Capitolo 1
Una gabbia dorata, ma non troppo
Stringendogli la mano, sembrò a Drogo di entrare finalmente nel mondo della Fortezza. Quello era il primo legame e ne sarebbero venuti poi innumerevoli altri di ogni genere, che l'avrebbero chiuso dentro.
Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari
Era il 1991 quando il CERN annunciava ufficialmente la nascita della rete intorno al mondo con la possibilità di sedersi al proprio computer (all’epoca si faceva ancora così) e accedere alle infinite possibilità del world wide web. Infinite, in realtà, ancora non lo erano, complici i limiti tecnologici e anche le prime librerie virtuali che erano davvero poco fornite se paragonate ai contenuti che possiamo trovare oggi in rete.
Se a questo miracolo del progresso si aggiunge poi quello che sarebbe accaduto una decina di anni dopo con la diffusione delle compagnie aeree low cost, che rendono il viaggio un lusso alla portata di tutti, con l’abbassamento delle tariffe per i telefoni cellulari e l’introduzione dei piani di connessione flat e, poi, anche con la nascita degli smartphone che permettono di essere connessi 24 ore su 24, ecco che il villaggio globale sembrava stesse per prendere forma.
L’abbattimento delle barriere fisiche e la velocità di entrare in connessione ci hanno spinti a credere in un nuovo Rinascimento; la new economy e le sue magnifiche sorti e progressive si sono invece ridotte a una bolla di sapone e il villaggio globale ha fatto un po’ la fine della Torre di Babele.
Il tutto si è risolto in un insieme di circoli separati in cui ci si incontra fra simili che parlano la stessa lingua ma che non escono dall’ecosistema che si sono creati. Infatti, da quando la rete ha offerto la possibilità di differenziare le proprie scelte, attingendo a fonti e a mondi inesauribili, abbiamo paradossalmente riscoperto una nuova dimensione umana della piazza, del clan, della comunità di appartenenza. Il gruppo ci rassicura e ci protegge.
La rete in sé è “neutrale”, non è certo responsabile di aver provocato questa tendenza alla segregazione. Ha semplicemente favorito l’emergere o il riemergere di tutti i limiti umani che determinano la sua magnifica natura e assieme la sua più profonda e imperfetta bellezza: la ricerca dell’emancipazione dalla dipendenza dagli altri pur volendo la conferma negli altri. Affermare il sé per mezzo degli occhi di un interlocutore e restare intimamente soggiogati da questo gioco.
Entrare in un gruppo è oggi molto più facile di un tempo; pensiamo a quello che succede sui social, dove l’importante è esserci, attirare l’attenzione e nutrire il proprio pubblico.
Prendiamo il fenomeno del blog. I diari in rete sono una delle prime manifestazioni dell’io messo in condivisione, un io che pensa di avere qualcosa che sia giusto spartire con gli altri, probabilmente e possibilmente vicini a lui. Vanno a crearsi, in questo modo, comunità di utenti che hanno interessi simili, che si confrontano su temi partecipati e che, attraverso lo strumento del blogroll, evidenziano blog altrettanto degni di interesse. Musica, letteratura, politica, sport: c’è una fase in cui i blogger diventano piccoli opinion leader o lirici 2.0. O almeno questo è ciò a cui aspirano.
Nella fase di massimo splendore dei diari virtuali, qualcuno è riuscito davvero a farsi notare. La sezione commenti a conclusione dei post è lunga e molto frequentata; spesso plaudendo, e a volte invece criticando aspramente, si definiscono gruppi contrapposti. E la contrapposizione è funzionale alla definizione del sé. Il nemico esterno unisce, sia esso l’ignorante che non ha studiato, il cialtrone di turno che scarica le sue frustrazioni online, la mamma che si confida e consiglia con le altre mamme.
Con la diffusione dei social media, però, abbiamo assistito a un ulteriore cambiamento. Col tempo il blog è divenuto un mezzo più di nicchia e più professionale, e ha perso la caratteristica iniziale di “sfogatoio esistenziale”. Perché perdere tempo con testo scritto, ricerca, preparazione e caricamento delle foto, quando esistono piattaforme più facili e immediate che praticamente fanno tutto da sé? Se il blog richiede un minimo di impegno, di motivazione e di conoscenza della piattaforma, Facebook necessita solo di un paio di operazioni base davvero alla portata di tutti. Anche di quel pubblico inizialmente diffidente nei confronti di internet.
Il livello di specializzazione si abbassa ulteriormente al punto che i social network conquistano anche le generazioni “carta e penna” che non hanno alcuna familiarità con questi strumenti e che forse non conoscono potenzialità o possibili conseguenze di post e commenti in virtù dell’assenza di limiti spaziotemporali peculiari. Sia chiaro: questo problema non investe solo le vecchie generazioni, altrimenti non ci troveremmo di fronte a fenomeni preoccupanti che riguardano principalmente i giovani come quello del cyberbullismo.
Viene in mente il caso relativamente recente della signora Gabriella Maria.
Gabriella Maria è il prototipo della cosiddetta casalinga di Voghera nell’epoca della disintermediazione del web: non pienamente consapevole dello strumento che sta usando, è iscritta a Facebook da meno di un anno quando assurge agli onori della cronaca per aver offeso pesantemente la presidente della Camera Laura Boldrini. La signora in questione è solo una delle tante persone che lo fa ogni giorno, ma lei non l’ha passata liscia, come accade invece a milioni di utenti nel mondo che si esibiscono nell’esercizio del tiro al bersaglio dietro uno schermo.
Il suo comportamento infatti viene denunciato dalla stessa presidente che, nella giornata contro la violenza sulle donne, decide di rendere pubblici i nomi e cognomi degli autori dei commenti violenti e spesso sessisti che riceve quotidianamente. Si legge nel post del profilo ufficiale di Laura Boldrini:
Nella giornata contro la violenza sulle donne vorrei sottoporre alla vostra attenzione un fenomeno sempre più frequente e inaccettabile: l’utilizzo nei social network di volgarità, di espressioni violente e di minacce, nella quasi totalità a sfondo sessuale. Ho selezionato e vi mostro solo alcuni messaggi tra quelli insultanti ricevuti nell’ultimo mese. Ho deciso di farlo anche a nome di quante vivono la stessa realtà ma non si sentono di renderla pubblica e la subiscono in silenzio. Ho deciso di farlo perché troppe donne rinunciano ai social pur di non sottostare a tanta violenza. Ho deciso di farlo perché chi si esprime in modo così squallido e sconcio deve essere noto e deve assumersene la responsabilità. Leggete questi commenti e ditemi: questa si può definire libertà di espressione?
Fra questi haters c’è appunto la signora Gabriella Maria, circa sessant’anni, probabilmente ignara di ciò che potrà scatenare semplicemente cliccando sul tasto Invio. Del resto si tratta di internet, non della vita vera, e poi non è l’unica che scrive quelle cose. L’omologazione sociale in questi contesti gioca un ruolo non da poco, anche negli individui che da un bel pezzo hanno superato la fase critica dell’adolescenza. Alla giornalista che la intervista per “la Repubblica” dice: «Prima avevo un telefonino semplice, ma sentivo mia cognata che stava su Facebook. Mio figlio ha cambiato il suo e mi ha dato questo nuovo – tira fuori il telefono dalla tasca della tuta [ndr] – mi ha iscritto lui. La sera, quando finalmente riesco a sedermi, mio marito vuole guardare sempre i programmi di politica e allora io mi metto su Facebook». Poi chiarisce: «Vedo quello che mi appare, mi trovo delle cose davanti perché le mettono gli amici, le leggo e se mi piacciono metto un commento, una faccina oppure vado avanti»1.
E così si è ritrovata anche lei vittima di un’ondata di insulti; quarantott’ore durante le quali l’altra parte della rete ha deciso di rendere la pariglia, realizzando un effetto domino che probabilmente non era quello che la stessa Boldrini si aspettava.
Prima ancora era stata la volta dei forum, i newsgroup di discussione tematica, solitamente tecnici, che mettono insieme appassionati o seguaci per intavolare discussioni specifiche, chiedere aiuto o consigli. Anche questi casi non erano e non sono immuni da toni spesso estremi, tanto che si può dire che quello dei forum è il terreno in cui lo strumento del ban si è diffuso in maniera sistematica, affinando tecniche e metodi che ritroviamo ora nella pagine e dei gruppi di Facebook.
Le bolle, dicevamo: comunità in cui ci si ritrova fra simili e nelle quali in realtà c’è poco spazio per il dissenso. Che fine ha fatto il sogno di una comunicazione totale?
Secondo Eli Pariser2 sarebbe tutto colpa dell’algoritmo, della personalizzazione delle ricerche, dei cookies. Insomma una conseguenza tecnica del sistema che gestisce i dati immessi dagli utenti, anche involontariamente, attraverso la propria attività sul web che indica gusti, preferenze, tendenze. Peccato che non ci siano grandi evidenze empiriche di questa ipotesi: il ruolo degli algoritmi è tuttora materia di studio e ampiamente dibattuto.
Qualche risposta potrebbe venire invece da matematica, informatica e scienze sociali.
Nel 2009 con un articolo pubblicato su “Science” dal titolo Computational Social Science3, David Lazer – professore alla Northeastern University – assieme ad altri colleghi ha sancito la nascita dell’omonimo campo di ricerca.
Le scienze sociali computazionali altro non fanno che unire diverse discipline utili a misurare in maniera massiccia e precisa alcune dinamiche sociali, lavorando sui cosiddetti big data e sulle numerose tracce che lasciamo nel nostro girovagare fra i vari ambienti del web.
Numeri, percorsi e intrecci, se ben modellati, danno la possibilità di identificare e accedere in maniera empirica ai meccanismi di azione e di interazione sociale, partendo dal “micro” e arrivando al “macro”, permettendo quindi un’analisi della società contemporanea che supera i limiti della teoria e delle speculazioni.
Le scienze sociali computazionali permettono di avviare interessanti esplorazioni del nostro tempo: cosa mi piace? Quanto mi piace quello che mi piace? Con chi interagisco? Per quanto tempo? Chi evito come la peste? Cosa mi fa arrabbiare? Quali film e libri amo? Quali giornali leggo? Dove mi informo? Quali politici ritengo credibili? Quali no?
Trovare la risposta a queste domande per ogni singolo utente della rete renderebbe possibile tracciare un enorme quadro della nostra società e arrivare addirittura a predire in che direzione stiamo andando. Per il momento, attraverso le scienze sociali computazionali sono stati compiuti notevoli progressi per quanto riguarda la comprensione di alcuni fenomeni, come la diffusione e il consumo delle informazioni, la nascita delle varie narrazioni, il contagio sociale e la diffusione della disinformazione sui social network, Facebook in testa.
Quello creato da Mark Zuckerberg è un ambiente particolarmente interessante da osservare al microscopio e neanche troppo difficile dal punto di vista dell’accessibilità dei dati. Si possono scaricare i post delle pagine e da lì vedere chi ha messo like, chi ha commentato e cosa ha scritto. Questo permette facilmente di capire quali siano i gusti degli utenti, i topic che coinvolgono di più, gli argomenti di dibattito feroce e quelli meno incendiari. Questo tipo di approccio permette anche di identificare gruppi tematici in cui gli utenti cooperano per rafforzare e supportare la propria narrazione nel caso della diffusione di informazioni false. In qualche modo, la combinazione della data science e dei modelli della fisica ci dà il privilegio di osservare la società come se la stessimo guardando al microscopio: al posto delle lenti abbiamo le equazioni e gli algoritmi, al posto delle cellule i dati, ma il comportamento emergente non è meno entusiasmante dei risultati della biologia.
Per capire le potenzialità di questo strumento e l’entità del fenomeno bastano alcuni numeri. Nel mondo tre miliardi e settecento milioni di persone usano internet; quasi la metà della popolazione globale. Molti di loro però sono solo parzialmente connessi a causa del digital divide che non assicura velocità di navigazione adeguata; avete presente il nostro caro modem 56k e il rumore della telefonata che ci segnalava i tentativi di connettersi alla rete? Non è questo il caso degli USA, dove si utilizzano ogni minuto più di 2,6 milioni di gigabyte. Questi i numeri del rapporto 2017 di Domo4, la società americana che si occupa di data visualization e analisi dei dati.
Se invece vogliamo concentrarci solo su Facebook, secondo il portale Statista5, ad agosto 2017 il popolare social network poteva contare su due miliardi di utenti attivi ogni mese, il doppio del 2012.
Per guardare le cose di casa nostra, infine, citiamo l’ultimo rapporto Censis sulla comunicazione in Italia6. «Internet ha raggiunto una penetrazione del 75,2% della popolazione, l’1,5% in più rispetto all’anno precedente e il 29,9% in più rispetto al 2007. Il 65,7% utilizza WhatsApp e metà degli italiani usa Facebook (56,2%) e YouTube (49,6%). In due anni sono state raddoppiate anche le presenze su Instagram (dal 9,8% al 21%). Meno popolare invece è Twitter (13,6%), così come nel resto del mondo. La quota di utenti della rete arriva al 90,5% però se si considera la fascia di età fra i 14 e i 29 anni. Il 79,9% degli under 30 è iscritto a Facebook e il 75,9% usa YouTube. Facebook è la piattaforma social più utilizzata di sempre e si comprende bene come ciò che accade al suo interno, se opportunamente misurato, possa essere rappresentativo, nonché motore e propellente di importanti dinamiche sociali».
Internet è la risposta giusta: questo ci hanno promesso i suoi propugnatori. Lo strumento capace di democratizzare gli aspetti positivi dell’umanità e disgregare quelli negativi, creando così un mondo aperto e paritario. Eppure oggi che internet è arrivata a collegare quasi tutto e tutti sul pianeta, è chiaro che si tratta di una falsa promessa. In realtà i suoi fautori ci presentano quello che nella Silicon Valley viene definito il campo di distorsione della realtà, una visione tutt’altro che veritiera. Lungi dall’essere un successo generale, internet appare più simile a un circuito chiuso di feedback negativo, e noi utenti in rete ne siamo le vittime anziché i beneficiari. Piuttosto che la risposta giusta, di fatto internet è la domanda centrale del mondo interconnesso del XXI secolo.7
Così Andrew Keen nel 2012 scriveva nelle prime pagine di Internet non è la risposta, mostrando già una serie di crepe nella fiducia apparentemente inossidabile nei confronti dello strumento che secondo le aspettative avrebbe dovuto cambiare la nostra vita solo in meglio. E lo faceva ben prima della diffusione degli haters della porta accanto, del trionfo della post-truth o delle accuse rivolte ai social network, in particolare a Twitter, per la vittoria di Donald Trump alle ultime presidenziali USA.
Keen forse si riferisce a pensatori come Pierre Lévy, il quale all’inizio dell’era di internet credeva che «l’interconnessione dei computer sarebbe stato un vettore di sviluppo e di crescita dell’intelligenza collettiva».
In una successiva intervista rilasciata a “Le Monde”, Lévy spiegava: «Noi non siamo intelligenti che collettivamente grazie ai differenti saperi trasmessi di generazione in generazione. E internet è semplicemente più potente della stampa, della radio e della televisione perché permette una comunicazione trasversale e un migliore utilizzo della memoria collettiva»8.
È vero che internet ha fatto molto non solo per Trump e per i promotori della Brexit, e che è uno strumento insuperabile per il reclutamento e la formazione di nuovi terroristi su scala internazionale, ma senza cedere a una visione quasi apocalittica, internet ha permesso anche ai giovani nordafricani di Egitto e Tunisia di far sentire ovunque la propria voce. Certo, ha anche illuso i siriani di poter fare lo stesso prima che incappassero in una feroce repressione, ma ha certamente aperto una finestra su realtà distanti.
Internet è quello strumento che ha permesso a un italiano, Salvatore Iaconesi, di comunicare e far comunicare fra di loro specialisti di tutto il mondo per cercare la cura migliore per il suo tumore al cervello ed è così che ha trovato, in Italia, il neurochirurgo Vincenzo Esposito che lo ha operato.
Internet, insomma, è Giano bifronte. Ma qual è il meccanismo che regola le dinamiche del web? Se vale ancora l’assunto che il mezzo è il messaggio, sarà più facile capire come dalla peculiarità della rete – cioè la disintermediazione – derivino tutte le dinamiche del web, positive, negative fino alle più dist...