L'ottava vibrazione
eBook - ePub

L'ottava vibrazione

  1. 462 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'ottava vibrazione

Informazioni su questo libro

Un grande romanzo di guerra e d'amore. E di delitti. Una storia epica rinasce dall'ombra del passato e irrompe in una luce cupa e visionaria, splendida e dannata. Tutte le voci, i dialetti e le lingue, sono il tessuto di un romanzo corale dove inferno e salvezza abitano insieme. Gli amori i tradimenti i deliri e le perversioni piú folli si intrecciano all'innocenza piú pura, l'arroganza dei potenti vive accanto alla comunità degli umili, la magia e il quotidiano si fondono. Lo scrittore che ha rinnovato il noir italiano porta la propria indagine della «metà oscura» dell'anima in un nuovo, inesplorato terreno.
Dove una pagina oscura della nostra storia diventa leggenda.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
Print ISBN
9788806201746

Cinquantasei

Adesso il sole picchiava forte. Era l’altopiano, non c’era il caldo senza respiro di Massaua, ma Serra lo sentiva battere lo stesso sul casco, scaldargli la stoffa della giubba sulla schiena, arroventargli la canna del fucile che teneva appoggiato alla gamba, calcio a terra. Ogni tanto si voltava a guardare la collina e lo vedeva sempre lassú, il suo maggiore assassino di bambini, dritto sul cavallo, l’uniforme nera, la fascia azzurra di traverso al petto e un’altra piú stretta attorno al casco. Lo fissava finché gli reggeva la gamba, perché a torcersi cosí gli faceva male, poi tornava a guardare avanti, e per un po’ gli bastava.
Le compagnie erano schierate su quattro file, Amara a comandare la 1ª e il sottotenente con la faccia da bambino la 2ª, Montesanto davanti alla 3ª, giú dal muletto. I soldati si erano tolti la mantellina che gli aveva lasciato sulla giubba una striscia piú scura di sudore, come se ce l’avessero ancora a tracolla.
Guardavano tutti la piana polverosa, alcuni con il casco calcato in avanti, altri indietro, a seconda che preferissero ripararsi il naso o la nuca, e avevano smesso di alzare gli occhi al costone perché il sole delle dieci e mezzo era proprio lassú che bruciava, e non bastava piú tenerci davanti la mano. Ogni tanto però qualcuno lo faceva, sfidava le lacrime che inumidivano le palpebre per la luce e guardava su.
– Là c’è qualcuno!
C’è una fenditura sul bordo destro del costone. È una roggia stretta che scende come un terrazzo obliquo e poi si apre sulla pietraia.
Là c’era un uomo a cavallo. Un soldato. Immobile, su un cavallino cosí piccolo che sembrava un pony americano, due lance che spuntano dallo scudo che tiene legato sulla schiena. Stava lí da chissà quanto tempo.
– State zitti! – ruggí il sergente, perché tutti avevano cominciato a gridare. Spinse in là un soldato per far passare Montesanto.
– Lo tiro giú? – chiese il veneto bravo col fucile.
– No, – disse Montesanto, – troppo lontano. Appena spari si sposta e lo perdiamo. Amara! Vuoi fare l’eroe? Vammelo a prendere!
Amara esitò, ma era soltanto perché si era distratto a guardare il cavaliere sulla roggia. Spronò il cavallo senza rispondere e si lanciò nella piana.
– È un esploratore, – disse il sergente. – Vogliono vedere dove siamo.
– Oppure lo sanno già e quello è solo una vedetta in avanscoperta. In ogni caso appena Amara lo prende lo sapremo.
Il soldato con le lance rimase fermo finché Amara non fu arrivato quasi in fondo alla piana, poi girò il cavallo tirandolo per una briglia e sparí dietro la roggia. Amara lo vide e si chinò in avanti sulla criniera del suo, come se servisse a farlo andare piú forte. Divorò gli ultimi metri della piana e affrontò la pietraia, spronando il cavallo per farlo salire fino all’inizio della roggia, attento a non scivolare sui sassi. Poi aprí la fondina, tirò fuori la pistola e ricominciò a salire. Dalla piana ogni tanto lo vedevano apparire oltre il bordo delle rocce, una mano stretta attorno alle briglie e l’altra in alto, con la pistola. Non lo sentivano, ma incitava il cavallo con versi secchi e rochi, come un colpo di tosse.
Dove cazzo sei finito, pensa Amara, perché è quasi arrivato alla fine della roggia, in cima al costone, e il soldato con le lance non si vede. La fenditura è stretta, non c’è abbastanza spazio perché si sia nascosto per saltargli addosso, ma tiene la pistola puntata, col cane alzato, e avanza al passo, trattenendo il cavallo.
In cima al costone c’era uno scalino, una tavola di roccia piatta come una piazza, una sella che scendeva dall’altra parte, ma non si vedeva dove.
Amara si ferma e si guarda attorno, la pistola pronta. C’è una macchia di acacie sulla sinistra, e lí dentro potrebbe esserci qualcuno, ma vuole arrivare in fondo alla sella, perché ha sentito qualcosa dall’altra parte, un ringhio, un sospiro, qualcosa di grande e di gonfio, che non riesce a capire. Cosí continua a tenere gli occhi sulla macchia di acacie, ma intanto va avanti fino al bordo della sella, e quando ci arriva si gira e guarda cosa c’è nella valle oltre il costone.
Si blocca, piantando gli stivali nelle staffe, le mani strette sulle redini.
– Oh, Cristo, – mormora, poi strattona le briglie per girare il cavallo, ma qualcuno gli prende le gambe, lo afferra per la giubba, gli stringe il braccio e il polso che regge la pistola, sono in tanti e lo tirano giú, e quando sbatte con la schiena sulla roccia contrae la mano e spara un colpo, ma senza ferire nessuno.
L’unica cosa che vide dopo che un guerriero galla gli aveva troncato di netto la testa fu la lama del guradè che si sollevava sgocciolando il suo sangue. Poi anche l’ultima scintilla di vita rimasta nei nervi si spegne e non c’è piú niente.
Quando sentono sparare la pistola del tenente, i soldati nella piana gridano: hurrà! e qualcuno anche: Savoia! Solo Pasolini mormora: vaffanculo.
– Preso, – dice Montesanto, e intanto pensa.
Pensa: comunque sia, prima o poi attaccano, a meno che davvero Albertone sia arrivato fino ad Adua e sia già finita qui. Ma non è vero, perché ogni tanto il vento cambia, si infila nel vallone, e lontano, lontanissimo, si sente ancora sparare. Da qualche parte la battaglia continua.
Allora pensa: se arrivano sono cazzi va bene ma dipende da quanti sono in fondo siamo un battaglione quattrocentotrenta uomini con sei cannoni e qui davanti tre compagnie fa trecentocinquanta fucili diretti bene gli uomini sparano una salva ogni dieci secondi e gli abissini mica sanno sparare a raffica come noi minchia.
Pensa: nessun esercito indigeno è mai riuscito a battere un esercito europeo ben inquadrato.
Cammina avanti e indietro con le mani in tasca. Si ripete: nessun esercito indigeno è mai riuscito a battere un esercito europeo ben inquadrato.
Serra si volta a guardare il maggiore Flaminio, dritto, immobile e nero.
C’è ancora. Gli basta.
Poi, all’improvviso, il vento cambia. Arriva giú dal costone, soffia caldo e polveroso in faccia ai soldati, e si porta dietro un rumore che sembra quello di un temporale, però lontano, un rombo pieno di grida di uccelli, e per un momento tutti guardano in alto, pensando di vedere uno stormo di rondini che scappava da una tempesta, ma non era un temporale e non erano grida, è musica, sono tamburi e sono trombe che stanno suonando. E assieme al rumore arriva anche un odore, un puzzo forte, fortissimo, che gratta pieno nelle narici e fa ridere i soldati, che si agitano la mano davanti al naso: ohé, ragazzi, chi l’ha mollata?
Il sergente, invece, non ride.
È impallidito e ha serrato le mascelle fino a farsi scricchiolare i denti.
Perché lui lo sa cos’è quel rumore.
Sono i negarít e i koboro del negus, sono i tamburi degli abissini, e anche le trombe che suonano per l’esercito che avanza.
Perché quell’odore, quel puzzo aspro e feroce che è arrivato col vento dal costone, è l’odore di un esercito in marcia, che sa di corpi, di fiati, di sudore, anche di merda. Odore di altra gente, di altri soldati, che non sono italiani.
Però è un’altra la cosa che spaventa il sergente.
Perché lui lo sa che gli abissini stanno arrivando, se lo aspetta, ma se quello è il loro odore, ed è cosí forte e cosí intenso da sentirsi fin laggiú, allora, Cristo, ma quanti cazzo sono?
Di colpo i soldati smettono di ridere. Anche quelli che si erano voltati indietro, vedono la faccia dei compagni e si girano subito a guardare il costone.
È come se sulla roccia fosse spuntata una cresta. Sagome nere contro il sole, disegnano una riga compatta, irta di punte, come la merlatura di un castello. Per un momento restano immobili lassú, e adesso nella piana c’è silenzio, non si sente neanche respirare, soltanto le mosche che ronzano.
Poi è come se qualcuno avesse gettato un sasso in un secchio, perché il bordo del costone si gonfia di un’onda nera che scoppia sulle rocce, e si riversa giú lungo il fianco della collina, è non è soltanto un’onda, è una marea che cresce, un flusso inarrestabile, che arriva di corsa, urlando.
– Serrare i ranghi! – grida il sergente. – Prima fila in ginocchio! – urla Montesanto, e intanto pensa: nessun esercito indigeno è mai riuscito a battere un esercito europeo ben inquadrato, nessun esercito indigeno, mai.
Dietro, sulla collina dove stanno arroccati lo stato maggiore e l’artiglieria, Branciamore ha congiunto le mani in uno schiocco di sorpresa quando ha visto gli abissini. E anche adesso se le stringe, le mani, davanti alla bocca, mentre li vede divorare la discesa che porta alla piana, coprendo di nero i rovi e i sassi del pendio come l’ombra di una nuvola che passa davanti al sole. Quanti saranno? Mille? Diecimila, centomila?
Branciamore spinge da parte il giornalista che sta cercando di scaricare il cavalletto dal mulo e corre da Flaminio, immobile sulle staffe, le mani di filo bianco una sull’altra, sul pomo della sella.
– Bisogna farli arretrare! – grida. – Ritirare le compagnie sulla collina! Sono troppi! Li travolgeranno!
Flaminio non risponde neanche. Guarda giú, le quattro file color bronzo che si stendono lungo la piana, pensa agli uomini, si immagina i loro corpi, la loro pelle bianca sotto la tela delle giubbe, il sangue che pulsa veloce nelle loro vene, e la vista gli si offusca tanto che deve battere le palpebre per mantenerla a fuoco.
Anche Branciamore guarda giú e intanto si passa il dorso delle mani sulle guance, per asciugarsi le lacrime.
– Sono cento contro uno, – mormora, – sarà un bagno di sangue –. Poi si scuote e corre verso gli artiglieri della batteria, che già hanno caricato i cannoni e aspettano solo l’ordine: – Aprire il fuoco, subito!
Flaminio socchiuse le labbra e il respiro che gli si affannava in gola gli uscí tra i denti con un sibilo roco, lo sguardo intorbidito dal desiderio.
Sarà un bagno di sangue.
– Sí, – sussurrò.
Sí.
Appena ha sentito il primo colpo di cannone passargli alto sopra la testa per andare a schiantarsi sul costone, Pasolini ha capito che lo hanno fregato. Poteva capirlo anche prima, quando ha visto apparire tutti quei soldati schierati contro il sole, tanti, maial, sempre di piú, ma la paura gli aveva schiacciato il pensiero da qualche parte nella mente, e c’era voluta quella cannonata a liberarlo.
Lo avevano fregato.
Completamente.
Perché mentre guarda quella massa di uomini che viene giú dal pendio, Pasolini sa che lo ammazzeranno, sono tanti, troppi, sente la loro corsa vibrargli sotto i piedi attraverso il terreno, e urlano cosí forte da coprire il suono delle trombe e dei tamburi, ma lui non vuole morire, vuole salvarsi, ma mica può gettare il fucile e andargli incontro a braccia aperte, come Gesú Cristo, e neanche girarsi e scappare, se no il sergente gli spara nella schiena. E allora l’unica cosa che può fare è sparare anche lui e cercare di ammazzare piú abissini che può, perché se riesce a farne fuori abbastanza prima che arrivino a sbudellarlo, forse si salva.
Ecco perché l’hanno fregato. Perché non ci doveva proprio andare, in guerra, perché una volta che ci sei dentro, in un modo o nell’altro, ti tocca farla. Porterò la sedizione là in Colonia. Io non sparo a nessuno. Sí, col cazzo.
È tanta la rabbia per essersi fatto fregare che la paura gli passa di colpo. Tiene il fucile stretto con una mano per far vedere bene al sergente che non vuole mollarlo, e comincia a slacciarsi i bottoni della giubba. Se deve ammazzare qualcuno non lo farà per la patria, l’esercito o i Savoia, ma per se stesso, Pasolini Giancarlo da Ferrara.
– Che cazzo fai? – dice il sergente, e gli punta addosso il fucile, ma Pasolini pianta i piedi per terra, affonda gli scarponi nella polvere per fargli vedere che lui non si muove, non diserta, non scappa, sta lí come gli altri, e intanto si è tolto la giubba e la camicia e si sta slacciando anche i calzoni. – Che cazzo stai facendo? – grida il sergente, la bocca del fucile sulla faccia di Pasolini, ma quello non si muove, gli fa vedere il Vetterli imbracciato, batte con gli scarponi nelle sue orme, alza le gambe soltanto per togliersi i calzoni, e poi via le ghette, le scarpe e anche le fasce, e resta nudo, completamente nudo, al suo posto nella fila, come gli altri.
Ma vaffanculo, pensa il sergente, e poi abbassa il fucile, perché un uomo in piú fa sempre comodo, con o senza l’uniforme.
– Serrare le file! – grida. – Spalla contro spalla! E coraggio, per la Madonna! Chi non ha paura di morire muore una volta sola!
Tra poco saranno a tiro, pensa Montesanto, mentre una parte della sua testa ripete: nessun esercito indigeno, mai, ininterrottamente, come una preghiera. Cerca di valutare la distanza, saranno ancora a mille, millecinquecento metri. Le cannonate che raschiano il cielo vanno a esplodere in mezzo agli abissini, sollevano colonne di fumo bianco e lanciano in aria sassi, cespugli di rovi e pezzi di corpi, ma quelli non si fermano, hanno già divorato il pendio, e adesso sono nella piana.
– Alzo a novecento metri, – dice Montesanto, le mani in tasca, come se non gli importasse niente, ma non è vero, perché dentro continua a ripetere: nessun esercito, mai.
Li guarda arrivare. Un muro di uomini e polvere che avanza correndo. Non ha un binocolo, ma si chiude le mani attorno agli occhi per ripararli dalla luce e focalizzare lo sguardo.
Vede tigrini a torso nudo, il gabí avvolto attorno alla vita, scalzi, scioani dal camicione bianco, galla col corpetto di capra, beni amer dai capelli crespi alti sulla testa, etiopi che pestano la polvere con i sandali, i calzoni corti sulle caviglie, le spalle coperte da una mantellina di panno. Portano scudi rotondi di pelle di rinoceronte e di ippopotamo, lance lunghe dalla punta larga, guradè ricurvi affilati come rasoi, cartuccere a tracolla e tanti, tantissimi fucili. In mezzo a loro, ufficiali dalle camicie ricamate, lunghe come marsine, e caschi col bordo di leopardo, seguiti da bambini che gli portano le armi. Urlano, urlano tutti, e anche se le parole non si distinguono non importa, perché Montesanto lo sa cosa stanno gridando.
– Ghèddele! Ghèddele ferengi!
Uccidere. Uccidere lo straniero bianco.
– Fuoco! – urla Montesanto.
– Fuoco! – ripetono De Zigno e il tenente con la faccia da bambino.
Montesanto non toglie le mani dalle tasche. Pensa: nessuno, mai. Lascia che il sergente passi dietro le file a battere piattonate con la baionetta sul casco di quelli che non sparano a tempo, prima fila puntare-mirare-fuoco, seconda fila puntare-mirare-fuoco. Sparare mentre gli altri ricaricano. Una salva ogni cinque o sei secondi. Nessuno. Mai.
Ora c’è solo da aspettare e vedere se prima o poi, a forza di sparare, quelli là si fermano.
Non si fermano, pensa Branciamore. Lui da lassú li vede quanti sono, e potrebbe dire infiniti, perché dal costone continuano a scendere. Appena le compagnie schierate ai piedi della collina hanno aperto il fuoco, gli abissini hanno rallentato la corsa, ma non si sono fermati. I cannoni continuano a sparare, tirano sull...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L’ottava vibrazione
  3. Uno
  4. La storia di Aicha, la cagna nera
  5. Due
  6. La storia di Cristina, Crissi, tesoro
  7. Tre
  8. La storia di Sciortino, il soldato fantasma
  9. Quattro
  10. La storia di Pasolini, anarchico internazionalista
  11. Cinque
  12. Sei
  13. Fotografia
  14. Sette
  15. La storia del tenente Amara
  16. Otto
  17. Nove
  18. Fotografia
  19. Dieci
  20. Dov’è Aicha
  21. Undici
  22. Dodici
  23. Tredici
  24. Fotografia
  25. Quattordici
  26. Quindici
  27. Sedici
  28. La storia del brigadiere Serra
  29. Diciassette
  30. Diciotto
  31. Ancora la storia di Cristina
  32. Diciannove
  33. Venti
  34. Ventuno
  35. Ventidue
  36. Ventitre
  37. Ventiquattro
  38. Fotografia
  39. Venticinque
  40. Ventisei
  41. Ventisette
  42. Ventotto
  43. Ventinove
  44. Trenta
  45. Trentuno
  46. Dov’è Aicha
  47. Trentadue
  48. Trentatre
  49. Trentaquattro
  50. Trentacinque
  51. Trentasei
  52. Trentasette
  53. Trentotto
  54. Trentanove
  55. Quaranta
  56. Quarantuno
  57. Quarantadue
  58. Ancora la storia del brigadiere Serra
  59. Quarantatre
  60. Quarantaquattro
  61. Quarantacinque
  62. La storia del soldato ucciso
  63. Quarantasei
  64. Quarantasette
  65. Quarantotto
  66. Quarantanove
  67. Cinquanta
  68. Cinquantuno
  69. Cinquantadue
  70. Cinquantatre
  71. Cinquantaquattro
  72. Cinquantacinque
  73. Cinquantasei
  74. Fotografia
  75. Cinquantasette
  76. Ce n’è ancora uno
  77. La fortuna degli scrittori di Carlo Lucarelli
  78. Il libro
  79. L’autore
  80. Dello stesso autore
  81. Copyright