Rosalia Perlungo
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Trittico siciliano con polena

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Trittico siciliano con polena

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Storie di un'isola, metafora del venire e del partire, del vivere e del morire. Tre racconti che si muovono al rintocco lento di un orologio metafisico, che sfumano dalla realtà al mito, che narrano il tempo interiore dove profondo è il mistero, ma dove ancora fiorisce una conchiglia. Personaggi nuovi e antichi, piccoli e semplici, maestosi e inquietanti, che ripercorrono sentieri dimenticati, ma ancora nostri, come un "oboe sommerso".

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Informazioni

Editore
Kimerik
Anno
2020
ISBN
9788855164313

Santaluna
S’era fatto un rifugio, quasi all’aperto, sistemato in una stanza-caverna ricavata da una rocca spiovente, semichiusa da un fico e da un vecchio ombrellone sbiadito piantato accanto alla carcassa arrugginita di una Fiat celeste. Lo avevano buttato fuori la moglie e le due figlie, Tecla e Sarina, ormai sulla strada del progresso da quando lei era l’amante-criàta del farmacista e le figlie gestivano il Bar delle Sirene alla periferia di Portolungo. Dicevano che lui giocava troppi soldi al lotto e le aveva rovinate, privandole pure di una sottana. In verità volevano fare il comodo loro, così mormorava la gente, perché per troppo tempo erano state prive di svago e considerazione.
Santaluna ora se ne fotteva, dopo anni di litigi e di ricatti, si sentiva come tornato o munnu, alla libera natura a cui diceva di appartenere totalmente. I soldi erano per lui come i fuochi d’artificio alla festa di San Rocco, piccole e grandi scintille nel buio, per farlo sognare.
Almeno una volta l’anno, ad aprile, durante la festa di primavera sulla spiaggia del Cicero, seguiva un raduno di ambulanti, ex tonnaroti, emigranti di ritorno, vecchi conoscenti ai quali si univano turisti di passo, zingari, albanesi e ragazzi di tutte le contrade a cui Santaluna offriva càlia, semi di pistacchio e cannelline colorate, come una volta. Come quando da ragazzino, prima di andare in America, suo padre lo trascinava per le fiere dei paesi vicini fino a Zafferana sotto Mongibello, col banchetto della càlia, della liquirizia e dello zucchero filato, sormontato da una vecchia polena sbiadita. Negli ultimi anni, alla fiera vi andava a suonare a tarda notte un’orchestrina sgangherata, reduce della vecchia murga carnevalesca, quando ancora in quelle contrade il Carnevale era re.
In questa occasione Santaluna, quasi con solennità rituale, lasciava la sua dimora e scendeva a mare, come per un viaggio lungo. Preparava pipa, tabacchiera e vestiva una camicia bianca consumata ma stirata per bene, forse da Maria la Pazza che nel suo catoio, messo a nuovo con calce celeste, ammassava poche masserizie e tanta solitudine. Santaluna si teneva ai margini della strada a osservare il via vai della festa, portava un fasciacollo color cannella che si confondeva con il colore della sua pelle e un berretto nero di velluto come il vecchio gilet. Al crepuscolo, prima che la festa diventasse un’orgia di musica dentro la notte, si fermava sotto il pergolato del Totano a mangiare una ghiotta di pesce stocco o pasta con le sarde affogate nel finocchietto selvatico. Offriva vino ai suonatori, preso a bidoni nella trattoria del Cane, fumava, socchiudendo gli occhi, poi lentamente, si avviava al suo ovile ascoltando l’eco della baraonda che si frantumava in ricordi lontani. Ne aveva fatti di soldi Santaluna, prima in America, dove da ragazzo lavorava come barbiere e buscava molte mance italo-americane, mentre nei ritagli di tempo vendeva gelati con una carretta addobbata di nastrini, sonagli e bandierine tricolore nei quartieri di Little Italy.
«Aiss… crima! Aiss… crima!» questo grido gli tornava alla mente, talvolta, nei dormiveglia mattutini, quando il vociare dei pescatori si confondeva con l’eco del vento prigioniero tra i canneti e la rocca di Calavà battuta dalle onde.
Là, nella lontana America, si era iniziato al lavoro vero e al sesso di strada. Talvolta, finito il giro col carretto nella tarda ora vespertina, si fermava sotto le scale fatiscenti di un isolato lugubre e quasi disabitato, in cui resistevano ancora alcune famiglie di immigrati polacchi, dove l’aspettava la dolce e triste Irenenka dagli occhi pervinca spaventati. Su per le scale, in cima al sottotetto, su di un divano sgangherato respiravano insieme la polvere del tempo e delle prime stelle.
Poi, nei primi anni Sessanta, era tornato al paese. Dicevano che ora in Italia si stava meglio e c’erano molti negozi e trattorie per mangiare. Così, aveva aperto un piccolo salone di bellezza-estetica-parrucchiera alla marina di Portolungo, quando le signore di buona famiglia provavano le prime permanenti e affittavano biondi toupet per le feste d’estate. Le rotonde sul mare luccicavano e le giovani ragazze osavano ballare il twist, bere Rosso Antico e fumare le prime sigarette. Era quasi come… all’America, si diceva nei pensieri confusi della notte. Gli restava, di quei tempi, qualche confezione di shampoo L’Oréal e qualche scatola di brillantina Linetti che a volte usava ancora, specchiandosi nello specchietto opaco e arrugginito della sua vecchia Fiat. Conservava, inoltre, tra la poca biancheria ammassata in uno scatolone, qualche disco consumato; eredità di suo padre, buonanima, che li aveva presi insieme a due teste di Caltagirone dal maestro Vitale, quando l’avevano trovato morto dopo due giorni nella grande casa di pietra in fondo al paese. Le teste ora, restavano immobili come gorgoni, ai lati del cancello della sua vecchia casa perduta. Meglio non guardarle. Quante volte aveva ascoltato Il tango delle capinere, Buongiorno tristezza, Le mille bolle blu sul grammofono sgraffignato dalle figlie; si era accontentato quindi di un più moderno mangiadischi che custodiva gelosamente come una reliquia. Poi si ruppe pure quello: fu all’Ottava di Pasqua, quando sfilavano le verginelle incoronate d’oro e lui invece sacramentava tra la curiosità divertita dei passanti. Ormai Santaluna andava per i settanta ed era finita l’illusione di dominare il mondo, insieme alla giovinezza.
«Si nni jeru si nni jeru li me anni… luntanu si nni jeru, un sacciu unni» ogni tanto recitava senza canto, calpestando con un bastone, nelle lunghe giornate di maggio, i bordi fioriti di papaveri o respirando il vento carico di salsedine che tornava dalle isole.
Chiusa da tempo l’attività, gli restava un piccolo deposito in banca che per le sue primordiali esigenze poteva ancora bastare. Lui si accontentava di poco, ma non voleva gli rubassero la libertà, messa a repentaglio da tre femmine che avevano portato alla malora il negozio e la casa, desiderose solo di spassu e di passìu. I tempi erano cambiati, è vero, ma forse quello con Ninetta non era stato amore… ma brodu di luppìnu, peggiu da Merica. Così pensava, seduto sotto il fico. Almeno in America Irenenka gli chiedeva poco e se n’era andata in punta di piedi, chissà dove. Una sera di tarda primavera gli aveva pure regalato un berretto da marinaio, un po’ sgualcito, preso chissà dove. Ora non giocava più con l’amore, ma coi numeri e le fantasie. Il lotto qualche volta lo aveva premiato, ma adesso, da parecchi anni, non azzeccava neppure un ambo, nonostante i sogni smorfiati dalla dirimpettaia della casa gialla, donna Lucilla Gemma, che ne sapeva una più del diavolo.
«Santaluna!» gli ripeteva, «Tu non giochi più col cuore, perciò non vinci».
E alludeva alla breve storia vissuta con lui, per sbaglio, nell...

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