Tod Hackett, giunto in prossimità dell’ora di abbandonare l’ufficio, sentì un rumore assordante provenire dalla strada. Stridii di cuoio si impastavano con clangori di ferro, il tutto condito dallo scalpicciare di mille zoccoli. L’uomo si avvicinò alla finestra.
Un’armata di fanti e di cavalieri era in processione. Avanzava come una folla, confuse file disordinate sembravano allontanarsi da una disfatta epocale. I dolman degli ussari, gli elmi pesanti delle guardie, i cavalleggeri di Hannover con i loro berretti di cuoio sottili e rossi pennacchi al vento, si mescolavano uno con l’altro in una fragorosa confusione. Dietro alla cavalleria avanzava la fanteria: una marea montante di zaini che rimbalzavano, moschetti che si abbassavano, cinturoni che si intrecciavano, giberne che ondeggiavano. Tod distinse le giubbe rosse della fanteria inglese, ornate di imbottiture bianche sulle spalle, le giubbe nere della fanteria del duca di Brunswick; riconobbe i granatieri francesi per le tipiche ghette bianche, gli scozzesi con le gambe nude sotto il kilt a quadri.
Al suo sguardo apparve un grasso omino che, con un casco coloniale di sughero, camicia a polo e pantaloni alla zompafosso, dall’angolo dell’edificio si lanciava come un ossesso all’inseguimento dell’armata.
«Teatro Nove, maledetti! Teatro Nove!» strepitò in un piccolo megafono.
La cavalleria subito spronò e la fanteria si preparò a eseguire un passo di corsa. L’ometto, imprecando a pugno alzato, continuava a rincorrerli.
Tod rimirò quello spettacolo fin quando non furono scomparsi dietro un piccolo battello del Mississippi. Quindi tornò al suo tavolo da disegno, mise in ordine le matite e abbandonò l’ufficio. Sul marciapiede davanti allo studio, rimase incerto se tornare a casa a piedi o prendere un taxi. Viveva a Hollywood da meno di tre mesi, era eccitato dalle prospettive di un posto del genere, ma era estremamente pigro e non aveva voglia di camminare. Optò infine per un taxi fino a Vine Street, e il resto del tragitto a piedi.
Un agente della National Films aveva trascinato Tod sul Pacifico dopo aver visto qualche suo lavoro a una mostra di allievi della Scuola di Belle Arti di Yale. Un telegramma gli comunicò che era stato assunto. Se poi quell’agente avesse conosciuto Tod di persona, probabilmente non si sarebbe nemmeno sognato di mandarlo a Hollywood per studiare come scenografo e costumista. La sua struttura grossa e goffa, i suoi occhi azzurri e vacui, il suo sorriso impacciato lasciavano credere che di talento non ne avesse affatto; si poteva pensare, invece, che fosse un mezzo idiota.
Ma nonostante il suo aspetto, egli era in realtà un ragazzo assai complesso: i vari aspetti della sua personalità si confondevano uno dentro l’altro, quasi come fossero scatole cinesi. E L’incendio di Los Angeles , un quadro sul suo cavalletto che era pronto a essere dipinto, provava senza ombra di dubbio l’esistenza del suo talento.
Scese dalla vettura in Vine Street. Camminando, esaminava la gente al tramonto. In molti adottavano un abbigliamento sportivo, anche se quello non era il termine più adatto a definirlo. I maglioni, i pantaloni alla zuava o comunque troppo corti, giacche di flanella blu con bottoni d’oro, erano abiti per lo più fantasiosi. Quella signora paffuta con berretto da marinaio andava a fare shopping, non una gita sull’oceano; quell’uomo in giacchetto e cappello tirolese non veniva giù da una gita in montagna, ma da un ufficio di assicurazioni; la ragazza in pantaloncini bianchi e scarpe di tela, con un fazzoletto variopinto a cingerne la testa, non abbandonava un campo da tennis ma un centralino telefonico.
Questo carnevale improvvisato era spezzato da individui di genere completamente diverso. I loro indumenti erano scuri, difettati, probabilmente acquistati per corrispondenza. Mentre quelli si muovevano caoticamente, facendo di sponda tra bar e negozi, questi si soffermavano negli angoli o rimanevano con la schiena appoggiata alle vetrine a rimirare i passanti. E quando il loro sguardo era accidentalmente corrisposto, le loro pupille si caricavano d’odio. All’epoca Tod, di quelle persone, sapeva solo una cosa: che erano arrivate in California a morire.
Decise che avrebbe approfondito la loro conoscenza: questa era la gente che sentiva di dover replicare nei suoi quadri. Mai più tipiche fattorie, vecchi muri di pietra, robusti pescatori di Nantucket. Dal momento stesso in cui li aveva visti aveva compreso che malgrado la sua razza, la sua educazione e il suo percorso scolastico, Winslow Homer e Thomas Ryder non potevano proprio più essere i suoi maestri. Si era rivolto quindi verso Goya e Daumier. Da molto aveva maturato questa consapevolezza. Durante il suo ultimo anno alla Scuola di Belle Arti aveva perfino ipotizzato di rinunciare completamente alla pittura. Le soddisfazioni scaturite dalla ricerca della composizione e del colore erano andate affievolendosi tanto più aumentava la sua abilità: improvvisamente si accorse di essere simile ai suoi compagni di corso, orientati più verso un genere illustrativo e formale. Tod aveva colto al volo l’opportunità di trasferirsi a Hollywood e ignorò le obiezioni dei suoi amici, secondo i quali avrebbe smesso di dipingere e mollato completamente.
Giunse al termine di Vine Street che faceva ormai notte e si decise a a salire lungo Pinyon Canyon.
Le foglie degli alberi si illuminavano di un indaco pallido e nel centro, progressivamente, quel rosso acceso diventava più scuro ogni secondo che passava. La stessa striscia violacea, che poteva ricordare una luce al neon, faceva sembrare quasi affascinante anche il profilo di quelle brutte colline irregolari.
Ma per ravvivare le case, neanche l’opera delicata del tramonto sarebbe bastata. Solo la dinamite avrebbe potuto rivelarsi utile contro i ranch messicani, le capanne polinesiane, le ville mediterranee, i templi egizi e giapponesi, gli chalet svizzeri, i cottage scozzesi e tutte le possibili combinazioni eterogenee di quegli stili che si accavallavano attraverso le pendici del canyon.
Considerando che erano fatte di stucco, cartone e graticcio, Tod in un eccesso di indulgenza diede la colpa della loro forma alla scarsa qualità dei materiali utilizzati. Mattoni, pietre e acciaio abbattono parzialmente l’entusiasmo dell’architetto e lo obbligano a distribuire pesi e misure, a mantenere gli angoli a piombo. Ma non conoscono leggi il gesso e il cartone, e neppure rispettano la forza di gravità.
All’angolo con La Huerta Road si trovava un castello del Reno, riprodotto in miniatura, con le torrette realizzate in cartone catramato e dotato perfino di merli per gli arcieri. Accanto si poteva ammirare un piccolo baracchino, arricchito audacemente di cupole e minareti da mille e una notte. Tod, anche in quel caso, si dimostrò indulgente.
Nonostante apparissero comiche, egli non rise davanti a quelle due case. La loro ambizione era di far colpo in maniera così spudorata, troppo schietta.
L’aspirazione al bello e al romantico, per quanto i risultati di tale esercizio possano risultare di cattivo gusto o addirittura cacofonici alla vista, non può mai suscitare risata. Sospirare è più naturale, giacché poche cose sono più penose di quelle veramente mostruose.