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Rosalia Perlungo
Trittico siciliano con polena
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Rosalia Perlungo
Trittico siciliano con polena
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Ă propos de ce livre
Storie di un'isola, metafora del venire e del partire, del vivere e del morire. Tre racconti che si muovono al rintocco lento di un orologio metafisico, che sfumano dalla realtĂ al mito, che narrano il tempo interiore dove profondo Ăš il mistero, ma dove ancora fiorisce una conchiglia. Personaggi nuovi e antichi, piccoli e semplici, maestosi e inquietanti, che ripercorrono sentieri dimenticati, ma ancora nostri, come un "oboe sommerso".
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HistorySous-sujet
Historical Theory & CriticismSantaluna
Sâera fatto un rifugio, quasi allâaperto, sistemato in una stanza-caverna ricavata da una rocca spiovente, semichiusa da un fico e da un vecchio ombrellone sbiadito piantato accanto alla carcassa arrugginita di una Fiat celeste. Lo avevano buttato fuori la moglie e le due figlie, Tecla e Sarina, ormai sulla strada del progresso da quando lei era lâamante-criĂ ta del farmacista e le figlie gestivano il Bar delle Sirene alla periferia di Portolungo. Dicevano che lui giocava troppi soldi al lotto e le aveva rovinate, privandole pure di una sottana. In veritĂ volevano fare il comodo loro, cosĂŹ mormorava la gente, perchĂ© per troppo tempo erano state prive di svago e considerazione.
Santaluna ora se ne fotteva, dopo anni di litigi e di ricatti, si sentiva come tornato o munnu, alla libera natura a cui diceva di appartenere totalmente. I soldi erano per lui come i fuochi dâartificio alla festa di San Rocco, piccole e grandi scintille nel buio, per farlo sognare.
Almeno una volta lâanno, ad aprile, durante la festa di primavera sulla spiaggia del Cicero, seguiva un raduno di ambulanti, ex tonnaroti, emigranti di ritorno, vecchi conoscenti ai quali si univano turisti di passo, zingari, albanesi e ragazzi di tutte le contrade a cui Santaluna offriva cĂ lia, semi di pistacchio e cannelline colorate, come una volta. Come quando da ragazzino, prima di andare in America, suo padre lo trascinava per le fiere dei paesi vicini fino a Zafferana sotto Mongibello, col banchetto della cĂ lia, della liquirizia e dello zucchero filato, sormontato da una vecchia polena sbiadita. Negli ultimi anni, alla fiera vi andava a suonare a tarda notte unâorchestrina sgangherata, reduce della vecchia murga carnevalesca, quando ancora in quelle contrade il Carnevale era re.
In questa occasione Santaluna, quasi con solennitĂ rituale, lasciava la sua dimora e scendeva a mare, come per un viaggio lungo. Preparava pipa, tabacchiera e vestiva una camicia bianca consumata ma stirata per bene, forse da Maria la Pazza che nel suo catoio, messo a nuovo con calce celeste, ammassava poche masserizie e tanta solitudine. Santaluna si teneva ai margini della strada a osservare il via vai della festa, portava un fasciacollo color cannella che si confondeva con il colore della sua pelle e un berretto nero di velluto come il vecchio gilet. Al crepuscolo, prima che la festa diventasse unâorgia di musica dentro la notte, si fermava sotto il pergolato del Totano a mangiare una ghiotta di pesce stocco o pasta con le sarde affogate nel finocchietto selvatico. Offriva vino ai suonatori, preso a bidoni nella trattoria del Cane, fumava, socchiudendo gli occhi, poi lentamente, si avviava al suo ovile ascoltando lâeco della baraonda che si frantumava in ricordi lontani. Ne aveva fatti di soldi Santaluna, prima in America, dove da ragazzo lavorava come barbiere e buscava molte mance italo-americane, mentre nei ritagli di tempo vendeva gelati con una carretta addobbata di nastrini, sonagli e bandierine tricolore nei quartieri di Little Italy.
«Aiss⊠crima! Aiss⊠crima!» questo grido gli tornava alla mente, talvolta, nei dormiveglia mattutini, quando il vociare dei pescatori si confondeva con lâeco del vento prigioniero tra i canneti e la rocca di CalavĂ battuta dalle onde.
LĂ , nella lontana America, si era iniziato al lavoro vero e al sesso di strada. Talvolta, finito il giro col carretto nella tarda ora vespertina, si fermava sotto le scale fatiscenti di un isolato lugubre e quasi disabitato, in cui resistevano ancora alcune famiglie di immigrati polacchi, dove lâaspettava la dolce e triste Irenenka dagli occhi pervinca spaventati. Su per le scale, in cima al sottotetto, su di un divano sgangherato respiravano insieme la polvere del tempo e delle prime stelle.
Poi, nei primi anni Sessanta, era tornato al paese. Dicevano che ora in Italia si stava meglio e câerano molti negozi e trattorie per mangiare. CosĂŹ, aveva aperto un piccolo salone di bellezza-estetica-parrucchiera alla marina di Portolungo, quando le signore di buona famiglia provavano le prime permanenti e affittavano biondi toupet per le feste dâestate. Le rotonde sul mare luccicavano e le giovani ragazze osavano ballare il twist, bere Rosso Antico e fumare le prime sigarette. Era quasi come⊠allâAmerica, si diceva nei pensieri confusi della notte. Gli restava, di quei tempi, qualche confezione di shampoo LâOrĂ©al e qualche scatola di brillantina Linetti che a volte usava ancora, specchiandosi nello specchietto opaco e arrugginito della sua vecchia Fiat. Conservava, inoltre, tra la poca biancheria ammassata in uno scatolone, qualche disco consumato; ereditĂ di suo padre, buonanima, che li aveva presi insieme a due teste di Caltagirone dal maestro Vitale, quando lâavevano trovato morto dopo due giorni nella grande casa di pietra in fondo al paese. Le teste ora, restavano immobili come gorgoni, ai lati del cancello della sua vecchia casa perduta. Meglio non guardarle. Quante volte aveva ascoltato Il tango delle capinere, Buongiorno tristezza, Le mille bolle blu⊠sul grammofono sgraffignato dalle figlie; si era accontentato quindi di un piĂč moderno mangiadischi che custodiva gelosamente come una reliquia. Poi si ruppe pure quello: fu allâOttava di Pasqua, quando sfilavano le verginelle incoronate dâoro e lui invece sacramentava tra la curiositĂ divertita dei passanti. Ormai Santaluna andava per i settanta ed era finita lâillusione di dominare il mondo, insieme alla giovinezza.
«Si nni jeru si nni jeru li me anni⊠luntanu si nni jeru, un sacciu unni» ogni tanto recitava senza canto, calpestando con un bastone, nelle lunghe giornate di maggio, i bordi fioriti di papaveri o respirando il vento carico di salsedine che tornava dalle isole.
Chiusa da tempo lâattivitĂ , gli restava un piccolo deposito in banca che per le sue primordiali esigenze poteva ancora bastare. Lui si accontentava di poco, ma non voleva gli rubassero la libertĂ , messa a repentaglio da tre femmine che avevano portato alla malora il negozio e la casa, desiderose solo di spassu e di passĂŹu. I tempi erano cambiati, Ăš vero, ma forse quello con Ninetta non era stato amore⊠ma brodu di luppĂŹnu, peggiu da Merica. CosĂŹ pensava, seduto sotto il fico. Almeno in America Irenenka gli chiedeva poco e se nâera andata in punta di piedi, chissĂ dove. Una sera di tarda primavera gli aveva pure regalato un berretto da marinaio, un poâ sgualcito, preso chissĂ dove. Ora non giocava piĂč con lâamore, ma coi numeri e le fantasie. Il lotto qualche volta lo aveva premiato, ma adesso, da parecchi anni, non azzeccava neppure un ambo, nonostante i sogni smorfiati dalla dirimpettaia della casa gialla, donna Lucilla Gemma, che ne sapeva una piĂč del diavolo.
«Santaluna!» gli ripeteva, «Tu non giochi piĂč col cuore, perciĂČ non vinci».
E alludeva alla breve storia vissuta con lui, per sbaglio, nell...