Uscita di sicurezza
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Uscita di sicurezza

  1. 304 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Uscita di sicurezza

Informazioni su questo libro

Pubblicato nel 1965, Uscita di sicurezza contiene una serie di brevi saggi, interventi, conferenze e ricordi che coprono i decenni tra gli anni Quaranta e Sessanta. Si tratta di testi dal carattere fortemente autobiografico e che proprio nella misura del vissuto più bruciante si propongono come opera letterariamente compiuta dello scrittore abruzzese. Dalle lucide riflessioni sulle trasformazioni sociali in atto nell'Italia del dopoguerra al tormentato e continuo interrogarsi sul significato della scrittura, dal controverso e sofferto rapporto con il Partito comunista all'esilio svizzero e al fascismo, Uscita di sicurezza si rivela così, pagina dopo pagina, come uno straordinario autoritratto politico-morale dell'uomo Silone.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804496816
eBook ISBN
9788852056178

Uscita di sicurezza

(1949)
Non vi si pensa, quanto sangue costa
Dante, Paradiso, XXIX

1

Quella sera di novembre del 1926, subito dopo la promulgazione delle “leggi eccezionali”, ci eravamo salvati in parecchi dall’arresto in un villino di un sobborgo milanese, qualche tempo prima affittato da un nostro compagno che si fingeva pittore. Nei quartieri popolari le vie erano deserte, le osterie chiuse, silenziose, le case buie. Ciò dava alla città, in quella stagione umida e fredda, un carattere tetro. La forza pubblica operava nei quartieri popolari incursioni vaste e subitanee, in pieno assetto di guerra, cingendo di assedio i casamenti sospetti, come se si trattasse di fortilizi nemici. Il numero degli arrestati era già assai elevato e si accresceva di giorno in giorno in base ai nomi e agli indirizzi che in quel modo risultavano dalle perquisizioni, dalle denunzie delle spie, dei provocatori e dalle deposizioni degli arrestati più deboli, costretti dalle minacce o dalla tortura.
Nelle altre città e province avveniva press’a poco lo stesso, su vasta scala. I giornali d’informazione che ancora potevano pubblicarsi (quelli di aperta opposizione erano stati soppressi proprio in quei giorni) avevano ricevuto l’intimazione di neppure accennare agli arresti, e di riferire invece gli elogi della dittatura italiana, espressi, a nostro scherno e mortificazione, da eminenti rappresentanti della democrazia e del liberalismo d’altri paesi. Ma il notiziario dei tre o quattro corrieri di partito, i quali raccoglievano nelle principali regioni la corrispondenza dei fiduciari provinciali e la portavano agli uffici centrali clandestini, non ci lasciava più alcun dubbio sul deliberato proposito della dittatura di sterminare una volta per sempre ogni traccia di resistenza avversaria. I comunisti erano i soli che disponessero allora di un’organizzazione clandestina di una qualche efficienza: ma in varie province le razzie poliziesche avevano già distrutto la rete dei nostri collegamenti. E numerosi erano i compagni che, sfuggiti all’arresto, ci chiedevano un rifugio duraturo in una città diversa dalla propria e documenti falsi per poter viaggiare e cercarsi una nuova “sistemazione”.
Quelli di noi che già da tempo vivevano con “generalità” alterate, dissimulando l’attività cospirativa sotto apparenze innocenti e banali, si trovavano allora in una condizione certamente più vantaggiosa; ma neppure troppo sicura, poiché l’eventuale tradimento o debolezza di qualcuno degli arrestati poteva offrire alla polizia indicazioni portanti sulle nostre tracce. Così anch’io quella sera, ero stato avvertito di non tornare a casa, apparendo la mia abitazione sorvegliata dalla polizia. Assieme ad altri che si erano venuti a trovare nelle stesse condizioni, cercammo dunque un rifugio provvisorio nel villino del nostro compagno finto pittore. Dopo aver messo un uomo di guardia nelle vicinanze e presi gli accordi per il caso di allarme, ci rassegnammo a passare la notte sulle sedie, dato che il villino era appena sommariamente mobiliato e non disponeva che di un solo letto.
Assieme al finto pittore e a sua moglie eravamo un finto turista spagnolo, un finto dentista, un finto architetto e una ragazza tedesca finta studentessa. Ci conoscevamo già da un paio d’anni, ma i nostri rapporti, fino a quel giorno, erano stati esclusivamente di collaborazione tecnica per incarico dei rispettivi uffici dell’organizzazione cospirativa; non avevamo ancora avuto tempo e modo di stringere amicizia. Tutt’al più qualcuno di noi conosceva degli altri il luogo d’origine e la situazione familiare, e ciò per gli inevitabili riflessi che questi dati spesso avevano sugli espedienti della complicata vita fuori legge. Perché dunque il fortuito incontro di quella sera m’è rimasto così a lungo impresso nella memoria?
Avvenne che il dentista a un certo momento disse:
«Questo pomeriggio sono passato davanti alla “Scala”. Una gran folla faceva coda per l’acquisto di biglietti per il prossimo spettacolo. Mi sono un po’ fermato a osservarla e ho avuto la netta impressione d’un corteo di pazzi.»
«Perché pazzi?» chiese il turista spagnolo. «Il teatro per te è follia?»
«Non in circostanze normali» ammise il dentista. «Ma, coi tempi che corrono, come ci si può distrarre? Si deve essere veramente maniaci.»
«L’arte non è solo e sempre distrazione» osservò il turista spagnolo.
«Se i musicomani potessero ora vederci e sapere di noi chi siamo e che facciamo» aggiunse il pittore «quasi certamente, a loro volta, ci considererebbero pazzi. Non è mica facile sapere chi siano i veri pazzi; forse è una delle scienze più difficili.»
Il tono che prendeva la conversazione non piaceva al dentista.
«Non si può rischiare la libertà e la vita come noi facciamo» egli replicò severamente «e poi ragionare come chi si trovi al di sopra della mischia.»
«Ci si può gettare nella mischia» rispose il pittore «si può dare calci e pugni all’avversario, ma non obbligatoriamente cornate. Non è meglio riservare la testa per altri usi?»
«La nostra lotta non è anche ideologica?» disse il turista spagnolo. «La tua testa non è impegnata?»
«La mia testa è impegnata, certo, ma non i miei occhi» spiegò allora il pittore sorridendo. «In altre parole» egli aggiunse «vorrei poter continuare a vedere le cose con i miei occhi.»
«Non capisco» dichiarò il dentista. «Il rischio che tu corri restando con noi mi sembra assai sproporzionato al tuo scarso impegno. È venuto il momento di spiegarci chiaramente.»
Vi fu una pausa di silenzio imbarazzante. La conversazione poteva finir male. Attraverso le finestre vedemmo passare sull’autostrada tre camion carichi di militi. La padrona di casa chiuse le persiane delle finestre e ci servì del caffè.
«Nella nostra epoca tutte le vie conducono al comunismo» disse il turista spagnolo per riportare l’armonia tra i compagni. «Non si può mica essere comunisti tutti alla stessa maniera. Quest’è la verità.»
«Sulla rivoluzione proletaria io ho scommesso la vita» rettificò il pittore. «Se non ho scommesso anche gli occhi è solo per riservarmi il diritto di vedere quello che succede della mia vita. Ma la vita è ormai scommessa. Allo stesso modo, tanto per spiegarmi meglio, una mia cara compagna di scuola si è fatta monaca, scommettendo la sua vita sul Paradiso. Sul Paradiso celeste, intendo dire, da non confondere col nostro. Posso assicurarvi che manterrò la scommessa. Perché non dovrei mantenerla? Nessuno ha il diritto di dubitare del mio onore.»
«Ma la rivoluzione proletaria» commentò duramente il dentista «non è un gioco d’azzardo.»
«So bene» spiegò il pittore «che la vincita della mia scommessa non dipende dall’azzardo, ma dall’abilità e forza dei giocatori e da tutto il resto di cui si legge nei manuali delle nostre scuole di partito. Ed è perciò che io vi partecipo non solo come scommettitore, ma anche come giocatore: come un giocatore interamente preso dalla partita e che ha scommesso se stesso. Interamente, ripeto, salvo gli occhi.»
«Non capisco» dichiarò il dentista.
«Insomma mi rifiuto di bendarmi» concluse il pittore. «Farò esattamente tutto quello che pretenderete, ma a occhi aperti.»
«Bene» disse a sua volta il turista spagnolo «ma non ho capito se a te la tua scommessa interessi più del resto. Ecco, scusa la domanda, avresti potuto anche scommettere, trovandoti in altre circostanze, per qualcos’altro del tutto diverso, che so io, la guerra, l’esplorazione del polo sud, l’assistenza ai lebbrosi, la tratta delle bianche, la fabbricazione delle monete false?»
«Perché no?» l’altro rispose ridendo. «Ma è probabile che anche in ognuna di quelle altre mie possibili professioni avrei cercato di mantenere gli occhi aperti, e cercato di capire.»
«Comunisti si nasce» dichiarò la ragazza tedesca.
«Uomo però si diventa» commentò il pittore.
«Insomma» gli chiese il dentista «si può sapere per quali circostanze tu hai finito con lo scommettere sul comunismo?»
«Ah, sarebbe una lunga storia» l’altro rispose gravemente. «E alcune cose, a essere sincero, per voi sarebbero incomprensibili.»
«Raccontaci la tua lunga incomprensibile storia» disse la ragazza tedesca. «Berremo caffè e veglieremo per ascoltarti. Anche se non capiremo, non fa niente. Le storie più belle sono incomprensibili.»
«E racconterete anche voi la vostra storia?» ci chiese il pittore in tono di sfida.
«D’accordo» consentì il dentista. «Berremo caffè e veglieremo.»
«Rifletteteci bene» ammonì il pittore. «Forse per voi è pericoloso volgervi indietro. Forse è pericoloso per ognuno, anche per me, mentre si è nella lotta, esaminare il perché e il come, guardarsi indietro. Ad un certo momento il gioco è fatto, rien ne va plus: chi è nel ballo deve ballare.»
«Ma si può separare la lotta dai motivi che ci han condotti a lottare?» chiese il turista spagnolo. «È pericoloso, secondo te, ricordarci i motivi che ci hanno condotti al comunismo?»
«La notte è lunga» disse la ragazza tedesca. «Raccontiamoci le nostre incomprensibili storie. Berremo caffè e resteremo svegli.»
Così passammo quella notte a cercare di spiegarci reciprocamente come e perché fossimo diventati comunisti. Le spiegazioni furono tutt’altro che esaurienti; ma al mattino eravamo diventati amici. «È proprio vero» ci dicemmo separandoci «che al comunismo si arriva da tutte le parti.»
(L’anno seguente il finto dentista fu arrestato, sottoposto a tortura, egli rifiutò di denunziare i suoi collaboratori e morì in carcere. Il finto pittore continuò a compiere il suo dovere politico fino alla caduta del fascismo; dopo la Liberazione si è ritirato a vita privata. Della ragazza tedesca non ho saputo più nulla.)
Ho ripensato spesso negli anni seguenti, alle confidenze di quell’incontro, poiché il bisogno di capire, di rendermi conto, di confrontare il senso dell’azione, in cui mi trovavo impegnato, con i motivi iniziali dell’adesione al movimento, si è impossessato interamente di me e non m’ha lasciato tregua e pace. E se la mia opera letteraria ha un senso, in ultima analisi, è proprio in ciò: a un certo momento scrivere ha significato per me assoluta necessità di testimoniare, bisogno inderogabile di liberarmi da una ossessione, di affermare il senso e i limiti di una dolorosa ma definitiva rottura, e di una più sincera fedeltà.
Lo scrivere non è stato, e non poteva essere, per me, salvo in qualche raro momento di grazia, un sereno godimento estetico, ma la penosa e solitaria continuazione di una lotta, dopo essermi separato da compagni assai cari. E le difficoltà con cui sono talvolta alle prese nell’esprimermi, non provengono certo dall’inosservanza delle famose regole del bello scrivere, ma da una coscienza che stenta a rimarginare alcune nascoste ferite, forse inguaribili, e che tuttavia, ostinatamente, esige la propria integrità. Poiché per essere veri non basta evidentemente essere sinceri. Non è dunque senza sforzo che, rinunciando alle parabole, mi sono accinto anche a questo racconto.

2

Al congresso di fondazione del Partito Comunista Italiano (Livorno 1921) io espressi l’adesione di gran parte della gioventù socialista, di cui facevo parte dal 1918. L’orientamento della gioventù socialista italiana, fin dal tempo della guerra, era stato così decisamente critico verso la social-democrazia riformista, che quell’atto non suscitò alcuna sorpresa. Non è però facile descrivere che cosa fosse allora la coscienza politica della maggioranza di noi; lo stesso termine di coscienza politica è eccessivo, per la prevalenza di elementi psicologici primitivi. Eravamo semplicemente in rivolta contro tutto e tutti. Ciò che sublimava le tendenze infantili e nevrotiche della nostra ribellione era l’immensa speranza accesa dalla Rivoluzione russa.
Quella sera del novembre milanese, volendo spiegare ai miei amici perché, all’età di 18 anni, in piena guerra, mentre ero ancora studente liceale, avessi aderito al socialismo zimmerwaldiano, dovetti, di gradino in gradino, risalire con la memoria alla prima adolescenza e menzionare perfino qualche episodio dell’infanzia, per ritrovarvi le più lontane origini della mia rivolta che, più tardi, assumendo forma e portata politica, doveva necessariamente rivelarsi estremista. Non è vanteria. A diciotto anni, e in tempo di guerra, difficilmente si entra in un movimento rivoluzionario perseguitato dal governo, per motivi futili o d’opportunità. Ma, al diavolo la psicologia e le facili suggestioni. È più sicuro cercare di ricostruire l’itinerario di un’esistenza dal di fuori.
Sono nato e cresciuto in un comune rurale nell’Abruzzo, in un’epoca in cui il fenomeno che più m’impressionò, appena arrivato all’uso della ragione, era un contrasto stridente, incomprensibile, quasi assurdo, tra la vita privata e familiare, ch’era, o almeno così appariva, prevalentemente morigerata e onesta, e i rapporti sociali, assai spesso rozzi, odiosi, falsi. Della miseria e disperazione delle province meridionali si conoscono (io stesso ne ho narrati) numerosi episodi desolanti; ma ora non intendo riferirmi ad avvenimenti clamorosi, sibbene ai piccoli fatti della vita quotidiana, monotoni banali usuali, in cui si manifestava quello strano doppio modo di essere della gente in mezzo alla quale io crescevo. E ogni tanto non mancavano fattacci in cui il disprezzo diventava scandalo, per chi non vi era abituato.
Ero ancora ragazzo quando, una domenica, mentre attraversavo la piazza accompagnato da mia madre, assistei allo stupito e crudele spettacolo d’un signorotto locale che aizzò un suo cagnaccio contro una donnetta, una sarta, che usciva di chiesa. La misera fu gettata a terra, gravemente ferita, i suoi abiti ridotti in stracci. Nel paese l’indignazione fu generale, ma sommessa. Nessuno mai capì come la povera donna concepisse poi l’infelice idea di sporgere querela contro l’ignobile signorotto; poiché n’ebbe solo il prevedibile risultato di aggiungere ai danni le beffe della giustizia. Ella fu, devo ripetere, compianta da ognuno e privatamente soccorsa da molti, ma non trovò un solo testimonio disposto a deporre la verità davanti al pretore, né un avvocato per sostenere l’accusa. Furono invece puntuali il difensore del signorotto (un avvocato considerato uomo di sinistra) e alcuni testimoni prezzolati che, sotto falso giuramento, diedero una versione del tutto grottesca del fatto, incolpando la donna di avere provocato il cane. Il pretore, in privato una degna e onesta persona, assolse il signorotto e condannò la povera donna alle spese del processo.
«L’ho fatto con mio grande rammarico» così il pretore, alcuni giorni dopo, si scusava in casa nostra. «Parola d’onore, credetemi, mi è assai dispiaciuto. Ma se, come privato cittadino, avendo io stesso assistito al disgustoso fattaccio, non potevo non riprovarlo, come giudice dovevo attenermi alle risultanze processuali; ed esse purtroppo, come sapete, sono state favorevoli al cane.» «Un vero giudice» quell’onesto pretore amava sentenziare «deve saper far tacere i propri sentimenti egoistici, ed essere imparziale.»
«Certo» commentava mia madre «ma che orribile mestiere. Meglio badare ai fatti nostri in casa nostra.» «Figlio mio», diceva a me «quando sarai grande, fa’ tutto quello che ti pare, ma non il giudice.»
Badare ai fatti propri, era la condizione fondamentale del vivere onesto e tranquillo, che ci veniva ribadita in ogni occasione. L’insegnamento della Chiesa lo confermava. Le virtù raccomandate concernevano esclusivamente la vita intima e familiare. Fin dai primi anni, a me invece piaceva molto stare per strada e i miei compagni preferiti erano figli dei contadini poveri. La tendenza a non farmi i fatti miei e la spontanea amicizia con i coetanei più poveri, dovevano avere per me conseguenze disastrose. Ovviamente anche i miei più vivi ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza sono di quella specie.
Di piccoli episodi esemplari, simili a quel processo del cane padronale e della sarta, ne conservo pertanto altri dolorosamente incisi nella memoria. Ma non vorrei, con simili storie, ingenerare il dubbio che da noi i sublimi concetti di giustizia e verità fossero ignorati e vilipesi; ah, tutt’altro. A scuola, in chiesa e nelle manifestazioni pubbliche se ne parlava spesso, con eloquenza e venerazione, come altrove. Ma in termini piuttosto astratti. Per caratterizzare meglio quella strana e veramente curiosa nostra situazione, devo aggiungere che essa riposava su un inganno di cui tutti, perfino i bambini, erano coscienti; e tuttavia essa durava, assisa dunque su qualche cosa d’altro che la stupidità o ignoranza delle persone.
Ricordo in proposito una vivace discussione sorta un giorno, nella classe di catechismo, tra noi ragazzi e il parroco. Ne fu causa una rappresentazione di marionette alla quale noi ragazzi, assieme al parroco, avevamo assistito il giorno prima. Il soggetto, lo ricordo benissimo, esponeva le drammatiche peripezie d’un bambino perseguitato dal diavolo. A un certo punto il bambino-marionetta era apparso sul proscenio tremante di paura e per sfuggire alle ricerche del diavolo si era nascosto sotto un lettino che occupava un angolo della scena. Poco dopo era sopraggiunto il diavolo-marionetta e l’aveva cercato invano.
«Eppure dev’essere qui», diceva il diavolo-marionetta «sento il suo odore. Adesso chiedo a questi bravi spettatori.» E rivolto a noi, aveva chiesto:
«Cari miei ragazzi, avete forse visto nascondersi in qualche posto quel bambinaccio che io cerco?»
«No, no, no» immediatamente gli rispondemmo in coro e con la più grande energia.
«Dove si trova dunque? Perché non lo vedo?» insisté il diavolo.
«È partito è andato via», noi gli rispondemmo «è andato a Lisbona.» (Nel nostro parlare e nei ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione. di Bruno Falcetto
  4. USCITA DI SICUREZZA
  5. Visita al carcere
  6. La chioma di Giuditta
  7. Incontro con uno strano prete
  8. Polikusc’ka
  9. Uscita di sicurezza (1949)
  10. Situazione degli ex (1942)
  11. La scelta dei compagni
  12. La lezione di Budapest (1956)
  13. La pena del ritorno
  14. Ripensare il progresso
  15. Postfazione. di Mimmo Franzinelli
  16. Note alla postfazione
  17. Copyright