Capitolo 1
LA DIAGNOSI IN PSICHIATRIA E PSICOLOGIA CLINICA
1.1 LA DIAGNOSI
Con il termine diagnosi si fa abitualmente riferimento al processo volto alla rilevazione e alla descrizione di una serie di fenomeni riconosciuti come patologici.
Come suggerito dalla etimologia stessa della parola (dal greco diagnosis, diagnosis, “conoscere attraverso”), il momento diagnostico dell’esame clinico richiede l’utilizzo di strategie e strumenti finalizzati alla valutazione dello stato di salute o malattia del paziente, al fine di specificare quale combinazione nota di sintomi e segni meglio si adatta al caso in esame. In medicina, la fase diagnostica è classicamente definita come un “Processo logico con cui il medico definisce l’esistenza e la natura della malattia e le condizioni del paziente…” (Enciclopedia Universale Rizzoli).
Per ciò che concerne in particolare la psichiatria e la psicologia clinica, tale definizione del processo diagnostico rende immediatamente necessaria una serie di considerazioni di carattere sia teorico che metodologico. Per esempio, vi sono dei problemi nell’applicare tout court l’approccio medico classico, pur ricercato e utilizzato da almeno una parte della psichiatria nella rilevazione dei segni obiettivi della patologia psichica. In effetti, il processo diagnostico e l’intervento medico possono spesso avvalersi di sintomi “chiari” e segni oggettivi di malattia, che consentono la formulazione di specifiche ipotesi diagnostiche ed eziopatogenetiche, a loro volta confutabili o meno tramite l’utilizzo di particolari indagini sperimentali e di laboratorio. Lo sforzo perché questo avvenga anche per le malattie mentali e per i disturbi del comportamento è uno dei propositi più antichi della medicina ed ancora in atto. I risultati però, nonostante diverse importanti scoperte degli ultimi decenni, non hanno portato, nella pratica clinica quotidiana di psichiatri, psicologi clinici e psicoterapeuti, sostanziali modifiche della prassi. Questo, ovviamente, a causa del fatto che in psichiatria, i sintomi e i segni della patologia sono per lo più costituiti da risposte “comportamentali”, molte delle quali interne, il cui carattere obiettivo è maggiormente sfumato e il cui valore discriminativo risulta più “relativo”. Infatti, mentre nell’e-same obiettivo medico molti dei segni e sintomi rilevati sul paziente sono indicativi di talune patologie e obiettivamente diversi da ciò che si osserva in un soggetto sano di qualsiasi razza o cultura, molti dei dati raccolti nella diagnosi clinico psicologica, possono acquistare un significato differente a seconda della storia del singolo caso e della combinazione di diversi fattori fisici, culturali, ambientali, legati alle tradizioni, ecc.
Il problema della valutazione si pone perciò in modo più articolato in psichiatria e psicologia clinica rispetto alla medicina e, praticamente da sempre, è risultato di non facile soluzione nonostante il moltiplicarsi degli approcci teorici sia in clinica psichiatrica che in psicoterapia. In particolare, vi è ancora una certa confusione sugli ambiti caratteristici delle due discipline: la psichiatria e la psicologia clinica, che assai spesso vengono visti come sovrapposti, in altri casi, invece, come contrapposti. Può essere almeno in parte d’aiuto in questo caso l’etimologia:
- Psicologia, dal greco: psychè (ψυχή) = spirito vitale, anima; logos (λόγος) = discorso, e quindi, discorso e studio dell’anima, dello spirito
- Clinica, dal greco: klinikόs (κλινικός), da klìne (κλίνη) = letto, ovvero che si fa presso il letto del malato, della persona sofferente
- Psicopatologia, dal greco: psychè (ψυχή) = spirito vitale, anima e pàthos (πάθος) = passione, sofferenza e logos (λόγος) = discorso, studio, e quindi studio del disturbo dell’anima, dello spirito
- Psichiatria, dal greco: psychè (ψυχή) = anima e iatreìa (ιατρεία) = medicina, cura diretta delle malattie dell’anima, dello spirito.e
- Psicoterapia, dal greco: psychè (ψυχή) = anima e therapeia (therapeia), ovvero terapia nel senso della assistenza e cura, dell’avere cura di una persona, che quindi non è necessariamente “malata”, da theraps con significato di compagno che assiste e aiuta e dal verbo ther con significato di sostenere, tirar su (anche di morale)
Quindi, una valutazione e assistenza ed un prendersi cura della persona che soffre per una qualsiasi ragione o disturbo per la psicologia clinica, sino al letto del malato o della persona sofferente, un trattamento o cura per le persone con malattie della mente per la psichiatria anche se questa definizione può essere vista in modo ancora più ampio prendendo spunto dall’etimologia.
Il termine greco psiché (psiche), infatti, era utilizzato con il significato di anima che respira e spirito (il termine italiano “anima” deriva dal Latino anima, che, a sua volta, proviene dal Greco “ànemos”, sempre con significato di “vento, soffio”1. Per estensione, quindi, l’assistenza psicologica può essere stesa a tutto l’“animus” ovvero all’individuo, all’essere vivente e quindi chi cura le malattie, comprese quelle della mente, non potrà che tenere conto che il disturbo proviene da un organismo un “animus” e non solo come in certi credi religiosi di un soggetto dotato di anima ma di una anima di per sé laicamente identificabile con l’intero individuo e quindi non potrà ne dovrà prescindere da questo.
Non vi è certo la pretesa che questi riferimenti all’origine dei termini risulti esaustivo per una materia così complessa, ma sicuramente offrono un chiaro spunto per chiarire e delimitare i campi di interesse e di intervento che tra psicologia clinica, psichiatria e psicoterapia, possono, almeno in parte, a sovrapporsi. In ogni caso, già prima dell’avvento delle cosiddette terapie integrate (farmacologiche e psicologiche) varie istituzioni scientifiche, cito tra le varie il testo “Clinical Evidences” che detta le linee guida per le varie terapie scientificamente valide ai medici e la stessa OMS hanno riconosciuto come efficaci alcuni tipi di terapie psicologiche nei disturbi del comportamento, e, sempre più e a ragione si parla di sinergia diagnostico-terapeutica.
La diagnosi nei disturbi del comportamento di qualunque natura e gravità, deve perciò confrontarsi con le difficoltà di verifica delle ipotesi formulate, non avendo a disposizione, nella maggior parte dei casi, metodi di indagine o esami di laboratorio discriminativi delle diverse psicopatologie, così come avviene invece in gran parte delle branche della medicina.
Un altro aspetto da considerare riguarda il “fine” stesso della diagnosi compiuta in ambito psicologico. Infatti, sebbene in termini generali l’obiettivo della valutazione sia quello di giungere al riconoscimento della specifica categoria diagnostica (intesa come insieme di sintomi e segni) che meglio si adatta al caso in esame, non sempre una semplice diagnosi di tipo categoriale è in grado di cogliere e descrivere adeguatamente l’intero quadro sindromico e i meccanismi implicati nella sua genesi, sviluppo e mantenimento. Inoltre, occorre ricordare che i sistemi internazionali di classificazione e particolarmente quelle dei disturbi mentali come ICD-112 e DSM-53, propongono criteri che, per quanto ormai validati, non sempre riescono a garantire l’inquadramento diagnostico di assetti psicopatologici più sfumati o “sotto soglia”, né consentono di cogliere l’estrema variabilità sintomatologica che caratterizza una stessa categoria, presupponendo all’interno di ciascuna delle categorie proposte, una certa uniformità e omogeneità. In effetti, pur essendo di fondamentale importanza l’adozione e l’utilizzo di una classificazione nosografica dei disturbi mentali che garantisca un linguaggio comune ai diversi operatori e ai clinici di vari orientamenti teorici, è auspicabile che la diagnosi di tipo categoriale venga considerata solo uno dei passi della valutazione clinica in psichiatria e che sia abbondantemente arricchita da un approccio multidimensionale e funzionale di analisi del caso. Più nello specifico, ciò si traduce nella necessità di utilizzare diversi strumenti di indagine, qualitativamente differenti e spesso tra loro non interscambiabili per giungere ad una approfondita conoscenza del singolo. La diagnosi, in ogni caso, resta il punto chiave dell’intervento clinico certamente in medicina compresa quindi la psichiatria, ma anche per la psicologia clinica perché da un idoneo inquadramento diagnostico dipenderà, attraverso la formulazione di una prognosi, anch’essa scientificamente valida e quindi verificabile, gran parte dell’efficacia di un qualsiasi trattamento, sia esso medico, psicologico o misto.
La prassi curativa è infatti fortemente legata all’individuazione di una diagnosi, proveniente da dati scaturiti dall’uso corretto di un metodo, quello scientifico.
Come si può infatti curare ciò che non si è esattamente conosciuto? Solamente quando la conoscenza del processo morboso e la “storia naturale” del disturbo sarà nota, almeno nelle sue linee principali, si potrà mettere a punto un efficace progetto di cura e trattamento (Salvini, 1998). La diagnosi è perciò rappresentabile come un processo dinamico composto di più fasi tra sé strettamente interconnesse, schematicamente rappresentato in
Figura 1.1.
Figura 1.1: Il modello medico classico della diagnosi.
1.2 IL PROBLEMA DELLA DIAGNOSI IN PSICHIATRIA E PSICOLOGIA CLINICA
Con Beaugrand (1984) è possibile affermare che un comportamento che non possa essere esaminato e misurato rigorosamente non potrà essere studiato scientificamente.
La definizione di comportamento come avvenimento osservabile non deve in ogni caso sottintendere l’esclusione dei processi interni degli individui né quella dei loro stati di coscienza. Questi aspetti sono di estrema importanza, anche se la loro esistenza e consistenza è dedotta a partire dallo studio delle loro manifestazioni osservabili.
Il problema principale è però rappresentato dall’estrema variabilità nel comportamento umano in quanto: “la maggioranza delle persone sono di tinte miste, sfumate e sovrapposte e variano a seconda delle differenti situazioni, come sete cangianti esposte a luci differenti” (Lord Chesterfield, 1752).
Sono quindi da tenere in primaria considerazione alcune questioni, quali ad esempio:
- Quali esami, accertamenti diagnostici, strumentali e non, poter effettuare?
- Su cosa basare la verifica delle originarie ipotesi?
- Su quali dati obiettivi?
- Raccolti come?
- Per mezzo di…..?
Una prima risposta, in base alle attuali conoscenze, può essere quella che indica come la diagnosi debba fondarsi su una accurata valutazione di almeno le seguenti principali componenti, oltre che, ovviamente, sulle notizie riguardanti la storia attuale e pregressa del soggetto:
- Comportamenti, sia interni, cognitivi, che esterni: verbali, motori, di relazione, ecc.;
- Abitudini;
- Stili di vita,
- Tratti stabili, tipologie di personalità;
- Sintomi e tratti psicopatologici;
- Quadro neuropsicologico e delle funzioni cognitive;
- Valutazione psicofisiologica per funzioni mediate dal Sistema Nervoso Centrale e Autonomo;
- Quadro del funzionamento generale a livello psiconeuroendocrino.
Anche in psicopatologia, il termine diagnosi conserva, pur con alcune sostanziali eccezioni, gran parte delle valenze e caratteristiche precipue dell’area di sua tipica espressione, quella medica. Si può quindi affermare che, la valutazione clinica, la diagnosi, consiste nell’osservazione, rilevazione, discriminazione, stima ed interpretazione di caratteristiche di un soggetto nel campo proprio della psicologia: il comportamento umano e, per quanto riguarda la psichiatria, dei disturbi, lievi, moderati o gravi.
In questo caso, come già detto, il termine “comportamento” va inteso nella sua accezione più ampia, ovvero di qualsiasi forma, interna o esterna, manifesta o latente, visibile o arguibile di manifestazione comportamentale dell’uomo, nella sua interazione con se stesso, con gli altri esseri umani e con l’ambiente più in generale. Così come sono identifi cabili una serie di categorie di stimoli in afferenza all’organismo umano (fi sici, sociali, cognitivi, verbali, fi siologici) ed una serie altrettanto vasta di categorie di risposte (verbali, motorie, gestuali, fi siologiche), così saranno numerosi i campi d’indagine tipici della diagnosi (
Fig. 1.2).
Figura 1.2: Il paradigma di Hull Stimolo-Organismo-Risposta (SOR).
Va in ogni caso tenuto ben presente come sarà più dettagliatamente spiegato, che una parte sostanziale della valutazione clinica del comportamento di un individuo, consiste non solo e non tanto nel cercare di capire le situazioni stimolanti e le relative risposte, quanto nel riuscire ad avere un’idea, la più accurata possibile, del funzionamento interno dell’individuo stesso. In un’ottica scientifi ca quindi, la diagnosi può essere defi nita come “quel processo orientato verso la raccolta di dati e informazioni con la prospettiva di giustifi care, controllare ed ottimizzare decisioni e provvedimenti…” (Jager e Petermann, 1992).
Per porre ancora l’accento ed approfondire il significato del termine “scientifico” applicato anche al processo della diagnosi, di nuovo citando Beaugrand (1989), si può affermare come “tutte le scienze hanno la loro origine nell’esperienza immediata e cosciente dell’osservatore”.
Vi è perciò sempre un primo, inevitabile, livello fenomenologico, l’esperienza soggettiva, l’unica base d’informazione che potrà poi divenire scientifica. Ciò avviene quando l’esperienza fenomenologica e gli schemi derivati dall’osservazione saranno condivisi da più osservatori, i quali potranno verificare che il processo osservato e descritto si delinei esattamente nel modo indicato e cioè che l’osservazione sistematica e la descrizione schematica del processo osservato, siano replicabili almeno nelle sue deduzioni principali. L’osservazione, è qui da intendere nel senso dato a questo termine da Claude Bernard (1865), ossia come constatazione di un fatto mediante l’indagine e gli studi appropriati per questa constatazione. L’osservazione costituisce, perciò, una procedura empirica fondamentale di tutte le scienze, che va oltre l’osservazione diretta del comportamento o l’applicazione di tecniche, per quanto particolari e sofisticate. Quello che distingue l’osservazione scientifica dal semplice atto di osservare, ad esempio un bel tramonto, è che le osservazioni ed i relativi schemi, descritti opportunamente, debbono poter essere ripetibili a volontà, in modo da essere ragionevolmente sicuri che le conclusioni tratte siano il più possibile indipendenti dalle idiosincrasie di ciascun osservatore e utilizzazione. È bene qui ricordare un concetto fondamentale, ovvero che per comprendere il diverso da sé, occorre tradurre in comunicazione razionale la comunicazione sensoriale, che, divenuta percezione, ovvero riconoscimento della sensazione stessa, con l’ausilio degli schemi di valutazione cognitiva del soggetto, trasforma lo stimolo in un “evento” cosciente, presente nell’organizzazione interna dell’individuo.
Quindi, s...