Dopo l'ultimo testimone
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Dopo l'ultimo testimone

David Bidussa

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Dopo l'ultimo testimone

David Bidussa

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Per molto tempo, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, lo sterminio ebraico non è stato raccontato. Al massimo trovava posto nelle storie di famiglia, come una sorta di vicenda privata. Poi, alcuni anni fa, mentre la generazione dei testimoni oculari iniziava a morire, il problema si è imposto all'attenzione pubblica.
Dieci anni dopo la sua istituzione ufficiale, il Giorno della memoria ha un futuro oppure il suo contenuto si è già esaurito? Che efficacia può avere, oggi, il racconto degli ultimi testimoni? E avere ascoltato tante volte il racconto di quell'orrore ci ha reso davvero piú consapevoli e attrezzati dinanzi al rischio di una sua ripetizione?
David Bidussa indaga la retorica della memoria pubblica, senza fare sconti ai suoi meccanismi rituali e alle sue debolezze. Lo fa guardando al momento in cui, tra pochi anni, non ci sarà piú nessuno a raccontarci di aver visto con i propri occhi l'orrore dei massacri. Quando resteremo solo noi a raccontare le vittime e i carnefici con gli strumenti della storia.

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Informations

Éditeur
EINAUDI
Année
2021
ISBN
9788858437070
1.

La costruzione della memoria

Nel luglio 2000, sulla scorta della dichiarazione del foro internazionale di Stoccolma sull’Olocausto (26-28 gennaio 2000), una legge dello Stato italiano ha definito la questione della memoria dello sterminio antiebraico nel corso della Seconda guerra mondiale come tema di riflessione collettiva. Da allora molte volte in questi anni la parola «Shoah» (letteralmente «annientamento») ha iniziato a circolare e a far parte del vocabolario pubblico.
Da molte parti si è detto, e spesso si è tornati a ripetere, che occorreva fissare la memoria del genocidio ebraico proprio per prevenire l’eventualità dell’oblio. È una preoccupazione lodevole. Da sola tuttavia non elimina i margini di ambiguità e di problematicità che sono propri del processo di costruzione della memoria pubblica legata ai grandi eventi traumatici con cui i sopravvissuti e le generazioni successive a quell’evento devono fare i conti e imparare a coabitare. Questo problema non è stato inaugurato dalla riflessione sul genocidio ebraico, ma ha avuto la sua prima manifestazione con la Prima guerra mondiale. Come per quella vicenda, anche in questa sono le vittime ad aver definito un processo di sacralizzazione e di trivializzazione. Proprio per le caratteristiche di massa di quell’evento, la costruzione sociale e pubblica della sua memoria non ha significato solo la celebrazione della battaglia, ma ha riguardato da una parte la sua consacrazione in termini di storie, memorie, luoghi, simboli e, dall’altra, la sua banalizzazione o trivializzazione legata alla modalità del ricordo, alla costruzione dei rituali commemorativi, ai «viaggi della memoria». Di questi due aspetti, indissolubilmente legati, è sul secondo che conviene soffermarsi.
Dietro al problema della trivializzazione stanno la questione dell’«industria dell’Olocausto» – un fenomeno su cui Tova Reich con Il mio olocausto ha tentato una risposta (e su cui in Italia si è registrato un silenzio assordante) – e la capacità di saper coabitare con un evento di cui non si riesce a prendere le misure. Accanto a questo sta anche la trasformazione in mito di quell’esperienza che vive soprattutto del senso di imbarazzo su cui si fonda e si rafforza il sentimento di solidarietà verso le vittime e i sopravvissuti. Un senso di rispetto che, per quanto attualmente possa sembrare solido e consistente, appare fragile, troppo definito dalle «emozioni» e poco costruito su «ragioni». E proprio perché consolidato sulla corda dei sentimenti, ma non su quella dei «ragionamenti» (una distinzione su cui tornerò al capitolo 4), quel mito non ha un futuro. Allo stesso tempo, l’inflazione memoriale, conseguente alla lenta scomparsa dei testimoni diretti, non costruisce un percorso in grado di consolidare una coscienza pubblica.
In breve, ci sono molte cose non chiare nel modo in cui la questione del genocidio ebraico è entrata nel dibattito pubblico, tra le quali il fatto che quella «compassione» è causa ed effetto del silenzio sui sentimenti che hanno fondato la lunga pratica dell’antigiudaismo nel nostro paese.
Un groviglio di questioni coinvolge a diverso titolo tutti i temi e le figure coinvolte nel Giorno della memoria, a partire da come gran parte del mondo ebraico abbia definito quella scadenza, spesso non risolvendo la questione dell’«unicità» dello sterminio. Allo stesso tempo resta da chiarire come gli attori politici (le destre, le sinistre e un agente culturale significativo come il mondo cattolico) hanno affrontato, riesaminato, definito e aggiornato i loro vocabolari culturali in conseguenza del Giorno della memoria. Il tema è l’incertezza tra una dimensione specifica e il suo significato generale e universale. Dati questi presupposti ha un futuro questa iniziativa? A mio giudizio ha il fiato corto.
Per ampliare il suo respiro si tratta di aprire la discussione su molti temi: su com’è nata quella data pubblica; su quale linguaggio la connota (anche in conseguenza dei bilanci non fatti); sull’uso pubblico della storia in un’epoca caratterizzata dallo sguardo sensazionalistico sul passato; sul ruolo degli storici. In altre parole su come si crea la coscienza pubblica.
Quando si affronta la questione del genocidio ebraico e della coscienza pubblica credo sia opportuno riflettere intorno a tre criteri preliminari.
In primo luogo, il Giorno della memoria – il 27 gennaio – non è il giorno dei morti. Per questa ricorrenza abbiamo già la data del 2 novembre nel nostro calendario civico e non c’è alcun bisogno di duplicarla. Il 27 gennaio è il giorno della memoria per i vivi e non della commemorazione dei morti.
Il genocidio ebraico è un evento che ha comportato la distruzione fisica di milioni di individui per mezzo di una macchina persecutoria che colpiva gli inquilini della porta accanto. Quindi la memoria di quest’atto riguarda tutti noi. È l’evento strutturale in cui noi europei abbiamo conosciuto le nostre «potenzialità». Forse il genocidio ha modellato l’identità ebraica, individuale e collettiva, ma il 27 gennaio non è il giorno dell’identità ebraica. Il Giorno della memoria riguarda un pezzo della storia culturale dell’Europa con cui il nostro continente ha iniziato a confrontarsi, pur se in ritardo e spesso con disagio. La prima operazione da compiere è dare al genocidio ebraico uno sfondo storico, ovvero riconoscerlo in un ciclo, costituito da molti elementi non meccanici e, soprattutto, non «unici».
Seconda osservazione: negli anni scorsi è stata spesso usata la categoria di nazismo in riferimento alla guerra nei Balcani. Per certi aspetti quel confronto è eccessivo; per altri, invece, è fondato e pertinente. Vediamo dove.
Nell’ambito dei conflitti etnici il sistema di sterminio si colloca dentro una realtà premoderna. È la scena tipica del «giorno dopo» della conquista della città tra Antichità ed Età moderna da parte delle truppe assedianti: si uccidono gli uomini, si stuprano le donne, si usa violenza fisica sui bambini e sugli anziani, Auschwitz sancisce un altro meccanismo di distruzione del corpo, in cui è prevalente il dato simbolico accanto a quello sistematico della distruzione. Lí risiede la sua modernità e il fatto che parli a noi vivi.
Ma perché un evento acquisti il carattere pubblico per una comunità occorre che si costruisca la consapevolezza di un vuoto, ovvero di qualcosa che segni collettivamente uno scarto tra «prima» e «dopo». La memoria pubblica non è altro che la consapevolezza di quel vuoto. Proprio questo è l’aspetto che è drammaticamente divenuto attuale nel silenzio di tutti noi di fronte ai fatti di Rwanda tra il 1994 e il 1995, o nella guerra ai civili e ai laici nell’Algeria degli anni ’90. Due casi emblematici in cui, per rimanere in tema, non si è attivata la memoria.
Terzo criterio: la memoria non è un accadimento, è un atto che si compie tra vivi ed è volto a legare tra loro individui al fine di costruire una coscienza pubblica. La memoria ha un valore pragmatico, serve per fare, dice oggi che del passato si è trattenuto qualcosa, e che quel qualcosa ha arricchito la nostra capacità di agire proprio perché in quel contesto si sono date molte possibilità e tanti hanno fatto parte di una macchina distruttiva, anche nella sfera delle vittime. Ma se da una parte questo non significa che si possano confondere e assimilare i ruoli, dall’altra ci obbliga a riflettere su ciò che tratteniamo di quell’esperienza.
Nel Giorno della memoria non ci interroghiamo dunque sui sopravvissuti o sui testimoni diretti, ma su noi stessi, venuti dopo, e che da quell’evento siamo segnati, qualunque sia il nostro rapporto individuale e familiare con esso. Sia che siamo figli delle vittime, dei carnefici o di quella ampia fascia di zona grigia, di mondo degli spettatori, che si trova in mezzo. Insieme a noi, ci sono i testimoni culturali, ovvero gli autori della produzione storiografica, figurativa, letteraria, cinematografica, che accompagnano l’estrinsecazione delle testimonianze dei sopravvissuti. In sostanza non c’è da attendere un domani, piú o meno lontano, per chiedersi che cosa faremo dopo che l’ultimo testimone sarà scomparso. Quel passaggio si è già consumato. Del resto, a riprova, la notizia della morte – avvenuta il 17 giugno 2008 – di Henryk Mandelbaum, l’ultimo sopravvissuto in Polonia del «Sonderkommando» del campo di concentramento nazista di Auschwitz-Birkenau, non ha modificato il quadro emozionale, non ha segnato nella coscienza pubblica un «prima» e un «dopo».
Si è inaugurata l’età della postmemoria, una stagione che obbliga a confrontarsi con le domande che questa condizione pone rispetto alla conservazione di un certo passato e sugli strumenti che noi abbiamo per indagarlo, comprenderlo e rappresentarlo.
La nostra attualità è attraversata da tre diversi scenari che rischiano di trasformare quest’attenzione in una nuova eclissi.
Il primo riguarda i tempi della memoria. Il ricordo del genocidio ebraico ha avuto tempi lunghi prima di rendersi autonomo e «visibile» nella coscienza pubblica. Ha avuto un suo risveglio a partire dagli anni ’80, sull’onda anche della spettacolarizzazione dovuta a Holocaust (il serial televisivo che nel 1978, negli Stati Uniti come in Europa, ha inaugurato una nuova stagione nella percezione del genocidio ebraico). Da allora quel tema è stato al centro della discussione pubblica, anche «riscoprendo» le domande di chi a lungo e con pazienza aveva indagato intorno all’evento nell’indifferenza generale. L’esempio piú evidente è proprio nell’opera unanimemente oggi riconosciuta come la piú esaustiva, ovvero la monografia di Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, composta in solitudine, ignorata negli anni ’50, pubblicata nel 1961 nell’indifferenza generale e infine «scoperta» nel 1985.
Tornerò piú in dettaglio su Hilberg nel capitolo 6, ma è importante sottolineare come la ricerca storica talora viva di vita propria e non solo di spettacolarizzazione o di rapporto con le domande che la discussione pubblica suscita. Quelle domande riguardano lo spessore, la fisionomia, l’estensione e la tipologia della «zona grigia», una questione che resta in eredità a chi viene dopo e che, soprattutto, non ha il fascino né della celebrazione dell’eroe, né della consolazione della vittima. La storiografia quando ha un valore civile non consola, bensí pone domande, e probabilmente è anche per questo che nonostante tutti dichiarino di amare la storia, di provare per essa un interesse quasi morboso, poi tengono la storiografia a distanza. Ci sono opere che bruciano ancora per le domande che pongono e perché rispetto a esse l’insorgenza morale non serve. E in ogni caso non è solo una questione morale. È una problematica che coinvolge il sentimento politico e, piú generalmente, la mentalità diffusa, specie nel caso italiano.
Infatti, intorno al concetto di zona grigia, soprattutto nel modo in cui si è radicata quest’immagine nel senso comune in Italia, è venuta costruendosi una filosofia politica. L’espressione «zona grigia», creata da Primo Levi e originariamente riferita a coloro che nell’esperienza del Lager rappresentano l’area dei privilegiati nella complessa sociologia e gerarchia degli schiavi, nella storiografia sulla Resistenza e sulla guerra civile ha avuto uno slittamento di significato ed è perciò venuta a designare quella parte di popolazione che passivamente non si è schierata con nessuna delle due parti in campo. Una condizione inizialmente vissuta con disagio e poi, lentamente, rivendicata con orgoglio. La condizione del passaggio dalla «vergogna» all’«orgoglio» della zona grigia, ha la premessa in questo passo di Angelo Del Boca, laddove descrive il ritorno a casa dopo la guerra e la Resistenza di uno che non aveva scelto:
Non avevo sparato un solo colpo. Non avevo lanciato una granata. Non avevo ucciso alcuno. Per trenta o quarant’anni non ci sarebbero piú state guerre e a me sarebbe toccato di sentir parlare per sempre di questa, alla quale non avevo avuto il coraggio di partecipare. Tutti avrebbero avuto dei ricordi da riferire meno io. Tutti si sarebbero vantati di qualche impresa, meno io. Avrei dovuto sempre tacere. Avrei dovuto sempre ascoltare gli altri. Per anni e anni, fino alla nausea.
Ciò che descrive Del Boca in queste righe è la percezione di una società che vive la libertà ritrovata con il retrogusto di chi sa che quella nuova condizione lo riguarda solo passivamente, e ne riceverà piú noie che altro. È la premessa a una rivendicazione dell’estraniamento come «saggezza». È la società degli «apoti», celebrata da Prezzolini, di chi «non la beve» e perciò è «oltre», di colui che accetta la realtà, perché comunque non può esserci una condizione migliore. In nome del realismo pessimista, si direbbe. Una convinzione, tuttavia, che ha il suo fondamento teorico nel disprezzo della democrazia. Lí nasce la convinzione che la zona grigia rappresenti la «zona morale» di un paese che comunque ha risorse migliori di quelle dei suoi rappresentanti, a qualunque fede politica si richiamino. È un’opinione che non nasce dalla delusione, ma dalla convinzione di possedere una morale superiore, riassunta in forma impeccabile dal giudizio sulla democrazia espresso da Leo Longanesi:
La parola «democrazia» mi destava una insofferenza fisica, come l’odore stantio dei vecchi cassetti o l’alito guasto di certe vecchie; sentivo nell’aria un odore di muffa, di umida miseria, un odore di cavoli lessi nelle scale della nuova società, come in certe vecchie portinerie, un odore di farisei. Poi scoprii che corrispondevano a un mio giudizio storico e morale.
Si può dire meglio e piú sinteticamente?
Il secondo scenario riguarda la centralità delle vittime. Nel corso degli ultimi due decenni la dimensione della vittima ha assunto una nuova fisionomia. Se a lungo la questione degli sterminî è stata pensata in relazione al termine di trauma – e dunque il problema e l’attenzione rispondevano all’esigenza di individuare strategie volte al recupero o al reinserimento –, la dimensione della vittima tende ora a essere presentata come una condizione non mutabile. La vittima nella comunità entra in ragione della violenza che ha subito e dunque per questo trova spazio e rispetto. Ma lentamente quella condizione si estende e genera un nuovo diritto: nello spazio pubblico comincia ad affermarsi la convinzione che solo presentandosi come vittime si avrà diritto alla giustizia. È un meccanismo che lentamente dimentica il presupposto da cui era partito, legato all’eccezionalità, alla condizione estrema del sopravvissuto, ed estende cosí all’infinito la realtà traumatica. Trasforma una condizione fisica, oggettiva, in una psicologica.
L’effetto è la ripresa del meccanismo vittimario, che non è solo appannaggio dei sopravvissuti, ma anche e sempre piú di coloro che hanno una visione paranoica della realtà, ossessionati dall’idea di forze potenti che agiscono contro la propria gente. Un’affermazione del processo di produzione delle vittime che elimina la dimensione storica e fattuale del suo realizzarsi in termini di atti, conflitti, figure, circostanze (e dunque non indaga su chi siano i persecutori, non descrive le azioni dei carnefici, bensí destoricizza perché riconduce a sé tutta la vicenda) e spiega, ad esempio, perché paradossalmente la richiesta di riflessione sulle vittime, che pure esigerebbe una maggior produzione di analisi storica, chiami in causa altre piste di indagine – la psicologia, la psicoanalisi, la teologia – ma significativamente eviti la storia sociale e si guardi bene dall’affrontare la storia dei comportamenti.
Paradossalmente, solo portando al centro le figure dei carnefici o della macchina dello sterminio, quella domanda di storia ha avuto la possibilità di sostenersi. Nello specifico è stato da una parte La banalità del male di Hannah Arendt ad aprire questa possibilità, proprio perché al centro del libro non erano poste le vittime ma la macchina distruttiva, e successivamente si è aggiunto il saggio di Christopher Browning, Uomini comuni, che ha consentito una nuova stagione di indagine culturale, storica e sociale sugli sterminî. In tutti e due i casi il cuore dell’indagine riguarda la sfera dei carnefici e degli esecutori, la macchina burocratica come luogo produttivo della storia. Un nuovo aspetto che chiama in causa la nostra quotidianità ma che, di nuovo, evitiamo di mettere al centro della nostra riflessione, sulle forme del consenso, o su come si produce la morte di massa nell’età della tecnica. Un evento che evoca il principio della cooperazione industriale. La fabbrica moderna è capace di produrre in serie milioni di esemplari dello stesso prodotto perché migliaia di individui nello stesso istante compiono un gesto, un atto sequenziale. Questo processo è possibile perché pone a suo fondamento la cooperazione tra individui. Il genocidio ebraico, come ricorda lo storico Pierre Vidal-Naquet, è un evento possibile, e realizzabile, perché basato sullo stesso principio organizzativo: un sistema che consente la non responsabilità individuale nello sterminio.
Il terzo e ultimo fenomeno da considerare riguarda il filosemitismo. Dall’inizio del 2006 è in atto negli Stati Uniti una discussione suscitata da alcune dichiarazioni del premio Nobel James Watson in merito alla presunta superiorità degli ebrei e l’altrettanto presunta inferiorità degli afroamericani. La discussione si è riaperta anche di recente in seguito ad alcune dichiarazioni di Henry Louis Gates Jr, docente a Harvard e direttore dell’Institut Du Bois di studi africani, che richiama l’attenzione sulla diffusione crescente delle idee di diversità razziale negli Stati Uniti. Questa credenza nella superiore intelligenza degli ebrei è antica e diffusa, ma non è sempre indice di filosemitismo. Al contrario, può anche costituire un indicatore di antisemitismo. Il mito della superiorità ebraica, dell’intelligenza fuori dal comune, come dimostra Sander Gilman, ha avuto nell’Europa tra Ottocento e Novecento una forza e un ruolo rilevanti nella definizione dell’antisemitismo contemporaneo. Soprattutto nella definizione del conflitto tra intelligenza ed etica, laddove la prima veniva intravista come fonte di amoralità.

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