Il conto dell'Ultima Cena
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Il conto dell'Ultima Cena

Il cibo, lo spirito e l'umorismo ebraico

Moni Ovadia, Gianni Di Santo

  1. 152 pages
  2. Italian
  3. ePUB (adapté aux mobiles)
  4. Disponible sur iOS et Android
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Il conto dell'Ultima Cena

Il cibo, lo spirito e l'umorismo ebraico

Moni Ovadia, Gianni Di Santo

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La tradizione ebraica della kasherut indica i cibi che si possono consumare perché conformi alle regole della Torah. Ma oltre a questo, il cibo ebraico ha prodotto un'enorme mole di storielle, divieti, ricette e prescrizioni che Ovadia ripercorre con la consueta miscela di umorismo e santità: cullandoci tra pasti e digiuni, tra falafel, molokheya, hommus e altre leccornie, tra antiche osterie e contaminazioni culinarie, e una musica che accompagna l'ospite a tavola, con l'ironia tipica dell'ebreo errante.
Per un viaggio che guarda al cielo con il gusto della terra. Un viaggio dalla manna del deserto, il cosiddetto «pane degli angeli», fino a Pesakh, la Pasqua, dove un GesĂș ebreo mangia agnello, pane azzimo, erbe amare e dessert.

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Informations

Éditeur
EINAUDI
Année
2013
ISBN
9788858411278

Il conto dell’Ultima Cena

Il conto dell’Ultima Cena

I rapporti fra ebrei e cristiani nel corso di oltre venti secoli sono stati alterni, complessi, travagliati e spesso, fino a tempi recenti, drammatici.
Il mondo cristiano ha a lungo guardato agli ebrei come ai peccatori che hanno crocifisso GesĂș, che hanno continuato a perseverare nell’errore non accettando la grande veritĂ  salvifica universale, la redenzione della croce, preferendole il tetragono e vendicativo D-o veterotestamentario ovvero – sia detto per inciso – il Padre celeste di GesĂș e di tutti gli uomini.
Il disprezzo con cui i cristiani hanno trattato gli ebrei talora si Ăš espresso con umilianti imposizioni di omaggio e di sottomissione a cui gli ebrei stessi erano obbligati a soggiacere.
Il grande poeta Giuseppe Gioachino Belli ricorda la pratica di questi tristi rituali nel suo sonetto L’omaccio1 de l’ebbrei.
Ve vojjo dĂ­ una bbuggera, ve vojjo.
Er giorno a Rroma ch’entra carnovale
li ggiudii vanno in d’una delle sale
de li Conzervatori2 a Ccampidojjo;
e ppresentato er palio prencipale
pe rriscattasse da un antico imbrojjo,
er Cacamme3 j’ordissce un bell’orzojjo4
de chiacchiere tramate de morale.
Sta moral’ù cch’er ghetto sano sano
giura ubbidienza a le Legge e mmanate5
der Zenato e dder popolo romano.
De cuelle tre pperucche inciprĂŻate
er peruccone allora ch’ù ppiĂș anziano
arza una scianca e jj’arisponne: «Andate».
Ma gli incontri fra la Chiesa cattolica e le delegazioni delle comunità ebraiche non erano improntati solo ai rituali di sottomissione o di umiliazione. Talora si trattava di relazioni «diplomatiche» che intendevano manifestare civilmente un reciproco fastidio.
Una di queste manifestazioni, che avveniva ogniqualvolta si insediasse sul soglio pontificio di Roma un nuovo papa, era di natura segreta e solo gli adepti di una piccola conventicola ne hanno sentito parlare. Io sono tra costoro.
Dunque, dopo alcune settimane che il pontefice romano si era insediato, una delegazione della comunità ebraica di Roma guidata dal rabbino capo si recava a San Pietro portando un’antichissima pergamena sigillata. Il papa, impassibile, riceveva la delegazione, il rabbino capo gli porgeva la pergamena con un sopracciglio alzato e il piglio interrogativo, e il sommo pontefice faceva spallucce, alzando sdegnosamente la mano a significare che non ci pensava nemmeno di accettare quel vetusto documento. A quel punto la delegazione ebraica lasciava il Vaticano.
A ogni nuovo papa la scena si Ăš ripetuta uguale per secoli. Fin quando Ăš asceso al soglio di Pietro un porporato di indole assai curiosa – non ne faremo il nome per rispetto della segretezza – il quale ha attivato la propria diplomazia per concordare con l’allora rabbino capo di Roma un seguito, coperto dalla piĂș assoluta riservatezza, da porre in atto al termine del solito rituale. CosĂ­ il segretario di Stato del Vaticano e il presidente della comunitĂ  ebraica si sono accordati in gran segreto perchĂ© a cerimonia conclusa il rabbino capo rientrasse da una porticina nascosta, al fine di appartarsi col papa in uno studiolo e quindi procedere a dissigillare la pergamena senza danneggiare il sigillo. Con lo scopo di conoscere, finalmente, il segretissimo contenuto dell’antico scritto.
Per compiere con il vapore la delicata operazione ci vollero parecchi minuti
 poi, con grande trepidazione, srotolarono la preziosa pergamena e, con la voce rotta dall’emozione, cominciarono a leggere l’intestazione: «Conto dell’Ultima Cena».
Non sono in grado di informare il lettore sull’ammontare dell’importo richiesto per quel celebre pasto a GesĂș e agli apostoli. Essi, per risapute ragioni, non riuscirono a onorare il debito. PerĂČ sono in grado di riferire alcune cose riguardo a quella cena: GesĂș e gli apostoli scelsero di sicuro una locanda nota per il suo rispetto delle leggi della Torah, altrimenti come spiegare i versetti di Matteo:
Amen, sĂ­ vi dico, finchĂ© i cieli e la terra non saranno passati, non passerĂ  una sola yod [iota], non un solo segno della Torah che tutto non si compia. Anche l’uomo che distrugge una sola delle sue mitsvĂČt [precetti], anche la piĂș piccola, e ne fa insegnamento agli uomini sarĂ  chiamato minore nel Regno dei Cieli, ma chiunque la mette in pratica e la insegna, colui sarĂ  chiamato grande nel Regno dei Cieli6.
L’oste aveva di certo ripulito minuziosamente il locale da ogni minima traccia di cibo lievitato e di bevanda o condimenti fermentati, cosĂ­ come prescrivono i precetti del Pesakh. Quindi tutti avranno cominciato il rito con le benedizioni, a partire dal qaddesh, la consacrazione della festa in cui si recita il kiddush (la benedizione del vino), poi avranno bevuto il primo bicchiere di vino – un vino intenso e ricco dei profumi del sole e della santitĂ , anche se enologicamente non «corretto» – e si saranno seduti comodamente e persino stravaccati (perchĂ© l’uomo liberato dalla schiavitĂș non ha piĂș costrizioni). Avranno fatto l’urkhas, il lavaggio delle mani, senza recitare la benedizione, ed eseguito il carpas, l’atto di intingere del sedano, del prezzemolo o un pezzo di patata nell’aceto o nell’acqua salata recitando la preghiera: «Benedetto tu, o Signore, D-o nostro, Re del mondo, creatore del frutto della terra».
A quel punto GesĂș avrĂ  compiuto la cerimonia del jahaz, preso dal piatto rituale tre azzime sovrapposte7 ed estratto l’azzima di mezzo, poi l’avrĂ  spezzata chiedendo che una delle due metĂ  fosse nascosta. Fatto questo, avrĂ  riempito il secondo bicchiere di vino e dato principio alla lettura della haggadah del Pesakh.
La haggadah Ăš il racconto della schiavitĂș d’Egitto, dell’oppressione degli ebrei e della loro liberazione a opera di prodigi e miracoli. GesĂș avrĂ  partecipato alla lettura, prestato attenzione alle quattro domande sul senso intimo della festa poste dal piĂș piccolo partecipante al seder8, avrĂ  ascoltato e ripetuto l’elenco delle piaghe mandate per domare la crudele caparbietĂ  tirannica del faraone. GesĂș avrĂ  meditato con tremore sul passaggio in cui il Santo Benedetto si assume la piena e diretta responsabilitĂ  dell’uccisione dei primogeniti egizi, di uomini e animali, ne avrĂ  di sicuro capito gli abissi e il significato intrinseco, avrĂ  cantato i magnifici salmi e le commoventi melodie paraliturgiche.
ChissĂ  che voce aveva, GesĂș. Era intonato o stonato come il patriarca Abramo? Faccio un’ipotesi: GesĂș forse non aveva una voce bella, ma di certo un’espressivitĂ  perturbante e gioiosa come quella di Louis Armstrong. Nel momento in cui, con ogni probabilitĂ , intonĂČ Betzet Israel (all’uscita dall’Egitto), il salmo dalla melodia piĂș intensa, gli apostoli forse ammutolirono e ascoltarono a bocca aperta.
Nel corso del racconto tutti avranno bevuto gli altri due bicchieri di vino prescritti, tranne gli astemi, che avranno bevuto del succo d’uva. Poi il pasto sarĂ  cominciato dopo il rohzah, il secondo lavaggio delle mani seguito dalle parole: «Benedetto tu sia, o Signore nostro D-o, Re del mondo, colui che ci ha comandato la lavanda», e dalla sequenza dei «bocconi rituali» accompagnati dalle relative benedizioni: il motzĂ­ matzĂ , quando il capofamiglia solleva dal piatto rituale la prima matzĂ  e la matzĂ  di mezzo spezzata. Sulla prima azzima recita: «Benedetto tu sia, nostro Signore, Re del mondo, che fai uscire il pane dalla terra», sulla seconda invece pronuncia: «Benedetto tu sia, o Signore nostro D-o, Re del mondo, colui che ci ha santificato e ci ha comandato di mangiare azzima». Poi distribuisce un pezzetto di ciascuna delle due azzime a ogni convitato, che lo intinge nel sale e ripete la benedizione.
La matzĂ  Ăš il pane della libertĂ , dell’identitĂ  universalista del monoteismo, non lievitato e non salato, perchĂ© non ci fu tempo di aspettare la lievitazione. GesĂș ne avrĂ  gustato il delizioso sapore di cartone al forno. SĂ­, delizioso, perchĂ© Ăš per antonomasia il cibo dell’uscita dalla schiavitĂș, e come lui noi lo apprezziamo durante la festa del Pesakh, perchĂ© dobbiamo conquistare la liberazione anno dopo anno a ogni generazione.
Dopo il motzĂ­ matzĂ  si mangia il maror, l’erba amara, per ricordare l’amarezza della schiavitĂș e insieme per esprimere lutto per la morte degli Egizi annegati nelle acque di Yam Suf, il Mare dei Giunchi. Gli ebrei non attraversarono mai il Mar Rosso, se non nei marchiani errori di pessime traduzioni. Le acque di Yam Suf si richiusero sopra gli Egizi dopo il passaggio degli ebrei, provocandone la morte. Poi si intinge del prezzemolo o del sedano nel kharoset, uno straordinario impasto dolce e denso come un fango fatto con fichi, datteri, mandorle, essenza di arancio e vino liquoroso, per ricordare il fango con cui gli ebrei erano costretti a impastare i mattoni, e si dice: «Benedetto tu sia, o Signore D-o nostro, Re del mondo, colui che ci ha santificato con i suoi precetti e ci ha comandato di mangiare l’erba amara». E da ultimo, in ricordo del santuario, dopo averlo distribuito ai commensali si mangia il korekh, preparato con un pezzo della terza azzima avvolta in erba amara e intinta nel kharoset, e si recita: «In memoria del santuario, come faceva Hillel il vecchio che avvolgeva [azzima, erba amara e kharoset] per osservare letteralmente la prescrizione del testo [Esodo, 12, 8]. Con azzime ed erbe amare lo mangeranno [l’agnello pasquale]».
Alla fine di questi passaggi ha inizio la cena vera e propria. GesĂș quella sera avrĂ  mangiato delle uova, simbolo dell’integritĂ  della vita; inevitabilmente l’agnello o il capretto, in ricordo della terribile notte in cui furono uccisi i primogeniti egizi mentre le case ebraiche venivano «saltate», perchĂ© come ordinato da MosĂš gli ebrei avevano segnato gli stipiti delle porte con sangue di agnello. Saranno stati messi a tavola cibi a base di legumi e verdure, piatti come il hommus, la tahina, il ful medammes, tutti avranno bevuto vino in abbondanza e accompagnato le pietanze con le azzime, avranno forse assaporato, al modo di noi ebrei sefarditi, i burmuelos, pezzi di azzima immersi nell’acqua, strizzati, poi passati nell’uovo sbattuto, frit...

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