Capitolo 1.
Lâirrompere dei diritti umani
sulla scena mondiale
1. Lâassetto tradizionale della comunitĂ internazionale
Se, per capire come era la realtĂ internazionale dei secoli scorsi â per intendersi, tra la pace di Vestfalia (1648) e la fine dellâOttocento â, aprite uno dei libri che quella realtĂ si proponevano di racchiudere in schemi, formule e concetti, vi accorgete subito che gli individui e i popoli non avevano alcun ruolo. Prendete, ad esempio, alcuni autori classici del diritto internazionale: Emer de Vattel (svizzero, che scrive nel 1758), o Georg Friederich von Martens (tedesco, che scrive nel 1789), o Henry Wheaton (statunitense, che scrive nel 1836), o August Wilhelm Heffter (ancora tedesco, che scrive nel 1844). Ebbene, se scorrete i loro libri piĂč famosi, difficilmente trovate posto per enti che non siano gli Stati sovrani e indipendenti. Se qualche volta si parla di individui, Ăš solo per dire che ogni Stato Ăš tenuto a trattare in modo civile i cittadini degli altri Stati. Ancora meno si parla del ruolo dellâindividuo nel contesto internazionale nelle opere dei grandi pensatori che hanno indagato la realtĂ politica del loro tempo: Hobbes, Locke, Spinoza, Montesquieu, Rousseau, Kant. Ognuno di essi, pur se attentissimo alla funzione dellâuomo nella societĂ interna, quando passa a parlare dei rapporti internazionali conclude â amaramente, o con rassegnazione â che soli vi dominano gli Stati.
In effetti, tra il Seicento e gli inizi del Novecento i rapporti internazionali erano sostanzialmente rapporti tra entitĂ di governo, ciascuna delle quali sovrana su un territorio piĂč o meno vasto e su una popolazione stanziata in quel territorio. Tre sono i caratteri principali della comunitĂ internazionale di questâepoca.
Primo: gli Stati vivono in uno stato di natura. Non si tratta perĂČ di quello descritto da Hobbes e da Spinoza, di quello «stato», cioĂš, nel quale non esistono leggi e istituzioni politiche comuni a dettare i comportamenti da tenere, mentre dominano lâattrito e lo scontro, segnatamente la guerra, e il commercio umano tra comunitĂ statali Ăš minimo. Un sistema, dunque, nel quale la guerra primeggia assoluta, costituendo un elemento essenziale e indispensabile della comunitĂ internazionale (a tal punto che nel 1731 Giambattista Vico, in un breve scritto Sul diritto naturale delle genti, nel dare una definizione del sistema giuridico internazionale, scrive che Ăš un diritto «col quale i vincitori regolano il cieco furore dellâarmi e la sfrenata insolenza delle vittorie, e i vinti ne consolano i danni delle guerre e la suggezione delle conquiste»). La comunitĂ internazionale costituiva uno «stato di natura» piuttosto nel senso in cui Locke descrive questo «stato»: come una condizione in cui esistono sĂŹ leggi, anche se sono poche (e si riducono ai patti liberamente conclusi tra i consociati e al diritto di punire le offese arrecate dagli altri o di chiedere unâadeguata riparazione), mentre mancano giudici e gendarmi, nonchĂ© parlamenti (istituzioni che verranno create solo con il passaggio allo «stato di società », allâinterno delle varie comunitĂ statali). «Stato di natura» che perĂČ, anche per Locke, puĂČ facilmente degenerare in uno «stato di guerra», in cui non valgono piĂč le leggi, nĂ© esiste la possibilitĂ di nominare un giudice comune ai contendenti, ma regna solo la forza (o, come dice Locke, «enmity, malice, violence and mutual destruction»).
Secondo: in questo quadro generale, acquistava particolare peso un principio costituente la necessaria conseguenza dei rapporti individualistici tra i membri di questa societĂ anarchica: il principio di reciprocitĂ . In virtĂč di esso, le relazioni tra soggetti ubbidivano a una logica rigidamente improntata al do ut des, logica che permeava tutti i rapporti. Le norme tra consociati venivano rette principalmente da accordi bilaterali, in qualche caso multilaterali: tutti perĂČ basati su reciproci vantaggi dei contraenti. Quando il vantaggio di una delle parti veniva meno, essa era autorizzata a far valere questo mutamento, o denunciando il trattato, o invocando la famosa clausola rebus sic stantibus (in forza della quale, se sopravviene un cambiamento essenziale nelle circostanze che erano alla base dellâaccordo, questo puĂČ cessare di esistere). La reciprocitĂ si ripercuoteva anche sulle conseguenze della violazione del trattato. La parte lesa poteva far valere quella violazione, chiedendo la riparazione o irrogando una sanzione, se ne aveva la forza politica e militare. Nessun altro Stato aveva il potere e il diritto di intervenire. Il rapporto di responsabilitĂ non si instaurava che tra lâautore dellâillecito e la vittima. Anche le poche norme internazionali (quelle sul mare, sulle immunitĂ diplomatiche e consolari, sul rispetto della sovranitĂ territoriale) non erano poste a tutela di interessi generali, ossia oltrepassanti i singoli consociati, ma solo nellâinteresse di ciascuno di essi, o della somma dei consociati. E, in effetti, lâeventuale violazione di una di quelle norme non faceva sorgere in tutti gli altri soggetti il diritto di colpire con sanzioni lo Stato responsabile, o di chiedergli di risarcire il danno arrecato alla vittima. Solo lo Stato danneggiato dallâillecito (lo Stato cui fosse stato impedito lâuso dellâalto mare, violato il territorio, compressa la libertĂ degli agenti diplomatici) poteva far valere concretamente quella violazione. La comunitĂ internazionale era davvero una giustapposizione di soggetti, ciascuno preoccupato solo del suo benessere e del suo spazio di libertĂ , ciascuno perseguente solo i propri interessi economici, politici e militari, ciascuno intenzionato piĂč a consolidare e possibilmente a espandere il proprio potere, che a tutelare interessi collettivi.
Il terzo tratto peculiare della comunitĂ internazionale di questo periodo consiste in ciĂČ: i popoli e gli individui non hanno alcun peso. Sembra quasi che non esistano, assorbiti e soverchiati come sono dai «prĂŹncipi»: gli Stati sovrani, unici veri interlocutori sulla scena del mondo. I popoli non sono che oggetto del dominio dei vari sovrani. Spesso passano da un sovrano allâaltro, a seconda delle fortune, delle conquiste e dei successi dei vari regnanti. Gli individui restano meno in ombra; ma solo perchĂ© costituiscono propaggini e ramificazioni dei sovrani. I cittadini di uno Stato che si recano allâestero, per soggiornarvi, aprire attivitĂ commerciali, impiantarvi industrie o semplicemente visitare il paese, restano sotto la protezione e lo scudo dello Stato nazionale: a questo lo Stato di soggiorno deve render conto, se le sue autoritĂ calpestano i diritti dello straniero, gli tolgono i beni, lo trattano in modo arbitrario. Gli individui diventano quindi beneficiari di una serie di norme internazionali â le norme sulla protezione degli stranieri â, norme che, beninteso, regolano solo rapporti tra enti sovrani, ma finiscono per tutelare interessi e beni dei cittadini di ciascuno di essi. Quegli individui rimangono perĂČ, lo ripeto, semplici beneficiari di quelle norme: ciĂČ Ăš comprovato dalla circostanza che, se i loro diritti e interessi vengono lesi da uno Stato estero e il loro Stato nazionale decide di non intervenire per le vie diplomatiche o di non iniziare unâazione giudiziaria davanti a un arbitro internazionale (istituito prima della controversia), essi nulla possono contro lâinerzia delle loro autoritĂ . Anche in questa occasione essi restano pedine nel gioco tra potenze, valorizzate o sacrificate a seconda, se non dei contingenti umori, almeno delle inclinazioni politiche dei rispettivi sovrani.
Lâunica categoria di individui che acquista un certo peso autonomo Ăš quella dei pirati: considerati pericolosi nemici di tutto il genere umano e quindi passibili delle pene piĂč severe da parte di qualsiasi Stato del mondo. Gli individui si presentano dunque con una loro fisionomia ben distinta (come soggetti passivi del diritto internazionale, ossia titolari di obblighi internazionali, dirĂ negli anni 1910-20 Hans Kelsen, con un concetto formalistico che mal rispecchia la realtĂ ). Essi appaiono solo come momento negativo, come il Male contro cui ogni sovrano puĂČ e deve lottare con tutte le sue forze. La condizione dei popoli e degli individui di questo periodo verrĂ ben caratterizzata, negli anni 1930-50, da vari studiosi, che definiscono i popoli e gli individui «mero oggetto» delle norme interstatuali.
2. I grandi testi del passato
Molti dei documenti moderni in cui Ăš sancita la tutela internazionale dei diritti dellâuomo affondano le loro radici ideologiche in un lontano passato. Vi sono, infatti, alcuni fondamentali testi politici che hanno proclamato a grandi lettere principi decisamente «rivoluzionari» per il loro tempo, come il principio di uguaglianza o lâesistenza di diritti naturali e inalienabili, inerenti a ogni essere umano in quanto tale. Mi riferisco, in special modo, alle Dichiarazioni statunitensi del 1776-89 e alla Dichiarazione francese del 1789.
Innanzitutto, per quelle Dichiarazioni, lâ«uomo» (riprendo questo termine dalle Dichiarazioni stesse) Ăš tale, Ăš cioĂš degno di tale nome, solo a queste condizioni: se Ăš libero, eguale, puĂČ godere indisturbato dei suoi beni (il diritto di proprietĂ ), non Ăš oppresso da un governo tirannico e puĂČ liberamente realizzarsi. Esse proclamano anche una concezione ben precisa di societĂ . Questa deve essere composta di liberi individui, eguali tra loro (tranne che per «le distinzioni sociali fondate sullâutilitĂ comune» e giustificate dalle diversitĂ di «virtĂč e talenti»), sottomessi solo alla Legge, la quale a sua volta Ăš e deve essere espressione della «volontĂ generale». Le istituzioni politiche devono esistere solo in funzione della libertĂ degli individui e del loro bene comune: come proclama icasticamente lâart. 12 della Dichiarazione francese, «la garanzia dei diritti dellâuomo e del cittadino ha bisogno di una forza pubblica. Questa forza Ăš dunque istituita per il vantaggio di tutti e non per lâutilitĂ particolare di coloro ai quali essa Ăš affidata». Non appena lâautoritĂ degenera, opprimendo gli individui, questi hanno il diritto di opporsi (Ăš questo il ben noto diritto alla «ribellione contro la tirannide»).
In secondo luogo, colpisce il carattere perentorio e totalizzante delle Dichiarazioni (soprattutto di quella francese). Si proclama che lâuomo e la societĂ devono essere cosĂŹ come stabilito in esse; non si ammette alcuna alternativa. Per giudicare lâuomo e la societĂ si offre come unico metro valutativo il rispetto dei diritti dellâuomo. Questi sono considerati lâalfa e lâomega dellâuniverso sociale, la cartina di tornasole per stabilire se una comunitĂ umana Ăš da approvare o da biasimare. Il Preambolo della Dichiarazione francese asserisce senza ammetter dubbi che «lâignoranza, lâoblio o il disprezzo dei diritti dellâuomo sono le uniche cause delle sciagure pubbliche e della corruzione dei governi»1.
Una terza cosa salta agli occhi: lâalto numero di miti politici di cui sono intessute le Dichiarazioni. GiĂ lâesistenza di «diritti naturali e imprescrittibili dellâuomo» Ăš un mito, basata comâĂš sul concetto che lâuomo, prima di entrare in societĂ , sia giĂ titolare di diritti «innati». Un altro mito Ăš quello della «sovranitĂ della Nazione». Ma il piĂč possente di tutti Ăš il «mito della Legge». La Legge, essendo espressione del popolo, non puĂČ errare. Dunque Ăš alla Legge che va rimesso il compito di definire i limiti della libertĂ di ciascuno nei confronti degli altri, di individuare le «azioni nocive alla società », di determinare i casi in cui un uomo puĂČ essere accusato, arrestato e detenuto, di specificare le pene che possono essere inflitte ai colpevoli, di stabilire cosa si deve intendere per «ordine pubblico» e via discorrendo. Parlando della Legge si tocca con mano unâaltra caratteristica delle Dichiarazioni. Se le guardate in controluce, per cosĂŹ dire, e vi chiedete come esse potevano funzionare in pratica, vi rendete conto che si tratta di testi altamente manipolabili, perchĂ© offrono una serie di scappatoie al potere politico. Lâunica barriera che le Dichiarazioni frappongono ai possibili abusi del potere politico Ăš costituita dalla Legge. Se si fa attenzione, ci si rende perĂČ conto che le Dichiarazioni non precisano come la Legge deve esser fatta.
In breve, se lette a distanza di anni, le Dichiarazioni restano sĂŹ documenti di enorme importanza ideale e politica, ma anche fonte di equivoci pericolosi e legittimazione di numerosi arbĂŹtri. In altri termini, gli uomini politici del Settecento, animati dalla loro fede nella Legge e nella Ragione, non si posero il problema di predisporre meccanismi di attuazione e di garanzia dei diritti sanciti nelle Dichiarazioni, che in molti casi rimasero â dunque â solo a livello di enunciato.
Un altro limite delle Dichiarazioni Ăš che in esse vi Ăš solo lâaffermazione di diritti individuali, cioĂš garantiti ai singoli e non ai gruppi. Per di piĂč, per «singoli» dobbiamo intendere solo gli individui di sesso maschile: siamo ancora molto lontani dalla paritĂ giuridica tra uomini e donne.
Qual Ăš lâalbero genealogico di quelle Dichiarazioni? La prima grande matrice la ritroviamo nelle istituzioni politiche del tempo e nella necessitĂ â imperiosamente avvertita da tanti â di sopprimerle. CiĂČ spiega perchĂ© le Dichiarazioni, come gli altri grandi documenti politici che le accompagnarono, furono ossessionate dallâidea che lâautoritĂ â per definizione oppressiva â dovesse essere circoscritta quanto piĂč possibile. LibertĂ â nel testo delle Dichiarazioni â significava potere dellâindividuo di agire senza essere disturbato dallo Stato.
Lâaltra matrice delle Dichiarazioni Ăš il pensiero di alcuni filosofi che svilupparono quattro o cinque concetti essenziali: quello di stato di natura e di stato di societĂ ; quello di «contratto sociale»; quello di «natura umana», concepita come qualcosa di immutabile e di coessenziale agli uomini; il concetto di diritti imprescrittibili, derivanti allâuomo dalla sua qualitĂ di essere umano, a prescindere dal contesto sociale in cui vive; il concetto di separazione dei poteri (la necessitĂ di sottrarre al monarca il potere sconfinato di cui godeva ancora nel Settecento); il conce...