La Svedese
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La Svedese

Giancarlo De Cataldo

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La Svedese

Giancarlo De Cataldo

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Roma non ha piĂș un padrone, ognuno puĂČ prenderne un pezzo. Lei lo ha fatto. Era una ragazza di borgata come tante, con sogni nemmeno troppo grandi. Poi ha afferrato un'occasione, ed Ăš diventata la Svedese. Sharon, detta Sharo, poco piĂș di vent'anni, bionda, alta, magra, la faccia sempre imbronciata; non una bellezza classica, eppure attira gli uomini come il miele le mosche. Vive in periferia con la madre invalida e ha bruciato un bel po' di lavoretti precari sempre per la stessa ragione: le mani lunghe dei capi. Poi una misteriosa consegna portata a termine per conto del fidanzato, un piccolo balordo, cambia la sua esistenza. Con la protezione di un annoiato aristocratico, Sharo inizia la sua irresistibile ascesa criminale. Ma la mala che conta, quella che controlla il mercato della droga, si accorge di lei e comincia a tenerla d'occhio, a guardarla con rispetto, con timore, con odio. LĂ­, in quell'ambiente, nella zona oscura della cittĂ , nessuno la chiama piĂș con il suo nome. Per tutti Ăš la Svedese.«A mano a mano che la mezzanotte si avvicinava, la foresta dei tetti si andava popolando di gente, e dall'orizzonte si intensificavano i bagliori e cresceva lo scoppiettante concerto dei botti. Le autoritĂ  avevano vietato di sparare, e Roma tutta sparava; le autoritĂ  avevano vietato gli assembramenti e le terrazze brulicavano di umanità».

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Informations

Éditeur
EINAUDI
Année
2022
ISBN
9788858439968

XXVIII.

Entrarono nel palazzo poco prima di mezzanotte. Dall’ingresso principale. La strada era deserta, cadeva una pioggerellina improvvisa, da qualche finestra aperta filtravano la luminescenza dei televisori e il suono ovattato di un allegro battibecco di voci. Il Motaro non credeva ai suoi occhi.
– Ma allora ù vero che c’hai le chiavi! E te l’ha date ’sto principe!
– Te l’avevo detto.
– Me sei sicura che nun ce sta nessuno?
– Ho telefonato dieci volte, stai sereno.
– Certo che ’sto principe ù proprio matto! E tu manco ce sei annata a letto?
– Motaro, t’ho detto de statte zitto, va bene?
E cosí la Svedese non mentiva. Diciamo che erano ospiti non previsti, ma comunque non intrusi. C’ho una cosa mia da riprendere, ù tutto a posto, aveva detto. Quasi quasi toccava crederle.
Una casa cosĂ­ il Motaro non l’aveva mai vista. Manco nei video della trap, dove pure abbondavano arredi e simboli del lusso. Intuiva, senza poi rendersene pienamente conto, che quei mobili, i divani, le statue, i quadri, i ninnoli, i marmi, le maioliche, le fotografie nelle cornici ovali, non erano che lontani parenti della roba che, per dire, si comperavano tipi come l’Aquilotto o Jimmy. Questa era una ricchezza di genere diverso. Metteva soggezione. Spaventava persino. Con lo zainetto che portava a tracolla, urtĂČ sbadatamente un gattino di cristallo. Cadde su un tappeto, con un rumore sordo.
– E sta’ attento!
– Nun l’ho fatto apposta, Sharo!
Si chinĂČ e raccolse l’oggetto. Si era scheggiato da un lato. Pazienza. Lo posĂČ su un tavolino, fra una teiera e una specie di vaso cinese, poi ci ripensĂČ e lo mise nello zaino. Anche se mezzo rovinato, qualcosa ci si poteva tirare su. Sharo non se n’era accorta. Andava dritta per la sua strada. Con una noncuranza che metteva invidia. E si vede che c’era abituata. Be’, a lui stavano venendo altre idee. Tipo, fargli uno sfregio qua, un taglietto là
 cominciava a capire quei ladroni che dopo aver fatto lo sgobbo in certe case lasciavano un ricordino solido e puzzolente
 era un modo di dire: ma chi cazzo ti credi di essere, eh? Io so’ passato de qua e te lo faccio sapere, t’ho fatto piagne, sta bene? Ma se si fermava davanti a qualche brutta faccia di vecchia di trecento anni prima dipinta con un cane pieno de pulci in braccio, Sharo lo tirava via, nervosa e imperativa.
Lui a Sharo ci teneva, chiaro. Gli era entrata dentro sin dalla prima volta che si erano incontrati. Una pischella linda e pinta di sedici anni con l’aria della studentessa seria, ma dentro agli occhi si leggeva quel fuoco
 il Motaro aveva allungato le mani, e si era beccato uno schiaffone. Lei non poteva ricordarselo perchĂ© era carnevale, e lui portava una maschera da teschio. PerĂČ l’aveva capita. Con lei non dovevi scherzare. Mo’ stavano sotto a quel pecoraio di Jimmy, ma dalle tempo, alla Svedese
 E il principe? ChissĂ  che storia c’aveva veramente, co’ ’sto principe. Dice che gli piacevano i maschi e quindi non c’era stato niente di serio. Il Motaro ci credeva e non ci credeva. Che, si lasciano le chiavi di casa cosĂ­ a una che te porta la roba
 perchĂ© era di questo che si trattava, in fondo

– Secondo te mi assomiglia?
La domanda di Sharo lo distolse dai suoi pensieri. Era ferma davanti a una specie di busto, sembrava un mezzo manichino di quelli che al centro commerciale ci mettono sopra i cappelli e altre cose di donne. A guardare meglio, era una statua. Con dei capelli curiosi, e dietro uno sbrego sulla schiena, come se portasse un costume da animale.
– A te? ’Sta cosa? E chi lo dice?
– ’Sta cosa si chiama Lamia, – spiegĂČ lei, con un certo disprezzo.
– E che nome sarebbe? Che, ù ebrea?
– È una donna-serpente. Roba dell’antica Grecia.
– Davero? Me pare Batman vestito da donna! Comunque
 Piacere, Lamia, io so’ Luca, ma me chiamano Motaro, – scherzĂČ lui, – me dispiace, Lamia, ma secondo me con la Svedese tu non c’entri proprio niente, e lei Ăš molto, molto mejo de te

A Sharo scappĂČ un sorriso. Il Motaro, Fabio
 le voci del suo mondo
 qui, nella dimora principesca
 com’era tutto stonato, fuori fase

– Ammazza quanto pesa!
– Rimettila giĂș, Mota’.
– Sharo, magari vale un sacco di soldi. Se vuoi, ce la portiamo.
– È una copia, non vale la pena.
– Se lo dici tu

– Andiamo, va’.
– E che fretta c’ù? C’amo le chiavi, il principe ù amico tuo, nun c’ù furto, nun c’ù danno

– Non ù una visita di cortesia. Prendiamo quello che ci serve e ce ne andiamo.
Il Motaro rinunciĂČ a obbiettare. Dopo tutto, il capo della spedizione era lei. Scesero attraverso una scala interna. Il Motaro si aspettava una cantina o qualcosa di simile, e invece era un altro appartamento, anche questo arredato a puntino. C’era una sala grande con una ventina di poltrone e uno schermo – morte’, il cinema in casa! – e una specie di taverna con un camino e un grosso tavolo da biliardo. Sharo si diresse alla rastrelliera, tirĂČ una stecca, svelando un pannello mobile che occultava una piccola cassaforte. Il Motaro non credeva ai suoi occhi. Manco l’ultima serie co’ Arsenio Lupin! Ma le sorprese non erano finite. Il Motaro cominciava a chiedersi come avrebbero fatto a forzare la serratura, quando Sharo, in pochi secondi, aprĂ­ la cassaforte.
– Ma che, sapevi pure la combinazione?
– Prendi.
Senza degnarsi di rispondere, Sharo gli passĂČ un fascio di banconote.
– Sharo, a occhio e croce saranno

– Conta.
Il Motaro obbedĂ­. Erano tutti tagli da cento, duecento e cinquanta euro.
– So’ quindici sacchi

Sharo, sempre china nel vano della cassaforte, prese altre banconote, le contĂČ e poi le porse al Motaro.
– Con queste fanno venti.
Le banconote andarono a raggiungere il gattino di cristallo. Il Motaro sbirciĂČ da sopra le spalle di lei.
– Sharo, là dentro ce stanno almeno altri venti testoni.
– E allora?
– E quelle so’ bocce de «Gina».
– Lo vedo da me, Motaro.
– Voglio dire, visto che se trovamo

– Non se ne parla. Abbiamo preso quello che ci serviva. I venti per Jimmy e basta cosí.
– Ma perchĂ©?
– PerchĂ© sĂ­, e mo’ piantala di rompere.
Ma lui non se ne dette per inteso. Le girĂČ intorno, tuffĂČ le mani nel vano della cassaforte, arraffĂČ un’altra manciata di banconote e una boccia di «Gina» e depositĂČ il tutto nello zainetto.
– Ma sei scemo? Rimetti a posto, Mota’!
– Daje, Sharo: questa nun ù roba tua che ti stai riprendendo

– Cambia qualcosa? È un prestito! Prendo quello che mi serve e appena posso lo restituisco.
– Ma famme ride! – E qui lui si fece serio, o almeno cercĂČ di sembrarlo. – Prestito! Qua stamo a ruba’
 io nun ce credo che ’sto principe la prende a scherzo
 Ăš tanto se non chiama le guardie

– Non lo farà. Rischia troppo.
– È uguale, Sharo. Dopo stasera, col principe hai chiuso. E allora tanto vale portasse avanti col lavoro, no?
Con la sua ruvida logica da coatto, il Motaro la stava riportando alla realtĂ . Ma sĂ­, ma che si credeva, povera Svedese! Il principe si sarebbe sentito tradito. Il Motaro non aveva tutti i torti. Eppure, ancora esitava.
– Che poi, – il Motaro incalzava, eccitato, – ripaghiamo Jimmy, e con quello che avanza e tutta ’sta «Gina» possiamo alzare altri venti-venticinque sacchi solo per noi
 cambiamo zona, lassamo perde’ le Torri
 l’hai sempre detto, no, che le Torri te fanno schifo

– Il ragionamento del tuo amico non fa una piega, Svedese

La voce del principe suonava beffarda, con un fondo di amarezza. Sharo l’aveva riconosciuta subito. Mentre il Motaro si girava, fra lo spaventato e lo sbigottito, lei se ne restĂČ ostinatamente di spalle, fissando la cassaforte aperta.
– Oh, – strillĂČ il Motaro, – fa’ piano cor cannone, a coso!
– Ti sei portata appresso la guardia del corpo, Sharo? – ancora il principe, tagliente, questa volta.
Lei si voltĂČ con lentezza. Il principe era su una sedia a rotelle. Indossava un kimono di seta azzurra. Accanto a lui c’era Renzino, maglietta nera e jeans. E un fucile puntato contro il Motaro.
– Oh! Ma io te conosco! Tu sei quello della televisione che Ăš venuto alla festa der Tovaja
 – sbottĂČ il Motaro. – Ma che niente niente

– Sí, sono io il famigerato principe. Complimenti per la memoria
 ma vorrei essere lasciato solo con la mia amica Svedese, se possibile.
Renzino agitĂČ il fucile, indicando la direzione della sala di proiezione. Il Motaro si avviĂČ.
– Le consiglio di non azzardare pericolose iniziative, – ammoní il principe, rivolto al Motaro. – Renzino viene dai corpi speciali, ha un’ottima mira e credo che non gli dispiacerebbe darvene concreta dimostrazione
 vi raggiungeremo fra qualche minuto nel salottino della Lamia.
Renzino scortĂČ il Motaro, annuendo. Per un istante il suo sguardo sarcastico incrociĂČ quello della Svedese. Lei non riuscĂ­ a sostenerlo. Il principe girĂČ la carrozzina e le fece segno di sedere su una delle poltroncine davanti al camino.
– Sta male, principe? – domandĂČ Sharo.
– Una recrudescenza di un problema che credevo di essermi lasciato alle spalle. Ma niente di irrimediabile, spero. Allora, Svedese

– Non avevo scelta, principe. Per me ù diventata una questione di vita o di morte.
– Una scelta c’ù sempre, Sharo. Bastava chiedere. Ti avrei dato tutto ciĂČ che ti serviva.
– Chiedere? E a chi? AvrĂČ telefonato cento volte, non risponde mai!
– Esistono i messaggi, cara. Principe, mi servono
 quanto ti serve, esattamente?
– Ventimila.
– Ecco. Mi servono ventimila, potrebbe aiutarmi? Ti avrei risposto subito.
Ora che lo osservava meglio, si rendeva conto di quanto fosse sciupato, sofferente. Quella magrezza, quelle grinze sul volto
 No, non aveva pensato a lasciare un messaggio, perĂČ lui non l’aveva mai richiamata. Se c’era un legame fra loro, perchĂ© lo aveva interrotto? Era stato lui a interromperlo!
– PerchĂ©, stava sempre col telefono attaccato all’orecchio?
– Aspettavo un tuo segnale, Sharo.
Ah, ecco. Aspettava il segnale. Ah, ecco come stavano le cose. L’aveva osservata, studiata, e infine l’aveva presa in trappola. Se era vero quanto le stava dicendo – e non c’era motivo di dubitarne – per tutto quel lungo silenzio era sempre stato al corrente dei suoi tentativi di mettersi in contatto. L’aveva lasciata fare, senza mai manifestarsi. Aspettava un segnale, chiaro. E il segnale era arrivato. Era l’irruzione con Motaro. Quello era il segnale. Sharo capí che si era trattato di una specie di prova d’esame. Faceva tutto parte di un disegno programmato: Lamia, Pigmalione, le chiavi di casa, la combinazione...

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