Dare un nome alla salute mentale.
Ă il momento di parlare delle diagnosi che abitano i territori della psichiatria e della psicologia. Accanto a quelle piĂș «note», per esempio di disturbo ansioso, depressivo o schizofrenico, ne troviamo altre che si rivolgono direttamente al nostro carattere, che puĂČ essere diagnosticato come narcisistico, isterico, paranoide, ossessivo, e cosĂ via. Dico subito che, in molti psicoanalisti e psichiatri, la parola diagnosi, a lungo considerata sinonimo di semplificazione, oggettivazione e stigma, suscita ancora una certa diffidenza. Ho sentito piĂș di un collega dire: «io non faccio diagnosi». Ma so che «una» diagnosi la fa anche chi dice di non farla: anzi, a volte la fa senza saperlo e, questo sĂ, rischia di trasformarla in un oggetto pericolosamente misterioso. Come ho giĂ detto, considero la diagnosi un momento di conoscenza e incontro e mi sembra impossibile avere un colloquio con un paziente senza farsi unâidea, anche comparativa, ovviamente modificabile, della sua personalitĂ , del suo funzionamento mentale e delle sue relazioni. NĂ© banalizzante nĂ© stigmatizzante, la diagnosi che a noi interessa Ăš al servizio del paziente e infatti ci aiuta a scegliere con cognizione di causa la terapia piĂș indicata. Rispetto al passato, negli ultimi decenni si Ăš sviluppata una diagnostica piĂș sofisticata, piĂș sensibile ai contesti (una diagnosi fatta in pronto soccorso ha caratteristiche e scopi diversi da una diagnosi fatta in un ciclo di colloqui di consultazione) e piĂș condivisibile, per concetti e linguaggio, tra colleghi di diversa formazione.
Restituire la conoscenza.
CâĂš un momento del colloquio psicologico, si chiama restituzione, in cui il clinico deve appunto restituire al paziente ciĂČ che ha capito di lui in termini diagnostici. Soprattutto deve decidere come farlo. Riguarda i risultati dei test psicologici, ma anche piĂș in generale la diagnosi. Ă un momento in cui, per citare Shakespeare, il clinico deve fare come il poeta: menzionare le «cose sconosciute», intuirne «la forma definitiva» e dare «allâaereo nulla un luogo in cui abitare e un nome».
Nellâautobiografia, Sacks racconta lâinizio della sua analisi. Era il 1966, e lui era a pezzi: traumatizzato dal ricordo dei bombardamenti e delle punizioni corporali ricevute in collegio; angosciato dalla schizofrenia del fratello; ancora sanguinante per le parole pronunciate da sua madre quando le confidĂČ la sua omosessualitĂ («Sei abominevole. Vorrei che non fossi mai nato»); bloccato nella vita affettiva e sessuale; ipocondriaco, fobico e dipendente, oltre che dalle anfetamine, anche dal body building. Lâanalisi, racconta, iniziĂČ cosĂ:
Pensando a Michael, il mio fratello schizofrenico, chiesi a Shengold se anchâio lo fossi. «No», rispose lui. Allora, domandai, ero «solo nevrotico?» «No», rispose. Lasciai cadere lĂ la cosa, la lasciammo cadere entrambi, e lĂ Ăš rimasta per gli ultimi 49 anni.
(Tanto durĂČ lâanalisi di Sacks, unâanalisi a vita!) Nonostante fosse affascinato dai nomi delle malattie, o forse proprio per questo, non era unâetichetta diagnostica quello di cui Sacks aveva bisogno. CiĂČ di cui aveva bisogno era essere accolto per quel che era, fuori dal rifugio delle sue tavole periodiche e lontano dalle diagnosi dolorose che avevano segnato la sua vita: «schizofrenia», «omosessualità », «tossicomania». Questo ovviamente non impedĂ a Shengold, il suo analista, di fare, tra sĂ© e sĂ©, una diagnosi (che, mi sembra di capire, non lo collocava nellâarea psicotica, e neppure in quella nevrotica, ma nella grande «terra di mezzo»). Per un altro paziente, invece, sapere che anche altri condividono lo stesso problema e che questo ha un nome puĂČ essere importante. Lo racconta la scrittrice Simona Vinci in Parla, mia paura:
Lo psichiatra mi dedicĂČ unâora del suo tempo. Parlammo dellâanalisi che stavo facendo, degli attacchi dâansia, della paura. [...] Aveva centrato il punto: [...] la mia era una depressione ansiosa reattiva [...] avevo bisogno di definirmi, di appiccicarmi unâetichetta, di sapere chi ero diventata.
Non esiste un regolamento rigido per la restituzione, a lungo considerata dagli esperti unâoperazione «rischiosa». Nella relazione clinica, la maggior parte delle scelte si costruisce in base a chi abbiamo di fronte, ma credo che la condivisione dei risultati di una valutazione diagnostica con il diretto interessato sia utile e importante. Dai tempi in cui lâAmerican Psychological Association, era il 1971, si domandava «Condividere i risultati con il paziente: irresponsabilitĂ professionale o coinvolgimento efficace?» sono cambiate molte cose. Oggi, con i nostri pazienti, compatibilmente con le loro capacitĂ di funzionamento mentale e relazionale, tendiamo a costruire unâalleanza, prima diagnostica e poi terapeutica, basata sul coinvolgimento, la condivisione e, quando possibile, la responsabilitĂ . Feedback e disclosure, riscontro e rivelazione, sono termini entrati da tempo nella nostra pratica clinica. Lo stesso vale per consenso informato, o meglio, volontario. FinchĂ© le condizioni della coscienza del paziente lo consentono, quindi in assenza di deliri o allucinazioni, la valutazione diagnostica va sempre piĂș nella direzione del collaborative assessment, che inevitabilmente Ăš anche un therapeutic assessment. Ovviamente non si tratta di trasmettere informazioni con linguaggio tecnico-gergale (trovo molto divertente la vignetta in fig. 3), ma di condividere, usando un linguaggio appropriato ma accessibile, le caratteristiche emerse dalla valutazione che riteniamo utili al paziente per comprendere il suo modo di essere e funzionare.
3. «Ma, esattamente, che cosa non ha capito del mio discorso sulla sua propensione alla regressione maligna e alla reintroiezione patogena come strategie difensive contro lo scompenso psicotico?»
Il clinico, diceva negli anni Quaranta lo psichiatra Harry Stack Sullivan, deve contemporaneamente osservare e partecipare. Oggi la ricerca ha iniziato a studiare anche lâinfluenza delle sue caratteristiche personali, prima mai indagate, nel processo di diagnosi e cura. Per decenni abbiamo giustamente studiato la personalitĂ del paziente, il suo modo di instaurare legami, il suo transfert. Poi lâattenzione si Ăš rivolta anche allo studio della relazione terapeutica, al modo in cui si costruisce lâalleanza: successi e fallimenti, rotture e riparazioni. Da qualche anno abbiamo deciso di studiare anche il terapeuta: lâaspetto, lâetĂ , il temperamento, la personalitĂ , lo stile di attaccamento, i meccanismi di difesa, la cornice di riferimento teorico, gli anni di esperienza, il modo di condurre il colloquio, le tecniche preferite. Possiamo forse pensare che le variabili del terapeuta non influenzino il processo diagnostico e terapeutico?
Credo sia possibile tratteggiare alcune indicazioni di buon senso da tenere presenti nel colloquio di restituzione: sintonizzarsi sulla cultura e il vocabolario del paziente; riepilogare le sue caratteristiche di personalitĂ per come sono emerse nei colloqui (non solo le negative, anche le positive!); evitare termini come «anormale», «deviante», «patologico»; incoraggiare i commenti e, alla fine, chiedere se Ăš tutto chiaro e ci sono osservazioni o richieste. La domanda di Ivan IlâiÄ Ăš la stessa che il nostro paziente puĂČ formulare in tanti modi, anche tacendo: «che cosa ho?», «che idea si Ăš fatto di me?», «guarirĂČ?», «cosa puĂČ fare per me?» Non Ăš eludibile. Per due motivi: uno deontologico, lâaltro terapeutico. PerchĂ©, nelle sue mille versioni, compresa quella che si svolge nella testa del clinico («che cosa ha?», «che idea mi sono fatto di lui?», «guarirĂ ?»), in fondo Ăš lâinizio della terapia.
Parole greche.
Lo abbiamo giĂ detto e non possiamo che ripeterlo, perchĂ© tutto sta nella giusta comprensione etimologica della parola «diagnosi». Nellâintreccio delle sue radici troviamo il conoscere, il riconoscere, il capire⊠«attraverso», «per mezzo di» (ÎŽÎčᜱ). Attraverso cosa? Per esempio i sintomi (soggettivi e riferiti dal paziente) e i segni (oggettivi e riscontrati dal medico), grazie ai quali si puĂČ risalire alle cause e si possono fare ipotesi, confronti, previsioni, in vista della terapia. Ma non sempre il sintomo parla attraverso il corpo; la conoscenza del clinico deve rivolgersi ai pensieri, ai sentimenti e agli affetti, ai comportamenti. Spesso sono indecifrabili, a volte silenziosi che proprio non li sentiamo, altre volte sono rumorosi, troppo, fino a coprire la possibilitĂ di ascoltarli. Allora il prefisso «attraverso» si riferisce alla voce dellâaltro, che sia silenzio, dialogo o grido. Ecco dunque il significato ultimo della parola diagnosi: conoscenza e ascolto nellâincontro.
CâĂš unâaltra parola greca che ci aiuta a capire cosa câĂš dietro una diagnosi: Ï°Î»ÎŻÎœÎ· (letto). Il «clinico» Ăš chi visita lâammalato al letto, va verso di lui. Ă la diagnosi che deve adattarsi al paziente, non il paziente alla diagnosi. Se dunque la clinica Ăš unâinclinazione, la posizione del clinico non sarĂ nĂ© verticale nĂ© orizzontale. Come osserva la filosofa Adriana Cavarero, la soggettivitĂ potrebbe essere (ri)pensata anche a partire dalla postura: non lâuomo eretto, dunque, ma quello rivolto allâaltro, capace di portare la cura. La parola «terapia», in fondo, deriva da ÏÏ”ÏαÏÏ”ÏÏ-ÏÏ”ÏαÏÏ”ÏÏ”ÎčÎœ: «assistere», «servire», «occuparsi di», ma anche «onorare» e «custodire il tempio».
La conoscenza diagnostica deve essere idiografica o nomotetica? Con il primo termine intendiamo un tipo di conoscenza che si concentra sulle peculiaritĂ del singolo (ÎŻÎŽÎčÎżÏ), sulla sua specificitĂ e irripetibilitĂ ; con il secondo intendiamo una conoscenza che cerca di stabilire leggi generali (ÎœÏÎŒÎżÏ), somiglianze che accomunano il funzionamento di individui diversi (magari per accomunarli nella cura piĂș efficace). La conoscenza idiografica appartiene al clinico e riguarda il singolo paziente; quella nomotetica Ăš piĂș tipica del ricercatore e riguarda categorie di pazienti che presentano caratteristiche comuni. Difficile essere clinici-ricercatori, o ricercatori-clinici: anche per questo il diagnosta Ăš in tensione, perchĂ© deve ospitare entrambe le parti. Un mio amico che studia la personalitĂ sostiene che i ricercatori devono accettare il fatto che, come i fiocchi di neve, i pazienti non sono mai perfettamente uguali; e che i clinici devono rendersi conto che, cosĂ come possiamo distinguere il nevischio da una bufera di neve, deve essere possibile ricondurre i pazienti alle loro specifiche categorie. WisĆawa Szymoborska lo dice con un verso indimenticabile: siamo «diversi come due gocce dâacqua».
La visione clinica migliore Ăš contemporaneamente idiografica e nomotetica. Saper tradurre leggi generali in declinazioni particolari, elaborare ipotesi generali a partire da casi particolari: ecco il sapere diagnostico. Bypassare il polo idiografico significa pensare che una persona puĂČ essere studiata come fosse un oggetto inanimato; bypassare quello nomotetico significa privare lâatto diagnostico del suo valore comunicativo e delle sue fondamenta scientifiche. Solo nel dosaggio delle due componenti riusciamo a dare, in base alle necessitĂ e ai contesti, senso e sensibilitĂ alla diagnosi.
Le tavole della discordia.
Se la medicina Ăš una scienza inesatta, la psichiatria lo Ăš ancora di piĂș. Le cause dei disturbi mentali e la possibilitĂ di prevederne esordio e decorso, sono poco conosciute. Quando si tratta di fare ipotesi eziologiche, la formula bio-psico-sociale va per la maggiore: un poâ di genetica, un poâ di anatomia e di neurochimica; un poâ di relazioni familiari e di attaccamento, un poâ di contesto socioeconomico. SarĂ per sentirsi piĂș forte di fronte alle molte incertezze, che la diagnostica psichiatrica si Ăš sempre data un gran da fare. E anche per questo mi piace.
Per alcuni una Bibbia, per altri il risultato normativo del furore nosografico degli psichiatri americani, il DSM, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, nato nel 1952 e oggi alla sua quinta edizione, Ăš un controverso brand della contemporaneitĂ . Spiegato in poche parole, si tratta dellâelenco delle malattie mentali (e della loro prevalenza, da cui «statistico») redatto dallâAmerican Psychiatric Association (APA). Col tempo Ăš diventato sempre piĂș ateorico e descrittivo, cioĂš non ha teorie di riferimento e non vuole spiegare lâorigine dei disturbi mentali, ma segue una filosofia di tipo biomedico, cioĂš presenta i disturbi dal punto di vista dei sintomi osservabili e rilevabili (si potrebbe obiettare che anche questa Ăš una teoria). Ă categoriale (un poâ meno lâultima edizione), cioĂš stabilisce un numero preciso di criteri che consentono allo psichiatra di decidere se una determinata condizione Ăš diagnosticabile, e quindi patologica, oppure non lo Ăš (al contrario si definisce dimensionale un approccio basato sullâintensitĂ del sintomo e non sulla sua presenza/assenza). Per molti anni (oggi non piĂș) ha proposto un approccio multiassiale, cioĂš ha orientato lo sguardo psichiatrico sul paziente in modo stratificato, mettendo in luce, sequenzialmente, le grandi sindromi, i disturbi della personalitĂ , le condizioni mediche associate, gli eventi di vita stressanti. Cerca di evitare, ma spesso non ci riesce, la comorbilitĂ (cioĂš la presenza simultanea di piĂș diagnosi nello stesso paziente), partendo dal presupposto che, se piĂș diagnosi si sovrappongono, averle separate non era corretto, e quindi non sono valide; ma un clinico esperto sa che, quando si scompongono sindromi complesse nelle loro parti, come pretende di fare il DSM, la comorbilitĂ Ăš un esito inevitabile.
Il primo DSM aveva 130 pagine e contemplava 106 disturbi. Il quinto, uscito del 2013, ha circa mille pagine e quasi 300 disturbi. Se includiamo anche le cosiddette revisioni, in sessantâanni il DSM ha avuto sette edizioni. Un dato che al tempo stesso significa iperdiagnosticismo, ma anche aggiornamenti continui su etĂ dâesordio, decorso, fattori predisponenti, prevalenza, proporzione tra i sessi, pattern familiari, diagnosi differenziali e cosĂ via.
Ogni 10-15 anni lâastronave DSM atterra sul pianeta degli psichiatri e dei loro pazienti, cioĂš tra noi. Ogni volta, ma lâultima piĂș delle altre, lâatterraggio Ăš accompagnato da polemiche, petizioni, attese e boicottaggi. Anche da notevoli conflitti interni allâAPA (il caso piĂș recente riguarda la sezione dei disturbi di personalitĂ che, nellâultima edizione, doveva essere rivoluzionata e invece Ăš rimasta la stessa, salvo lâaggiunta di un complicato modello alternativo in appendice al Manuale).
Non Ăš difficile immaginare la varietĂ di diagnosi che i vari DSM, nel corso del tempo, hanno incluso ed escluso. Edizioni che hanno rispecchiato le scoperte, le tendenze o le «mode» scientifiche del momento (per esempio il disturbo di panico o quello da deficit di attenzione/iperattivitĂ ), e le loro inevitabili implicazioni economiche e culturali. Pagine che per alcuni portano ordine e razionalitĂ nel mondo delle diagnosi (e delle terapie, altrimenti impensabili), mentre per altri portano superficialitĂ , reificazione, oggettivazioni autoritarie e medicalizzazioni inutili. Uno stimato psichiatra inglese, Peter Tyrer, ha causticamente sciolto lâacronimo DSM in Diagnosis as a Source of Money o a scelta Diagnosis for Simple Minds. Ed Ăš proprio il padre della quarta edizione del DSM, Allen Frances, uno dei critici piĂș aspri della quinta. I titoli dei suoi libri sono eloquenti: La diagnosi in psichiatria. Ripensare il DSM-5 e Non curare chi Ăš normale (il titoli originali sono ancora piĂș eloquenti: li trovate in bibliografia). Sia chiaro, Frances critica...