Cosmopolis (versione italiana)
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Cosmopolis (versione italiana)

  1. 186 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Cosmopolis (versione italiana)

Informazioni su questo libro

Aprile 2000. Mattina. Sull'East River. Il giovane miliardario Eric Packer esce dal suo lussuoso attico a tre piani e sale sulla limousine bianca per andare a tagliarsi i capelli a Hell's Kitchen. È l'inizio di un viaggio lungo un giorno che lo porterà ad attraversare Manhattan per andare incontro al proprio destino. Durante il tragitto Packer, ossessionato da una folle scommessa finanziaria contro lo yen e da un'oscura «minaccia attendibile» alla propria incolumità, incontra gli uomini e le donne della sua vita sullo sfondo di scenari erotici, o tragici, o enigmatici. Con un vivace alternarsi di situazioni metafisiche e comiche, dove il tempo subisce un'accelerazione e il presente finisce per confondersi con il futuro, Don DeLillo dimostra ancora una volta di saper descrivere il mondo contemporaneo con una profondità che sfiora la premonizione.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806180805
eBook ISBN
9788858402771
Parte prima

Capitolo primo

Ora il sonno lo abbandonava più spesso, non una o due bensì quattro, cinque volte la settimana. Che cosa faceva in quei momenti? Non passeggiava a lungo dentro gli arabeschi dell’alba. Non aveva un amico tanto intimo da sopportare il tormento di una telefonata. Cosa dirgli? Era una questione di silenzi, non di parole.
Cercava di leggere fino ad addormentarsi, ma riusciva solo a sentirsi più sveglio. Leggeva scienza e poesia. Gli piacevano le poesie scarne collocate minuziosamente nello spazio bianco, file di tratti alfabetici impressi a fuoco nella carta. Le poesie lo rendevano cosciente del proprio respiro. L’essenzialità della poesia gli rivelava in un attimo cose che normalmente non notava. Questa era la sfumatura di ogni poesia, almeno per lui, di notte, in quelle lunghe settimane, un respiro dopo l’altro, nella stanza ruotante in cima all’appartamento a tre piani.
Una notte cercò di dormire in piedi, nella sua cella di meditazione, ma non ci riuscì, non era un vero adepto, non era un monaco. Aggirò il sonno e si arrotondò in posizione di equilibrio, una calma senza luna in cui ogni forza veniva bilanciata da un’altra. Fu un sollievo brevissimo, una piccola pausa nell’agitarsi di identità irrequiete.
Non c’era risposta alla domanda. Aveva provato sedativi e ipnotici, ma lo rendevano dipendente, lo precipitavano dentro strette spirali interiori. Ogni sua azione era sintetica, ossessionata dal proprio fantasma. Anche il più pallido pensiero recava un’ombra ansiosa. Cosa faceva? Non consultava un analista impassibile nella sedia di cuoio. Freud è finito, adesso tocca a Einstein. Stava leggendo la Teoria Speciale quella notte, in inglese e tedesco, ma mise da parte il libro, infine, e giacque completamente immobile, sforzandosi di pronunciare la parola che avrebbe spento le luci. Nulla esisteva intorno a lui. C’era soltanto il rumore nella sua testa, la mente nel tempo.
Sarebbe morto ma non sarebbe finito. Il mondo sarebbe finito.
Era davanti alla finestra e vedeva sorgere il grande giorno. Lo sguardo attraversava ponti, stretti e baie e si spingeva oltre i quartieri e i lindi sobborghi al dentifricio fino a estensioni di terra e cielo che si potevano definire solo profonda distanza. Non sapeva cosa voleva. Era ancora buio giù sul fiume, semibuio, e vapori cinerei ondeggiavano sopra le ciminiere lungo la riva opposta. Pensò che le puttane avessero abbandonato gli angoli rischiarati dai lampioni, ormai, sculettando come anatre, mentre altri arcaici commerci si mettevano in moto, i camion degli ortaggi uscivano dai mercati, i camion dei giornali dalle banchine di carico. Che i furgoni del pane stessero attraversando la città e qualche sporadica macchina uscita dalla bolgia serpeggiasse lungo le avenue, pompando suoni violenti dalle casse dello stereo.
Una cosa assolutamente nobile, un ponte sopra un fiume, e il sole che comincia a ruggire alle sue spalle.
Guardò un centinaio di gabbiani seguire una chiatta che avanzava dondolando lungo il fiume. Avevano cuori grandi e forti. Lo sapeva, sproporzionati al resto del corpo. Un tempo li aveva studiati ed era riuscito a padroneggiare gli innumerevoli dettagli dell’anatomia degli uccelli. Gli uccelli hanno le ossa cave. Riusciva a padroneggiare le materie più ardue nello spazio di metà pomeriggio.
Non capiva cosa voleva. Poi capì. Voleva tagliarsi i capelli.
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Rimase lì ancora un po’, a guardare un gabbiano solitario sollevarsi e fluttuare in un ricciolo d’aria, ammirando l’uccello, entrandogli dentro per cercare di conoscerlo, sentendo il vigoroso, assiduo battito del suo famelico cuore di saprofago.
Indossava giacca e cravatta. La giacca attenuava l’ampiezza del petto ipersviluppato. Gli piaceva fare ginnastica di notte, trascinando attrezzi carichi di pesi, flettendosi e distendendosi sulla panca in stoiche ripetizioni che sgretolavano i tumulti e le costrizioni della giornata.
Attraversò l’appartamento, quarantotto stanze. Lo faceva quando si sentiva indeciso e depresso, procedendo a grandi passi oltre la piscina, la sala da gioco, la palestra, oltre la vasca dello squalo e la sala di proiezione. Si fermò davanti al recinto dei borzoi e parlò ai suoi cani. Poi andò nello studio, dove c’erano valute da seguire e ricerche da esaminare.
Lo yen era salito durante la notte, contro ogni previsione.
Tornò in casa, camminando piano, adesso, e si soffermò in ogni stanza, assorbendo quello che conteneva, osservando intensamente, trattenendo ogni particella di energia sotto forma di raggi e onde.
L’arte alle pareti era soprattutto a campi di colore e geometrica, grandi tele che dominavano le stanze e conferivano una quiete religiosa all’atrio con il soffitto a lucernario, gli alti quadri bianchi e il gocciolio della fontana. L’atrio possedeva la tensione e la suspense di uno spazio torreggiante, e richiedeva un devoto silenzio per essere visto e percepito in modo adeguato, una moschea di passi attutiti e colombi mormoranti nella cupola.
Gli piacevano i quadri che i suoi ospiti non sapevano come guardare. I quadri bianchi riuscivano incomprensibili a molti, strisce di colore mucoidale applicate con la spatola. L’opera era ancora più pericolosa per il fatto di non essere nuova. Non c’è più pericolo nel nuovo.
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Scese nell’atrio di marmo con l’ascensore che diffondeva Satie. Aveva la prostata asimmetrica. Uscì e attraversò la avenue, poi si girò a guardare l’edificio in cui abitava. Lo sentì contiguo a se stesso. Erano ottantanove piani, un numero primo, con un ordinario rivestimento di vetro bronzo pallido. Avevano in comune un margine o confine, grattacielo e uomo. Era alto duecentosettanta metri, la più alta torre residenziale del mondo, un banale edificio oblungo forte soltanto della propria grandezza. Possedeva quel genere di banalità che col tempo si rivela assolutamente brutale. Gli piaceva per questo. Gli piaceva guardarlo quando si sentiva così. Si sentiva guardingo, assonnato e incorporeo.
Un vento tagliente arrivava dal fiume. Tirò fuori il palmare e digitò un appunto sulla qualità anacronistica della parola grattacielo. Nessuna struttura recente avrebbe dovuto portare quel nome. Apparteneva all’anima antica della meraviglia e della paura, alle torri aguzze di cui si narrava molto prima che lui nascesse.
Il palmare stesso era un oggetto la cui cultura d’origine era quasi scomparsa. Sapeva che avrebbe dovuto buttarlo via.
La torre gli dava forza e profondità. Sapeva cosa voleva, tagliarsi i capelli, ma rimase ancora un po’ nel rumore che saliva dalla strada e osservò la massa e le dimensioni della torre. La superficie aveva la sola dote di sfiorare e piegare la luce del fiume e mimare i flussi del cielo aperto. Possedeva un’aura di consistenza e riflesso. Percorse la facciata con lo sguardo e sentì il legame che la univa a lui, la condivisione della superficie e dell’ambiente che entrava in contatto con la superficie, da entrambe le parti. Una superficie separa l’interno dall’esterno e appartiene all’uno non meno che all’altro. Aveva riflettuto sulle superfici una volta, sotto la doccia.
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Si mise gli occhiali da sole. Poi riattraversò la avenue e si avvicinò alle file di limousine bianche. C’erano dieci auto, cinque allineate lungo il marciapiede davanti alla torre, sulla Prima Avenue, e cinque nella strada laterale, rivolte a ovest. A una prima occhiata le macchine erano identiche. Forse alcune erano più lunghe di qualche centimetro, a seconda dei dettagli del lavoro di allungamento e delle particolari esigenze del proprietario.
Gli autisti fumavano e chiacchieravano sul marciapiede, a capo scoperto, in abiti scuri, condividendo una solerzia che sarebbe diventata evidente solo in retrospettiva, quando gli occhi si sarebbero accesi nel loro volto e avrebbero gettato la sigaretta e abbandonato gli atteggiamenti rilassati, una volta individuato l’oggetto delle loro attenzioni.
Per adesso parlavano, con un accento, alcuni, o nella lingua madre, altri, e aspettavano il finanziere, il lottizzatore, lo speculatore, l’imprenditore di software, il signore globale delle Tv via satellite e via cavo, l’agente di sconto, il boss dei media dal naso adunco, il leader in esilio di qualche desolato panorama di carestia e guerra.
Nel parco oltre la strada c’erano alberi stilizzati in ferro battuto e fontane di bronzo con monetine iridescenti sparse sul fondo. Un uomo vestito da donna portava a spasso sette cani eleganti.
Gli piaceva il fatto che le macchine fossero indistinguibili. Voleva quel tipo di macchina perché la considerava una replica platonica, leggerissima nonostante le dimensioni, un’idea più che un oggetto. Ma sapeva che questo non era vero. Era una cosa che diceva per far colpo e non ci credeva neanche per un istante. Ci credeva per un istante ma non di più. Voleva la macchina perché non solo era smisurata, ma lo era in modo aggressivo e sdegnoso, metastatizzante, un enorme oggetto mutante che sovrastava ogni obiezione.
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Il capo della sicurezza apprezzava quella macchina per il suo anonimato. Le lunghe limousine bianche erano ormai le vetture più ignorate della città. Stava aspettando sul marciapiede adesso, Torval, calvo e senza collo, un uomo con la testa che sembrava staccabile per manutenzione.
– Dove? – disse.
– Voglio tagliarmi i capelli.
– Il presidente è in città.
– Non ci interessa. Dobbiamo tagliarci i capelli. Dobbiamo attraversare la città.
– Troveremo un gran traffico, avanzeremo a passo d’uomo.
– Tanto per saperlo. Di quale presidente stiamo parlando?
– Stati Uniti. Ci saranno transenne, – disse Torval. – Intere strade cancellate dalla mappa.
– Indicami la mia macchina, – disse Eric.
L’autista teneva lo sportello aperto, pronto a girare di corsa intorno all’auto fino all’altro sportello, a dieci metri di distanza. Dove finiva la fila di limousine bianche, parallela all’ingresso della Japan Society, cominciava un’altra fila di macchine, le berline, nere o blu scuro, i cui autisti aspettavano membri di missioni diplomatiche, delegati, consoli e attaché in occhiali da sole.
Torval prese posto con l’autista sul sedile anteriore, dove c’erano schermi di computer inseriti nel cruscotto e un display a visione notturna nella parte inferiore del parabrezza, il risultato della telecamera a infrarossi collocata nella griglia del radiatore.
Shiner aspettava dentro l’auto, il suo esperto di tecnologia, piccolo e con la faccia da bambino. Eric non lo guardava più. Non lo guardava da tre anni. Una volta che l’avevi guardato, non c’era nient’altro da sapere. Lo conoscevi fino al midollo in un istante. Indossava i soliti jeans e camicia sbiaditi e sedeva nella solita posa masturbatoria.
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– Allora, ci sono novità?
– Il nostro sistema è sicuro. Siamo impenetrabili. Non c’è nessun hacker sulle nostre tracce, – disse Shiner.
– Eppure si direbbe.
– Eric, no. Abbiamo fatto tutti i test. Nessuno sta sovraccaricando il sistema o manipolando i nostri siti.
– Quando abbiamo fatto i test?
– Ieri. Alla Centrale. La nostra squadra di risposta rapida. Non ci sono punti di accesso vulnerabili. Il nostro assicuratore ha fatto un’analisi di rischio. Siamo protetti contro ogni attacco.
– Dappertutto.
– Sì.
– Compresa la macchina.
– Compresa, assolutamente, sì.
– La mia macchina. Questa macchina.
– Eric, sì, ti prego.
– Siamo insieme, io e te, fin dai primissimi tempi. Voglio che tu mi dica che hai ancora la fibra adatta per questo lavoro. La determinazione.
– Questa macchina. La tua macchina.
– La volontà inflessibile. Perché continuo a sentir parlare della nostra leggenda. Siamo tutti giovani e in gamba e siamo stati allevati dai lupi. Ma il fenomeno della reputazione è una cosa delicata. Una persona emerge su una parola e precipita su una sillaba. So che sto chiedendo all’uomo sbagliato.
– Cosa?
– Dov’è andata la macchina ieri sera dopo che abbiamo fatto i test?
– Non lo so.
– Dove vanno tutte queste limousine di notte?
Shiner sprofondò senza speranza negli abissi di quella domanda.
– So che sto cambiando argomento. Ultimamente non dormo molto. Guardo libri e bevo brandy. Ma che ne è di tutte le limousine che di giorno si aggirano per la città pulsante? Dove passano la notte?
La macchina si bloccò nel traffico prima di raggiungere la Seconda Avenue. Era seduto sulla poltroncina nel retro dell’abitacolo e guardava le file di monitor. C’erano accozzaglie di dati su ogni schermo, simboli scorrevoli e diagrammi svettanti, numeri policromi pulsanti. Assimilò quel materiale in un paio di lunghi, immobili secondi, ignorando il suono dei discorsi che scaturivano da teste laccate. C’erano un microonde e un monitor cardiaco. Guardò la spycam sul perno girevole e la spycam gli restituì lo sguardo. Un tempo quello era uno spazio telecomandato, ma adesso quel tempo era finito. Il contesto non richiedeva alcun intervento tattile. Poteva avviare la maggior parte dei sistemi operativi con la voce, o spegnere uno schermo con un gesto.
Un taxi si insinuò accanto a loro, con l’autista che pigiava sul clacson. Questo diede il via a un centinaio di altri clacson.
Shiner si agitò sul sedile pieghevole accanto all’armadietto dei liquori, rivolto verso il retro dell’auto. Beveva spremuta d’arancia con una cannuccia di plastica che sporgeva ad angolo ottuso dal bicchiere. Sembrava fischiettare qualcosa nello stelo della cannuccia fra un sorso e l’altro.
Eric disse: – Cosa?
Shiner alzò la testa.
– Non hai mai la sensazione di non sapere cosa stia succedendo? – disse.
– Dovrei chiederti cosa intendi dire?
Shiner parlava dentro la cannuccia come se fosse una trasmittente di bordo.
– Tutto questo ottimismo, questo espandersi e crescere. Le cose accadono di botto. Contemporaneamente. Metto fuori la mano e cosa sento? So che ci sono migliaia di cose da analizzare ogni dieci minuti. Modelli, rapporti, indici, intere mappe di informazioni. Adoro le informazioni. Tutto questo è il nostro zucchero e miele. È un’assoluta meraviglia. E abbiamo un significato nel mondo. La gente mangia e dorme all’ombra di quello che facciamo. E tuttavia, cosa?
Ci fu una lunga pausa. Alla fine guardò Shiner. Che cosa gli disse? Non gli rivolse un’osservazione brusca e tagliente. Non disse proprio nulla, in effetti.
Sedevano nel crescendo dei clacson. C’era qualcosa in quel rumore di cui non voleva desiderare la fine. Era la nota di un dolore fondamentale, un lamento così antico da sembrare aborigeno. Pensò alle urla rituali di uomini irsuti, in gruppo, unità sociali fondate per uccidere e mangiare. Carne rossa. Quello era il richiamo, il bisogno angoscioso. Il frigorifero conteneva bevande, oggi. Niente di solido per il microonde.
Shiner disse: – C’è una ragione particolare per cui siamo in macchina invece che in ufficio?
– Come fai a sapere che siamo in macchina invece che in ufficio?
– Se rispondo a questa domanda.
– Che si basa su quali presupposti?
– So che dirò una cosa per metà intelligente ma in gran parte futile e probabilmente in qualche modo inesatta. Allora mi compatirai per il fatto di essere nato.
– Siamo in macchina perché voglio tagliarmi i capelli.
– Fai venire il barbiere in ufficio. Fatteli tagliare in ufficio. Oppure fallo salire in macchina. Ti tagli i capelli mentre vai in ufficio.
– Un taglio di capelli comprende. Associazioni mentali. Calendario alla parete. Specchi dappertutto. Qui non c’è la sedia da barbiere. Nulla che ruoti tranne la spycam.
Cambiò posizione sulla poltroncina e osservò gli aggiustamenti della telecamera di sorveglianza. Un tempo la sua immagine era accessibile quasi in ogni momento, teletrasmessa in tutto il mondo dall’auto, dall’aereo, dall’ufficio e da punti scelti del suo appartamento. Ma c’erano questioni di sicurezza da considerare, e adesso la telecamera funzionava a circuito chiuso. Un’infermiera e due guardie armate tenevano costantemente sotto controllo tre monitor in una stanza senza finestre nell’ufficio. La parola ufficio era ormai superata. Aveva zero saturazione.
Guardò fuori dal finestrino polarizzato alla sua sinistra. Gli ci volle un momento per riconoscere la donna sul sedile posteriore del taxi accanto....

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Dedica
  5. Parte prima
  6. Parte seconda