Maledetta sfortuna
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Maledetta sfortuna

Vedere, riconoscere, rifiutare la violenza di genere

Carlotta Vagnoli

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Vedere, riconoscere, rifiutare la violenza di genere

Carlotta Vagnoli

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Di cosa parliamo quando usiamo l'espressione "violenza di genere"? Come nasce? Quali sono i primi campanelli d'allarme? Che cosa accomuna il catcalling al femminicidio? È tempo di fare chiarezza su un argomento che ci tocca tutti quanti, ma di cui si fa spesso fatica a parlare nei termini giusti: se ne fa carico Carlotta Vagnoli, giornalista, sex columnist, femminista, attivista, da anni punto di riferimento proprio sui temi della violenza di genere. Vagnoli sviscera il discorso affrontandolo a trecentosessanta gradi, parlando di revenge porn e di linguaggio dell'odio, di victim blaming e mezzi di comunicazione, di pregiudizi e luoghi comuni, di educazione e ruoli, di vittime e carnefici. E facendolo ci sprona a muovere un passo fuori dal branco e a diffondere la disciplina del consenso, aprendo la discussione sugli scenari futuri del rapporto tra uomo e donna, con la speranza in una società libera finalmente dagli stereotipi di genere.

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Informations

Éditeur
FABBRI EDITORI
Année
2021
ISBN
9788865976968
Capitolo 1

COME NASCE LA VIOLENZA

Stereotipi di genere e categorizzazioni tossiche
La prima volta che ho sentito parlare di violenza di genere Ăš stato durante le scuole medie: una formatrice venne nella mia classe per darci delle informazioni su cosa fosse, come riconoscerla e come combatterla.
Non capii subito il perchĂ© fosse definita “di genere”, questa violenza: dopotutto un pugno Ăš un pugno, pensai, che lo scagli un uomo o una donna poco cambia.
Ma la storia che vi racconto nel libro che avete per le mani parte da molto prima che questo pugno venga scagliato e fa capire come i gesti di violenza siano profondamente diversi tra loro e cosĂŹ radicati nel tempo e nella nostra memoria da diventare spesso subdoli, difficili da riconoscere. Si nascondono nel nostro quotidiano, nei giornali che sfogliamo, nelle parole che sentiamo a scuola o al lavoro, mentre passeggiamo per strada. Le radici di cui parlo sono cosĂŹ lunghe che, per rintracciarne le origini, dovremmo compiere un viaggio indietro nei secoli fino alle societĂ  primordiali.
È infatti allora che furono stabiliti dei ruoli e delle gerarchie precisi che, se da un lato sembravano funzionali alla costruzione e al mantenimento dell’ordine, con il passare del tempo (e in seguito alle evoluzioni sociali, umane e tecnologiche) si sono rivelati tossici e claustrofobici.
Le radici di cui parlo hanno un nome e si chiamano stereotipi di genere.
Gli stereotipi sono una serie
di formule pensate per descrivere
al meglio qualcosa.
Comunemente, nella nostra societĂ , a una femmina vengono associati il concetto di bellezza, il colore rosa e i capelli lunghi; a un maschio si tendono ad abbinare invece il concetto di forza, il colore blu e i capelli corti.
Viene automatico farlo a quasi tutte le persone del mondo occidentale, perchĂ© queste connessioni logiche sono talmente insediate in noi fin dalla primissima infanzia da diventare patrimonio culturale comune. Immaginiamo di chiedere a un bambino in etĂ  prescolare di distinguere tra “maschio” e “femmina”: questa definizione – nella maggior parte dei casi – toccherĂ  in primis la gamma dei colori (blu/rosa), successivamente il tipo di giochi connessi al genere (per i maschi quelli di azione o di guerra, per le femmine le bambole) e infine le caratteristiche umane e morali da adottare (i maschi non piangono mai, le femmine sono gentili e premurose).
Non conosciamo esattamente quando e a chi sia da attribuire l’origine di questi costrutti logici; sappiamo solo che l’uomo li ha tramandati nei secoli, attraverso la tradizione orale prima e quella scritta in seguito.
Elena Gianini Belotti, nel suo libro fondamentale Dalla parte delle bambine, pubblicato da Feltrinelli nel 1973, fa una preziosa analisi di come questo tipo di ragionamento sulle caratteristiche stereotipate del sesso sia presente ancora prima della nascita di una persona.
Al tempo in cui Belotti scrisse il saggio, in Italia non era ancora diffusa l’ecografia prenatale che permetteva di conoscere il sesso del nascituro prima del parto (esame che in America veniva effettuato già da qualche anno). Molte usanze popolari promettevano di indovinarlo con certezza quasi scientifica, per esempio la semplice osservazione di alcune caratteristiche della futura madre, come la forma della pancia, il suo umore, il periodo del concepimento in relazione alla fase lunare; in altri casi, ci si appellava a ritualità al limite della magia e della superstizione (contare i granelli di riso che la donna prende in un pugno, rompere un osso di pollo a forma di forcella, far cadere una monetina lungo la schiena della madre – sotto i vestiti – e osservare su che lato questa cade per terra).
Solitamente, osserva Belotti, le caratteristiche premonitrici della nascita di un neonato maschio sono tutte in positivo: i grani saranno dispari (sempre uno in piĂč), la pancia piĂč grande, l’osso di pollo piĂč lungo, la monetina cadrĂ  dalla parte della testa, la madre sarĂ  piĂč allegra durante la gravidanza.
Queste credenze portano inevitabilmente ad augurarsi che il nascituro sia un bambino, ma ci fanno anche capire come molte associazioni mentali, che quasi consideriamo naturali, siano in realtĂ  retaggio di costrutti di stampo paternalistico, tesi a connotare, etichettare e dividere in categorie ben definite i due sessi.
Stando ad alcuni preconcetti molto comuni e tuttora vigenti, si pensa che i maschi siano – per loro stessa natura – piĂč vitali e vivaci delle femmine, alle quali invece vengono associate caratteristiche di passivitĂ , docilitĂ  e discrezione; che i figli siano forti e vivaci e le figlie minute e silenziose.
Questa divisione netta altro non Ăš
che, come lo definisce Belotti,
un “gioco delle aspettative”,
che inizia ben prima che la persona
nasca e che non avrĂ  mai fine
se non si scardinerĂ  il sistema
degli stereotipi.
Sempre secondo alcune “dicerie” (sulle quali, perĂČ, si Ăš basata la quasi totalitĂ  delle decisioni e delle diagnosi fino all’avvento della moderna medicina ostetrica e ginecologica), il parto Ăš piĂč facile quando nasce un maschio; sarĂ  invece piĂč lungo e doloroso se viene al mondo una bambina, come se il feto contribuisse alla sofferenza della sua stessa venuta al mondo.
Con l’idea, dunque, che una figlia femmina sarĂ  meno produttiva e avrĂ  un valore sociale inferiore rispetto al maschio, ecco che generazioni e generazioni, per secoli e ancora oggi, si augurano di concepire bambini di sesso maschile. Spesso le coppie continuano a cercare di “fare il maschio”, come se questo portasse a compimento un desiderio sociale piĂč grande e universale, dando alla famiglia qualcosa che la femmina non sarebbe mai in grado di donare: sopravvivenza della stirpe, produttivitĂ  e, in definitiva, molti meno problemi.
Non Ăš raro che, ancora oggi, quando nasce una femmina la madre si senta dire frasi che suonano piĂč o meno cosĂŹ: «Godetevela, perchĂ© quando sarĂ  signorina vedrete che incubo, diventano ingestibili e hanno un bel caratteraccio».
Avete mai sentito dire lo stesso di un maschio? Esatto, nemmeno io. Anzi, di solito Ăš descritto come dolce e coccolone, che ama la sua mamma e non se ne separa mai, neanche in etĂ  adulta: non mi sembra quindi cosĂŹ peculiare che, credendo in queste logiche stereotipate, si preferisca l’idea di partorire un figlio anzichĂ© una figlia.
Questa idea Ăš sopravvissuta ai secoli poichĂ©, sebbene la societĂ  evolva in modo piuttosto rapido (pensate al secondo dopoguerra: in meno di vent’anni l’Italia abbandonĂČ la dimensione rurale e decentrata delle campagne per abbracciare il boom economico ed espandere le cittĂ  a dismisura), le strutture psicologiche sociali cambiano con estrema difficoltĂ , e rimangono vive e attive soprattutto nei nuclei in cui gli individui ricevono un’educazione.
La trasmissione degli stereotipi
quindi avviene prima di tutto
all’interno della famiglia
e dei piccoli nuclei sociali;
solo successivamente si estende
attraverso i canali di massa,
come la tv, il cinema, i libri,
l’arte stessa. GiĂ , perchĂ©
se ci facciamo caso, troveremo
stereotipi di genere in tutto ciĂČ
che ci circonda.
Se, per esempio, entrate in un museo, che differenza capita spesso di notare tra le rappresentazioni maschili e quelle femminili, nei quadri o nelle statue? Le femmine sono quasi sempre nude, i maschi molto frequentemente accompagnati ad armi.
E anche in molte fiabe popolari, da quelle dei fratelli Grimm alla loro versione cinematografica a opera della Disney, vedremo quanto le rappresentazioni maschili combacino con quelle dei principi forti e senza paura (vestiti di blu: coincidenze? Non credo proprio) che affrontano ogni avversità con coraggio e spavalderia, senza mai piangere né provare fatica.
Le principesse, invece, non hanno molto da fare se non aspettare di essere salvate, trovate o sposate nei loro vestiti rosa.
E nei film?
In certi film capita
che ci troviamo davanti
a una dinamica molto simile
a quella delle fiabe: in molti generi
possiamo infatti individuare
esempi in cui la sindrome dell’eroe
viene attribuita agli uomini
e la necessitĂ  di essere salvate
alle donne (da Pretty Woman
a Il Gladiatore, passando
per le pellicole di Hitchcock
e Via col vento).
I clichĂ© si ripetono all’infinito, soprattutto nei sottogeneri come l’horror e le commedie romantiche, le famose rom-com: nel primo caso, avremo la bionda che muore nei primi dieci minuti e l’uomo che risolve il mistero rischiando costantemente di restarci secco, mentre nel secondo troveremo uno stuolo di protagoniste il cui unico scopo Ăš indossare l’abito bianco. Per fortuna, di recente anche nei sottogeneri si cominciano a fare dei passi avanti in questo senso.
Anche la pubblicitĂ  non esce indenne da tale stereotipizzazione, anzi, molto spesso la cavalca: ci invoglia a comprare rasoi per uomini virili, lamette delicate e rosa per donne che devono necessariamente essere lisce perchĂ© “non sia mai che la donna abbia dei peli, che cosa contronatura!”.
E nel mondo musicale? Ora che avete capito, fateci caso: sapreste nominare almeno un paio di brani che fanno seguito a questa interpretazione della societĂ ?
Tutto ciĂČ Ăš per farvi capire quanto queste dicotomie siano costanti e sottili, proposte da ogni attore della societĂ  in qualunque momento della nostra giornata e della nostra formazione di adulti.
Sfuggirne Ăš praticamente impossibile. Anche perchĂ©, oltre a questi meccanismi che chiameremo “esterni”, ve ne sono alcuni altrettanto prepotenti che sono quelli “interni” e che si sviluppano nel nucleo familiare e nelle relazioni che intessiamo con il mondo che ci circonda: con gli amici, nei gruppi di studio, in classe, nelle associazioni sportive. Ognuna di queste micro-strutture tende infatti a rafforzare gli stereotipi, piĂč che a distruggerli.
Pensiamo a una famiglia conservatrice che vieta ai maschi di truccarsi e alle femmine di mettere gonne corte o gioca...

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