La cittĂ  femminista
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La cittĂ  femminista

La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini

Leslie Kern, Natascia Pennacchietti

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La cittĂ  femminista

La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini

Leslie Kern, Natascia Pennacchietti

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À propos de ce livre

Come possiamo ripensare lo spazio pubblico nell'era del #MeToo? Come potrebbe configurarsi una metropoli concepita per le donne che lavorano, che spingono passeggini, che si prendono cura dei nostri anziani? Noi viviamo in cittĂ  progettate da uomini e per gli uomini. Intrecciando senza soluzione di continuitĂ  teoria ed esperienze vissute, studi urbanistici e narrazione biografica, Leslie Kern mostra l'importanza del pensiero femminista per concepire gli spazi urbani, indagando i limiti e le possibilitĂ delle nostre cittĂ . CiĂČ che rende un luogo vivibile, accessibile, sicuro e dinamico per tutti Ăš la diversitĂ  di esperienze e voci: per questo l'autrice rivendica l'importanza del ruolo e del lavoro delle donne al suo interno, per superare le disuguaglianze di genere e sociali dei nostri quartieri. La sua guida, brillante e documentatissima, dovrebbe diventare un punto di riferimento per tutti gli urbanisti intenzionati a plasmare un nuovo futuro e concepire una cittĂ  a misura di donna

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Informations

Éditeur
Treccani
Année
2021
ISBN
9788812009015

1

LA CITTÀ DELLE MAMME

Se vi Ăš capitato di essere incinta, la “geografia piĂč prossima” diventa davvero strana in poco tempo. All’improvviso sei l’ambiente di qualcun altro e tutto ciĂČ che riguarda il tuo corpo – come si muove nel mondo e come viene percepito dagli altri – cambierĂ .
La gravidanza di mia figlia Maddy si svolse nel corso di un tetro inverno, tipicamente londinese, e di quelle che invece sembrarono una primavera e un’estate insolitamente calde. Lavoravo part-time in un ufficio a Kentish Town e da Finchley Central, dove abitavo, al lavoro, c’erano solo cinque fermate di metropolitana, ma la maggior parte delle volte il viaggio sembrava interminabile. Quando avevo il turno di mattina, la nausea mi costringeva a scendere dal treno ad Archway, dove mi accasciavo su una panchina e cercavo di placare i conati prima di risalire su un altro treno. FinchĂ© la mia gravidanza non fu visibile, non c’era alcuna possibilitĂ  che mi offrissero un posto a sedere, a prescindere da quanto apparissi sudata e pallida, e questa mancanza di premure non migliorĂČ molto neanche dopo che la mia pancia si fu ingrossata.
Volevo essere a ogni costo una di quelle persone che, anche in gravidanza, continuano a condurre una vita normale come se nulla fosse cambiato molto prima che Serena Williams vincesse un torneo del Grande Slam incinta. Laureata da poco in Studi sulle donne e in possesso della mia copia di Our Bodies, Ourselves, ero pronta a lottare fieramente e a mantenere i miei principi femministi di fronte alla medicina misogina e invalidante, ma scoprii presto che erano le ostetriche ad avere in mano l’assistenza pre e postnatale in Gran Bretagna per cui la mia rabbia nei confronti del sistema era mal diretta. Una cosa a cui non ero affatto preparata, invece, era il cambiamento del mio posto nella città.
Non avevo ancora sentito parlare di “geografia femminista”, ma ero senza dubbio una femminista e questo mio Io femminista era pronto a combattere a ogni svolta. Il mio corpo era improvvisamente diventato proprietĂ  pubblica, poteva essere toccato o essere oggetto di commenti, allo stesso modo poteva essere un grosso inconveniente per le altre persone che non si facevano scrupoli a farmelo notare. La mia nuova forma fisica aveva spazzato via il privilegio dell’anonimato e dell’invisibilitĂ : non potevo piĂč mimetizzarmi, diventare parte della folla, osservare gli altri, perchĂ© adesso ero io quella che veniva osservata.
Non sapevo quanto apprezzassi queste cose finchĂ© non le ho perse. E non sono riapparse magicamente dopo la nascita di mia figlia. La gravidanza e la maternitĂ  mi hanno regalato una visione di genere della cittĂ  in alta definizione. Raramente ero stata cosĂŹ consapevole della mia corporeitĂ  e ovviamente il mio genere Ăš corporeo, ma c’ù sempre stato; la gravidanza era una nuova esperienza e mi ha fatto vedere la cittĂ  da una nuova prospettiva. Il rapporto tra il mio corpo e la mia esperienza della cittĂ  divenne molto piĂč viscerale e, sebbene avessi vissuto la paura e le molestie per strada, non avevo la minima idea di quanto questo rapporto fosse profondo, sistemico e geografico.
La flĂąneuse
Non avevo mai sperimentato un completo senso di anonimato o invisibilitĂ  in cittĂ , dato che ero una donna; la preoccupazione continua di essere molestata rendeva aleatoria ogni possibilitĂ  di passare inosservata tra la folla. Tuttavia, privilegi come la pelle bianca e una certa robustezza mi avevano sempre garantito una dose di invisibilitĂ . Mescolarsi perfettamente nella folla urbana, attraversare liberamente le strade e starsene in disparte a osservare gli altri sono stati considerati i veri ideali urbani sin dalla crescita esplosiva delle cittĂ  industriali. La figura del flĂąneur, che emerge in modo prominente negli scritti di Charles Baudelaire, Ăš quella di un gentiluomo «spettatore appassionato» della cittĂ , che cerca di «diventare una sola carne con la folla», al centro dell’azione eppure invisibile1. Il filosofo e scrittore della vita urbana Walter Benjamin ha ulteriormente cristallizzato il flĂąneur in un personaggio urbano essenziale nella cittĂ  moderna, e sociologi urbani come Georg Simmel hanno individuato in tratti come l’“atteggiamento blasĂ©â€ e l’anonimato l’essenza della nuova psicologia urbana2. Non sorprende che, considerato il punto di vista di questi autori, il flĂąneur sia sempre stato immaginato come un uomo, per di piĂč dalla pelle bianca e dal fisico robusto.
Il flĂąneur potrebbe essere femmina? Le scrittrici urbane femministe si sono divise sulla questione. Per alcune quello del flĂąneur Ăš un tropo esclusivo della critica; per altre, Ăš una figura da rivendicare. Coloro che votano contro sostengono che le donne non potranno mai fuggire completamente nell’invisibilitĂ  perchĂ© il loro genere le contrassegna come oggetti dello sguardo maschile3. Altri sostengono che il flĂąneur al femminile sia sempre esistito. Usando il termine flĂąneuse citano personaggi come Virginia Woolf. Nel suo saggio del 1930 A zonzo: un’avventura londinese, Wolf immagina di penetrare nella mente degli estranei mentre cammina per le strade di Londra, sostenendo che «fuggire Ăš il piĂč grande dei piaceri; andare a zonzo d’inverno la piĂč grande avventura»4. Nel suo diario, la stessa Woolf scrisse: «Non c’ù riposo piĂč grande che camminare da soli per la città», il che implicava che avesse trovato la misura della pace e del distacco tra la grande folla5. La geografa Sally Munt ha proposto l’idea del flĂąneur lesbico come personaggio urbano che elude il percorso abituale dello sguardo eterosessuale e trova piacere nell’osservare altre donne6.
Lauren Elkin tenta di recuperare la storia invisibile della flĂąneuse nel suo libro FlĂąneuse: Women Walk the City. Elkin sostiene che le donne siano state al tempo stesso ipervisibili e invisibili nelle strade. Sempre osservate eppure escluse dai resoconti della vita urbana. Descrive le sue esperienze di giovane flĂąneuse per le strade di Parigi, molto tempo prima di scoprire che esisteva un nome specifico per quello che faceva: «Potevo camminare per ore e non “arrivare” mai da nessuna parte, osservavo il modo in cui la cittĂ  era stata organizzata, scorgendo la storia non ufficiale qua e lĂ . [
] Ero alla ricerca di residui, di materiali, di incidenti e incontri e aperture inaspettate»7. Elkin insiste nel ribadire che la riluttanza di uomini come Baudelaire, Benjamin e Simmel a immaginare un flĂąneur femminile derivi dalla loro incapacitĂ  di notare le donne che si comportano in modo diverso dalle nozioni preconcette. Le donne presenti nelle pubbliche strade avevano piĂč probabilitĂ  di essere scambiate per passeggiatrici (lavoratrici del sesso) che di essere considerate semplici cittadine a passeggio. Ma Elkin scrive: «Se scaviamo a fondo, scopriamo che c’era sempre una flĂąneuse che passava accanto a Baudelaire per strada»8.
A questo punto, perĂČ, devo porre una domanda: la flĂąneuse era per caso incinta o stava spingendo un passeggino? Il video dell’artista e studiosa Katerie Gladdys Stroller FlĂąneur gioca sul doppio significato della parola “stroller”9 in quanto la ritrae mentre spinge un passeggino nel suo quartiere di Gainesville, in Florida. Come mamma flĂąneuse, va alla ricerca di «schemi e narrazioni nelle genealogie di strutture e topografie architettoniche mentre simultaneamente tenta di individuare elementi di interesse per [suo] figlio». Gladdys afferma che «l’atto di portare a passeggio un bambino Ăš, in effetti, uno dei processi sociali per abitare e appropriarsi degli spazi pubblici» della cittĂ . Anche se sono d’accordo, direi che sebbene le mamme che spingono i passeggini siano invisibili a modo loro, di solito non vengono associate alla figura classica del flĂąneur10. E anche la flĂąneuse rivendicata abita ancora un corpo “normale”, capace di muoversi in modo impercettibile per le strade. Nessuno scrivendo di flĂąnerie menziona la donna incinta. Anche se non tutte le persone che vivono una gravidanza sono donne (si vedano ad esempio gli uomini trans), si tratta certamente di una condizione ricca di presupposizioni di genere. Se era giĂ  difficile immaginare la versione femminile del flĂąneur, allora l’idea di un flĂąneur incinta va probabilmente oltre ogni limite.
Un corpo pubblico
È impossibile mimetizzarsi quando il tuo corpo Ăš diventato improvvisamente proprietĂ  pubblica. Sebbene a noi donne capiti spesso di ricevere commenti e sperimentare contatti non richiesti, la gravidanza e la maternitĂ  elevano queste intrusioni a un nuovo livello. Avevo l’impressione che il mio ventre rigonfio fosse interpretato come un invito: accarezzami per favore! Si aspettavano che accogliessi con gratitudine qualsiasi tipo di consiglio non richiesto ed esprimessi l’appropriata dose di vergogna e rimorso per aver mancato di seguire la valanga di suggerimenti, spesso contraddittori, sul mangiare, bere, assumere vitamine, lavorare ecc. Non ero piĂč un individuo in grado di fare le proprie scelte; sembrava che queste fossero state date in appalto senza il mio consenso.
Tutto questo mi rendeva straordinariamente consapevole del mio corpo, e non in modo positivo. Se l’atteggiamento blasĂ© verso gli altri Ăš quello che ci permette di mantenere un certo grado di riservatezza in pubblico, la sua mancanza mi faceva sentire molto pubblica. Ero imbarazzata dalla visibilitĂ  della mia pancia che, in modo grottesco, catapultava la mia intimitĂ  biologica nella sfera pubblica civilizzata. Non volevo spiccare. Volevo nascondermi. Non stavo cercando di mascherare la mia gravidanza, ma ero assalita da un bisogno di pudore che nessuna rivendicazione femminista del mio corpo poteva compensare. Le mie amiche mi avevano sempre preso in giro per la quantitĂ  di top corti presente nel mio armadio, ma non sono mai riuscita a indossare una maglietta che mi lasciasse scoperta la pancia neanche all’inizio della gravidanza. Stavo cercando di alzare una barriera tra me e la moltitudine di estranei che si sentivano a loro agio nel toccarmi o nel fare commenti su di me? Ero afflitta dall’imbarazzo di essere un animale biologico tanto ovvio? Avevo inconsciamente abbracciato l’idea cartesiana per cui mente e spirito sono due entitĂ  separate e ora l’improvvisa assertivitĂ  del mio corpo mi faceva dubitare di tutto quello che sapevo di me stessa?
Ironicamente, poi, l’attrazione che gli estranei provavano per il mio corpo non si traduceva in una maggiore gentilezza urbana, piuttosto avvertivo costantemente un monito alla mia condizione “diversa”. Diversa e fuori luogo. Questo mi diveniva evidente soprattutto in metropolitana, quando di rado mi offrivano il posto a sedere nelle ore di punta. Gli uomini d’affari snob nascondevano intenzionalmente il viso dietro ai giornali facendo finta di non vedermi. Una volta cedetti il posto a una donna ancora piĂč incinta di me prima che qualcun altro si accorgesse di noi. Anna Quindlen racconta una storia simile sulla sua gravidanza a New York. Anche lei aveva offerto il posto a una donna che «sembrava sul punto di dover correre in ospedale». «Amo New York», scrive Quindlen, «ma Ăš una cittĂ  difficile per essere incinta. [
] A New York non esiste la privacy; sono sempre tutti in difficoltĂ  e si sentono tutti in dovere di dire cosa pensano»11. Chiunque sia stata incinta racconta storie di questo genere con un certo sarcasmo, come fossero vecchie storie di guerra, o riti di passaggio quando vivi una gravidanza in cittĂ . Come se ci fosse da aspettarselo per aver osato uscire di casa con quel corpo ingombrante e goffo.
I miei tentativi di tornare a essere una flñneuse ripresero dopo la nascita di Maddy. Se la infilavo in un porte-enfant dormiva per ore accoccolata contro il mio petto. Individuavo un percorso fino a un nuovo Starbucks sull’affidabile stradario London A-Z e correvo a concedermi un semplice piacere: un caffellatte e un diverso scenario. Queste pause nella faticosa routine quotidiana fatta di poppate, coccole e bagnetti mi appariva come un minuscolo spazio di libertà. Riuscivo quasi a ricordare com’era essere giovani in città, prima di avere un bambino.
A volte queste uscite andavano bene, a volte no. I miei tentativi di essere una mamma flñneuse venivano continuamente interrotti dalla disordinata biologia di un neonato. Luoghi che prima sentivo accoglienti e confortevoli ora mi facevano sentire estranea, un’aliena con il seno che gocciolava e un bambino rumoroso e puzzolente al seguito. È difficile interpretare il ruolo dell’osservatore distaccato quando i gesti corporei e corporali della genitorialità sono in bella mostra. Volevo essere indifferente a tutto questo, credetemi. Mentre Maddy sonnecchiava, potevo fingere di non essere a pochi secondi dalla successiva emergenza. Quando si svegliava affamata o doveva essere cambiata, mi precip...

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