČ, bene o male ci sono stato. Certo ho fatto fatica ad abituarmi, ma anche gli altri stavano messi come me. Eravamo una cinquantina. A mangiare si mangiava bene: primo, secondo â che a casa non sapevo nemmeno cosa fosse â e certe volte il budino al cioccolato fatto dalle monache col latte che portava il mezzadro. Abbiamo imparato a servire messa, tutte le preghiere in latino, i canti â O via vita veritas, O salutaris hostia â e le regole della buona educazione, come mangiare a bocca chiusa senza fare schiocchi e rumori: «PerchĂ© mica sta bene» ammoniva padre Tosi, «che un missionario vada in giro a sbrodolarsi la tonaca come un prete di campagna».
Ogni giorno al pomeriggio â durante una pausa dallo studio â ci leggeva e spiegava per benino un brano del Galateo di monsignor Della Casa. Ma ci raccontava anche altre storie, soprattutto di morti apparenti. Come quella di uno al paese suo, quandâera giovane, che gli era preso un colpo apoplettico subito dopo la sfilata del sabato fascista. Stava allâosteria con la divisa da gerarca, quando gli era venuto il colpo, e lo avevano seppellito cosĂŹ, con tutta la divisa. Dopo qualche anno, non so perchĂ©, lo avevano dovuto disseppellire; forse per spostarlo di tomba. Ma appena aperta la cassa lo avevano trovato con la baionetta infilzata nello stomaco: «Devâessersi svegliato» spiegava padre Tosi, «e sâĂš ritrovato lĂ . Si deve essere disperato, ha preso la baionetta e sâĂš suicidato. Adesso sta allâinferno». Oppure di quellâaltro che era una specie di santo. Morto da giovane, ma in odore appunto di santitĂ . Avevano cominciato il processo di beatificazione e stava andando tutto bene: testimonianze, opere pie e qualche miracolo. Per la consacrazione mancava solo lâesame della salma. Ma quando lo hanno scoperchiato stava con gli occhi aperti e con le mani sbarrate sul coperchio della cassa, a tentare dâaprirla e riuscire a scappar fuori. Lo hanno richiuso subito e non se nâĂš parlato piĂč: «Deve essersi svegliato e poi Ăš morto lĂŹ. Ma chissĂ cosa deve avere pensato in quei momenti. Certo deve avere disperato di Dio. E non lo hanno piĂč fatto santo». Queste erano le storie che ci raccontava. Era fissato, e faceva fissare anche noi.
Comunque il primo anno Ăš andata. Latino ce lo insegnava padre Cavalli e mâĂš subito piaciuto; il latino, non padre Cavalli. Lui era il Superiore, quello che comandava tutto. Sâera fatto prete a trentasei anni. Prima era avvocato e pure fidanzato. A un certo punto hanno deciso assieme, lui e lei: uno prete e lâaltra suora. E si scrivevano ancora. Durante la guerra era stato tenente in Jugoslavia e certe sere, a ricreazione, ci facevamo raccontare tutta la storia.
Dopo lâ8 settembre lo avevano preso i tedeschi e messo in campo di concentramento a Wyala Pollawska, in Polonia. Una fame nera. Una volta â in previsione del Natale â sâerano incaponiti a mettere da parte una patata al giorno e un ricciolo di burro a testa, a partire da novembre, per fare un bel pranzo di Natale. E ci si sono fatti un purĂš gigantesco, si sono spanzati. Ma lo stomaco non era piĂč abituato e sono stati male. Il giorno dopo i tedeschi li hanno riempiti di calci, perchĂ© nessuno era in grado di andare a lavorare.
«In guerra, Padre, ha ammazzato qualcuno?» gli abbiamo chiesto una volta.
«Spero di no» ha risposto, ma ci ha messo un poâ di tempo, non Ăš stato veloce come al solito. «Una volta, dietro un fosso, ho dovuto sparare» ha aggiunto, «perchĂ© dallâaltra parte câerano i partigiani e io comandavo i miei uomini. Lâho dovuto fare. Ma prego Dio di non aver colpito nessuno».
«E la vocazione?»
«La vocazione lâho avuta in Jugoslavia, in una chiesetta su in montagna. Ero demoralizzato. ChissĂ se torno a casa, mi dicevo. Ho visto la chiesina, poco piĂč dâuna capanna. Sono entrato. Non câera nessuno. Mi sono messo a pregare. MâĂš venuta una pace che ho detto: se torno a casa mi faccio prete».
Poi a Wyala Pollawska sono arrivati i repubblichini, hanno radunato i prigionieri italiani e annunciato: «Chi vuole riprendere a combattere per lâItalia e per il Duce, a fianco allâalleato germanico, faccia un passo avanti». E lui lo ha fatto. Lo hanno mandato in un campo di addestramento in Germania â divisione Monterosa, credo â rimesso la divisa e dati i gradi. Ma prima di ripartire per lâItalia gli hanno fatto fare il giuramento. «Io perĂČ» diceva padre Cavalli, «un giuramento lo avevo giĂ fatto al re e non me la sentivo, con tutto il bene che gli volevo, di farne un altro pure a Mussolini». CosĂŹ Ăš rimasto zitto, ha alzato solo il braccio ma non ha fiatat...