L’Antropocene resiliente
di Piero Pelizzaro
Sedetevi, caricate su youtube Biophilia di Bjork e proviamo ad entrare dentro la nuova era geologica che stiamo vivendo senza saperlo dal 1950, l’Antropocene.
In due recenti studi pubblicati su Science e The Antropocene Review, si afferma che il tasso di degrado ambientale dovuto all’attività umana ha attraversato diverse soglie che stanno destabilizzando l’ecosistema della Terra.
In parole semplici, a partire dagli anni 50 del Novecento, il nostro Pianeta è entrato in una nuova era, denominata Antropocene, a causa della “Grande Accelerazione” dell’attività umana, soprattutto quella economica, che rappresenta la causa principale del cambiamento del sistema Terra, inteso come somma dei processi fisici, chimici, biologici ed umani in interazione tra loro.
“Nel giro di una generazione - afferma il Professor Will Steffen dello Stockholm Resilience Centre che ha guidato il progetto - l’umanità è diventata una forza geologica su scala planetaria”.
Entrambi i documenti sono stati elaborati dallo stesso Will Steffen, dall’Università di Stoccolma e dall’Australian National University, Canberra. Sono il risultato di uno sforzo internazionale, con contributi scientifici da Australia, Canada, Danimarca, Germania, India, Kenya, Paesi Bassi, Sud Africa, Svezia e Stati Uniti.
Le relazioni sono una raccolta di dati raccolti da decine di istituzioni e da centinaia di ricercatori negli ultimi cinque anni, e sono stati presentate a Davos durante il World Economic Forum.
A differenza di molti studi ambientali, che si concentrano esclusivamente su un singolo argomento (ad esempio, il riscaldamento globale e l’inquinamento marino), la squadra di Steffen rivolge al Pianeta uno sguardo più ampio, valutando gli impatti dell’attività umana, utilizzando il concetto di “confini planetari”, introdotto nel 2009. Una serie di 24 indicatori globali, denominata “ planet dashboard”: dodici descrivono le attività umane, come per esempio la crescita economica (PIL), l’incremento demografico, le telecomunicazioni, il consumo di energia e dell’acqua, i trasporti; gli altri dodici mostrano le variazioni nelle principali componenti ambientali del sistema Terra, per esempio, il ciclo del carbonio e dell’azoto, la biodiversità.
Questa dashboard mette in evidenza come le traiettorie della Terra e dello sviluppo umano possano ora facilmente correlate.
Durante entrambi gli studi, la linea di base per quello che è considerato un ambiente stabile è la condizione media del clima e altri processi geologici negli ultimi 11.700 anni (l’Olocene, epoca in termini geologici)..
Utilizzando questo schema, è possibile prioritizzare ogni processo, riconoscendo come alcuni cambiamenti nell’ambiente globale siano più critici di altri. In ordine di importanza, le più recenti interpretazioni di nove confini planetari sono il cambiamento climatico, l’integrità della biosfera (perdita di diversità genetica e l’estinzione delle specie), la riduzione dell’ozono stratosferico, l’acidificazione degli oceani, i flussi biogeochimici (azoto e fosforo cicli), terra-system cambiamento (come la deforestazione), l’uso di acqua dolce, atmosferico aerosol carico (inquinamento atmosferico), e l’introduzione di nuovi soggetti (materiali radioattivi, plastica).
La ricerca mostra che dei nove confini planetari, quattro sono stati ora attraversati a causa delle attività umane: il cambiamento climatico, l’integrità della biosfera, la variazione della destinazione d’impianto e i flussi biogeochimici.
“Quando abbiamo messo insieme tutti questi dati, ci aspettavamo di vedere grandi cambiamenti - continua Steffen durante la presentazione del report al World Economic Forum - ma quello che in realtà ci ha sorpreso sono state le tempistiche. Quasi tutti i grafici mostrano lo stesso schema. I cambiamenti più drammatici si sono verificati a partire dal 1950. È questo l’inizio della Grande Accelerazione. Da allora si nota che i grandi cambiamenti del sistema Terra si possono direttamente collegare ai cambiamenti in gran parte legati al sistema economico globale. Si tratta di un fenomeno nuovo ed indica che l’umanità ha una forte responsabilità a livello globale per il pianeta”.
I risultati dello studio evidenziano come negli ultimi decenni i fattori-chiave del sistema Terra sono andati al di là della variabilità naturale avutasi negli ultimi 12mila anni, periodo che gli scienziati chiamano Olocene, iniziato alla fine dell’era glaciale. Il documento sostiene che la maggior parte delle attività economiche e, di conseguenza, dei consumi, si ha nei Paesi dell’Osce, che nel 2010 rappresentavano circa il 74% del PIL mondiale, ma solo il 18% della popolazione terrestre. Questo indica la profonda disuguaglianza su scala globale, che distorce la distribuzione dei benefici della Grande Accelerazione e confonde gli sforzi internazionali, come gli accordi sul clima per esempio, per affrontare il suo impatto sul sistema Terra. Tuttavia lo studio mostra anche che di recente la produzione globale si sta spostando verso il gruppo BRICS, Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, con una forte ascesa delle classi medie. Circa la metà della popolazione mondiale vive in aree urbane e circa un terzo ha completato il passaggio da società agraria ad industriale. La maggior parte della crescita dopo il 2000 si è avuta nel consumo dei fertilizzanti, nella produzione della carta e dei veicoli a motore, verificandosi nei Paesi al di fuori dell’Osce.
In un commento alla Scripps Institution of Oceanography, Steffen ha osservato che “il superamento del confine aumenta il rischio che le attività umane potrebbero inavvertitamente guidare il sistema della Terra in uno stato molto meno ospitale, danneggiando gli sforzi per ridurre la povertà e portare ad un deterioramento del benessere umano in molte parti del mondo, compresi i Paesi ricchi. In questa nuova analisi, abbiamo migliorato la nostra quantificazione di dove sono collocati questi rischi”.
Dallo studio presentato a Davos risulta chiaro come il sistema economico ci sta portando verso un futuro non sostenibile e le generazioni futuri si troveranno sempre di più in difficoltà. La storia ha già dimostrato come se le civiltà si sviluppano attaccate ai loro valori fondamentali senza cambiare, poi crollano. Ecco, noi oggi siamo nella stessa situazione.
Parte della risposta ai cambiamenti geologici lo ritroviamo proprio in Biophilia. Nel meraviglioso progetto musicale della cantante islandese ritroviamo l’amore per la natura intatta in un percorso che parte dagli astri e finisce negli atomi: sebbene tutte le canzoni siano in prima persona, Björk cerca metafore per le relazioni umane nel discorso scientifico o viceversa, il rapporto tra virus e organismo ospite, la “battaglia magnetica” delle placche tettoniche per raggiungere l’unione. L’uomo, il capitale, la natura: un legame che chiede sostenibilità e resilienza.
Gli scenari d’impatto
di Stefano Caserini
“Global warming is here”, “il riscaldamento globale è qui”, queste le parole di James Hansen, uno dei più grandi climatologi viventi. Era l’estate del 1988, Washington era oppressa da una calura insolita, i termometri registravano da mesi dati record negli USA.
La testimonianza di Hansen alla Commissione Ambiente ed Energia del Senato degli Stati Uniti passò alla storia perché il climatologo pronunciò parole inequivocabili, abbandonando le precisazioni e i distinguo tipici degli scienziati: “È ora di smettere di chiacchierare e riconoscere che l’evidenza è chiara, questi sono i segni del riscaldamento globale”. Davanti a una buona parte di senatori stupiti, Hansen delineò un quadro preoccupante di quello che poteva essere lo scenario dei successivi decenni.
A quasi 30 anni di distanza, si può dire che Hansen aveva visto giusto. Quanto paventato si è realizzato: le temperature sono aumentate, le ondate di calore sono diventate più frequenti e le precipitazioni più intense, il mare si sta alzando e i ghiacciai stanno fondendo. Anzi, lo stesso Hansen il 4 agosto del 2013, in un editoriale sul Washington Post, ha scritto “ero stato ottimista”.
Il riscaldamento globale è ormai diventata la grande questione ambientale del XXI secolo: sono diventate consuetudine le dichiarazioni preoccupate e gli inviti all’azione. Ne sono arrivati dal Segretario Generale dell’ONU, Ban-Ki Moon, dal Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, da Papa Francesco. Si è ormai diffusa la sensazione che il tempo dei tentennamenti sia finito: se non si interviene riducendo rapidamente e con decisione le emissioni dei gas climalteranti aumenteranno i rischi di impatti molto pericolosi per le attività umane. E, nel frattempo, è necessario gestire gli impatti in corso.
La scienza del clima negli ultimi anni ha eliminato gli alibi sulle cause del riscaldamento in atto 1, attribuendo alle attività umane, in particolare all’uso di combustibili fossili, le responsabilità principali e indicando come minore il ruolo dei fattori naturali (la variabilità della radiazione solare): la comunità scientifica considera molto elevata la probabilità che in questo secolo la Terra dovrà fronteggiare cambiamenti climatici molto pericolosi per le persone e gli ecosistemi che la abitano. Numerosi documenti hanno confermato il consenso scientifico su questo tema: rimanendo ai più recenti, è possibile citare il “Quinto rapporto di valutazione” dell’ Intergovernmental Panel on Climate Change 2, l’organismo ONU che periodicamente effettua una sintesi della letteratura scientifica disponibile e a cui collaborano volontariamente migliaia di scienziati.
L’imponente sintesi dei dati e delle spiegazioni scientifiche offerte nei suoi rapporti dall’IPCC offre un quadro sempre più coerente, in cui, nonostante inevitabili incertezze, emergono diversi punti fermi, che possono essere così sintetizzati:
Primo. Le attività umane emettono ingenti quantità di CO 2 dalla combustione di carbone, petrolio e gas, nonché di altri gas serra quali metano, protossido di azoto e gas fluorurati. Le emissioni sono in grado di sbilanciare i cicli naturali di questi gas e il risultato è il loro accumulo nell’atmosfera: per trovare livelli così elevati di questi gas bisogna risalire addirittura a qualche milione di anni, ben prima della comparsa sulla Terra di Homo sapiens.
Secondo. L’aumento dei gas serra in atmosfera altera il bilancio energetico del pianeta e genera un aumento della temperatura media del pianeta, direttamente o per effetto di meccanismi di feedback (per esempio l’aumento di vapore conseguente a un aumento di temperatura). L’aumento delle temperature medie globali già registrato nell’ultimo secolo, circa 1°C (Figura 1), è il più consistente registrato negli ultimi due millenni.
Terzo. Se nei prossimi decenni non ci saranno consistenti riduzione delle emissioni dei gas serra, le temperature aumenteranno di altri 3-4°C, generando estesi cambiamenti climatici quali l’aumento delle ondate di calore, dei periodi siccitosi, delle tempeste, nonché l’innalzamento del livello del mare a causa della deglaciazione di parti importanti delle calotte polari.
Quarto. I cambiamenti climatici stanno già avendo, e ancor di più avranno in futuro, rilevanti impatti sugli ecosistemi e sulle attività umane, in particolare sulle persone più povere. Sono necessarie azioni di adattamento ai cambiamenti climatici, per gestire gli impatti inevitabili, e azioni di mitigazione, per evitare gli impatti ingestibili, tramite la riduzione delle emissioni di gas serra.
Quinto. Per avere buone probabilità di contenere l’aumento delle temperature globali a non più di 2°C rispetto ai livelli preindustriali (circa 1°C in più rispetto ai livelli del 2015) è necessario lasciare sottoterra tre quarti dei combustibili fossili disponibili e che potrebbero essere utilizzati nei prossimi anni, nonché fermare la deforestazione.
Figura 1
Variazioni delle temperature globali (°C) nel periodo 1880-2015 (media mobile su 11 anni vicini, anomalie rispetto alla media del periodo 1880-1909) Fonte dati: NASA-GISS 2016 3 ; ISAC-CNR, 2016 4
Gli impatti già registrati
Negli ultimi decenni i cambiamenti climatici hanno già causato impatti sui sistemi naturali e umani in tutti i continenti. Numerosi testi scientifici forniscono analisi dettagliate delle diverse tipologie di impatti già registrati e attesi nelle diverse aree geografiche, analisi riassunte periodicamente nel secondo dei tre volumi di cui sono composti i rapporti IPCC, il volume intitolato “ Impacts, Adaptation, and Vulnerability”.
Anche se molti effetti sono difficili da distinguere a causa della naturale variabilità e capacità di adattamento dei sistemi stessi, nonché per la presenza di fattori non climatici, le prove del riscaldamento globale sono distribuite in varie regioni del mondo, e sono più forti e più complete per i sistemi naturali: molte specie terrestri, di acqua dolce e marine hanno spostato i loro limiti geografici e le abitudini migratorie in risposta al cambiamento climatico in corso. La rapidità degli attuali cambiamenti rende più difficile l’adattamento naturale delle specie; mentre fino ad ora pochi casi di estinzioni di specie sono stati attribuiti direttamente al cambiamento climatico, i cambiamenti naturali del clima occorsi negli scorsi milioni di anni, pur se a ritmi più lenti rispetto agli attuali di origine antropica, hanno comunque causato significativi cambiamenti degli ecosistemi e un aumento dei ratei di estinzione delle specie. Va ricordato che gli aumenti delle temperature possono essere molto diversi da quello globale, stimato come media dell’aumento delle superfici terrestri e marine; su aree più limitate, o in singole stagioni, gli aumenti possono essere maggiori o minori, perché il riscaldamento non è stato e non sarà uniforme. Secondo l’IPCC è probabile il riscaldamento del pianeta sarà maggiore sulle terre emerse rispetto agli oceani, maggiore ai poli rispetto alle zone tropicali, e sarà maggiore nelle regioni già aride.
L’Italia, come molte terre emerse, si è già riscaldata di circa 1,8°C rispetto al periodo pre-industriale, circa il doppio della media globale, come si nota nella figura a pagina 19.
In molte regioni del pianeta le modifiche nelle precipitazioni piovose e nevose, o nella consistenza dei ghiacci montani, stanno provocando alterazioni nei sistemi idrologici, impattando sulla qualità e quantità delle risorse idriche. I ghiacciai si sono ridotti quasi in tutto il pianeta e la diminuzione stagionale estiva della banchisa artica sta aumentando. L’estensione minima del ghiaccio marino artico si raggiunge a settembre, in corrispondenza della fine dell’estate nell’emisfero Nord; a settembre 2012 l’estensione minima è stata di 3,4 milioni di kmq, si è persa una superficie di almeno 4 milioni di kmq, 13 volte la superficie dell’Italia.
Per le società umane, gli impatti dei cambiamenti climatici aggravano altri fattori di stress, con effetti più negativi per le persone più povere, più vulnerabili.
In particolare, eventi estremi quali ondate di calore, siccità, inondazioni, nubifragi e incendi boschivi hanno già mostrato impatti diretti sulle condizioni di vita, la riduzione delle rese agricole, la distruzione di abitazioni e infrastrutture; ma anche indiretti in termini di aumento dei prezzi alimentari e l’insicurezza alimentare.
Pur se l’aumento delle concentrazioni di CO 2 e delle temperature può teoricamente favorire le produzioni agricole alle alte latitudini, secondo l’IPCC gli impatti negativi sulle coltivazioni sono stati, a scala globale, più comuni di quelli positivi.
Gli impatti attesi per il futuro
Mentre la realtà del riscaldamento globale è ormai evidente e oggi è sempre meno messa in discussione, maggiori margini di incertezza ci sono sull’entità del riscaldamento atteso per il futuro, sulla sua distribuzione spaziale e sui conseguenti impatti a scala locale. L’entità del riscaldamento futuro dipende dalla quantità di gas serra che saranno immessi nell’atmosfera nei prossimi decenni; richiede quindi di effettuare valutazioni “di scenario”, ossia valutare possibili risposte del sistema climatico in corrispondenza ad ipotetici scenari di evoluzione delle emissioni delle sostanze climalteranti.
Il Quinto Rapporto IPCC, che ha sintetizzato il risultato di centinaia di simulazioni modellistiche sulle proiezioni delle temperature nei prossimi secoli realizzate da numerosi gruppi di ricerca in tutto il mondo, ha chiarito la grande portata dei cambiamenti climatici possibili per il futuro: negli scenari senza consistenti riduzioni delle emissioni, già a fine secolo l’aumento delle temperature medie globali rispetto al periodo preindustriale raggiunge i 3-4°C, proseguendo ulteriormente nei secoli successivi (Figura 2). Si tratta di variazioni che non hanno paragoni con le variazioni di temperature avvenute non solo in tutto l’Olocene (gli ultimi 11.000 anni circa in cui si sono sviluppate le attività umane), ma anche con quanto conosciuto nella sua storia da Homo Sapiens. L’aumento delle temperature medie comporterà un aumento della frequenza e della durata delle “ondate di calore”, ossia i periodi con temperature nettamente più alte della media, particolarmente sentite negli agglomerati urbani. 5
Un maggiore riscaldamento aumenta la probabilità di effetti gravi, diffusi e irreversibili. Alcuni rischi del cambiamento climatico sono rilevanti già per aumenti di temperature di 1°C o 2°C al di sopra dei livelli preindustriali. Con aumento della temperatura media globale di 4°C o più, gli studi disponibili indicano impatti gravi e diffusi sugli ecosistemi più pregiati, un sostanziale aumento dei tassi di estinzione di specie, rischi rilevanti per la sicurezza alimentare globale e regionale, nonché la compromissione, per l’effetto combinato dell’elevata temperatura e umidità, di numerose normali attività umane, tra cui la coltivazione di cibo o il lavoro all’aperto in alcune aree e parti dell’anno.
Figura 2
Proiezione dell’aumento delle temperature globali (rispetto alla media 1986-2005) dei modelli del progetto CMIP5, in uno scenario con elevate riduzioni delle emissioni (RCP2.6), in due scenari con riduzioni intermedie (RCP4.6 e 6.0.) e in uno scenario senza riduzioni (RCP8.5). Fonte: IPCC 2013 (Fig. 12.5)
Impatti non uniformi
Gli impatti futuri dei cambiamenti climatici varieranno notevolmente a seconda delle regioni, non saranno distribuiti uniformemente. Non è solo una questione geografica: i Paesi più ricchi saranno più in grado di godere dei benefici e meno vulnerabili ai danni, perché meno densamente popolati e con più risorse per prevenire e per adattarsi. Viceversa, i Paesi più poveri saranno più colpiti, perché affidando più direttamente la loro sussistenza alle produzioni agricole saranno più esposti e sensibili alle variazioni delle temperature e dei cicli idrologici.
Il volume del Quinto Rapporto IPCC ha dettagliato gli impatti attesi per il futuro in 30 capitoli, sia con analisi settoriali (su risorse idriche, sistemi costieri, oceani, sicurezza alimentare, aree urbane, aree rurali) che con focus geografici (sui continenti e su aree a rischio come le piccole isole e le zone polari).
Per le aree urbane, secondo l’IPCC c’è una confidenza molto alta, basata su numerose fonti e un elevato accordo fra queste, che “i rischi legati al cambiamento climatico urbano sono in aumento (tra cui l’innalzamento del livello del mare e le mareggiate, lo stress da calore, le precip...