Dolce vita
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Sesso, potere e politica nell'Italia del caso Montesi

  1. 357 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Dolce vita

Sesso, potere e politica nell'Italia del caso Montesi

Informazioni su questo libro

Quando Wilma Montesi viene trovata morta a Torvajanica la Questura di Roma tenta di archiviare il caso in tutta fretta come "morte accidentale". Ma lo scandalo scoppia lo stesso, e si espande fino a lambire la politica: tra i presunti colpevoli c'è infatti Piero Piccioni, figlio di Attilio erede designato di De Gasperi. Il processo infiamma la stampa e dalle gallerie di Via Margutta ai locali di Via Veneto, tra nobili, attori, paparazzi e avventuriere si moltiplicano mezze testimonianze e "sensazionali rivelazioni". Con il piglio narrativo di un romanziere, o di un regista, Stephen Gundle ricostruisce il caso e i suoi colpi di scena sullo sfondo dell'Italia della Dolce vita: una storia ancora viva nella memoria nazionale, come una sinistra avvisaglia di molti mali a venire.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2012
Print ISBN
9788817057158
eBook ISBN
9788858637869

Parte seconda

9
Muto sotto processo

La prima udienza del processo a Silvano Muto, accusato di aver diffuso «notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico», si tiene il 28 gennaio 1954. Tutti si aspettano che l’imputato reciti un mea culpa e la faccenda venga risolta in fretta. Invece, il giornalista dichiara con nonchalance di voler ritirare la ritrattazione che è stato costretto a firmare l’ottobre precedente, e sbalordisce la corte proclamando l’intenzione di dimostrare la veridicità della sua storia con l’aiuto di alcuni testi chiave. L’annuncio a sorpresa porta per la prima volta sotto i riflettori Adriana Bisaccia e Anna Maria Caglio, e l’interesse del pubblico nel caso torna ad accendersi. Le due testimoni però sono irreperibili. Il 10 gennaio la Bisaccia è stata ricoverata in ospedale per aver ingerito cinquanta pillole di chinino. Il motivo per cui ha tentato l’insano gesto è ignoto, e non appena dimessa è svanita nel nulla. Quanto alla Caglio, si suppone che sia fuori Roma, ma nemmeno il padre, a Milano, sa dove si trovi. L’udienza perciò viene aggiornata e la polizia riceve l’ordine di rintracciare senza indugio le due donne.
Quando il processo riprende il 4 marzo, ci sono tutti i presupposti per un dibattimento memorabile. La scelta degli avvocati difensori riflette la volontà di Muto di fare colpo. Uno è un illustre penalista di origine sarda, il comunista Giuseppe Sotgiu, che due anni prima aveva messo in grande apprensione il Vaticano vincendo le elezioni per la presidenza della provincia di Roma. L’altro, più giovane, è Giuseppe Bucciante, figlio di un generale di Chieti, che viene associato alla destra. L’accusa e i giudici sono decisi a evitare ogni spettacolarizzazione e fanno di tutto per ostacolare la difesa. In primo luogo, al collegio difensivo di fatto non viene concesso il tempo necessario per consultare i fascicoli del caso, di circa duemila pagine. Il pubblico ministero si fa beffe della richiesta di chiamare a deporre numerosi testi. Ma Sotgiu e Bucciante non demordono: certi del puntello dell’opinione pubblica, riescono a portare in aula gran parte dei loro testimoni.
Benché non siano imputati, Ugo Montagna e Piero Piccioni sono molto interessati al procedimento giudiziario e i loro legali si premurano di minimizzare l’impatto di eventuali rivelazioni fatte in tribunale o a mezzo stampa. Il 13 febbraio sono stati convocati separatamente dal procuratore capo Sigurani, che sta ancora conducendo la sua inchiesta sulla morte di Wilma Montesi, e hanno ribadito la loro estraneità ai fatti. Gli avvocati di Piccioni hanno rilasciato una dichiarazione secondo cui il loro assistito e il marchese sono semplici conoscenti, mentre il legale di Montagna, Girolamo Bellavista, ha ammesso l’esistenza di una relazione, ormai finita, tra il suo cliente e Anna Maria Caglio, la quale, ha aggiunto, era quindi mossa da risentimento nei suoi confronti. Per dimostrare l’amore della donna, ha subdolamente passato ai giornali estratti di alcune lettere, in cui, tra le altre cose, lei si rivolge all’amante con l’affettuoso epiteto di «ciccio patata».
Ma nel frattempo vengono a galla altri fatti imbarazzanti. Si scopre che due dei guardiani della tenuta di Capocotta sono stati licenziati nei giorni immediatamente successivi al ritrovamento del cadavere di Wilma, mentre un ufficiale dei carabinieri di Ostia, che ha condotto indagini per proprio conto, all’improvviso è stato trasferito. E quando i riflettori sono stati puntati sui movimenti di Piccioni nelle date cruciali del 9 e 10 aprile 1953, il suo difensore in un primo tempo ha affermato che si trovava a Milano, poi ha cambiato versione, sostenendo che era malato. Sembra che le prime ammissioni di Piccioni e Montagna impongano loro di stare sulla difensiva alla ripresa del processo.
Politici e magistrati lavorano febbrilmente dietro le quinte. Dopo le elezioni del giugno 1953, vari leader democristiani hanno cercato di formare una compagine governativa, ma la riluttanza dei piccoli partiti di centro a far parte di una coalizione ha reso impossibile la stabilità. I ministri cambiano dicastero a ogni nuovo tentativo. L’interesse del governo nel caso è correlato al fatto che Attilio Piccioni è diventato ministro degli Esteri in seguito al rimpasto del dicembre 1953. La carica di presidente del Consiglio al momento è affidata a Mario Scelba, uomo forte della politica, da cui ci si aspetta un’amministrazione all’insegna della sua ben nota fermezza. Tuttavia, il 18 febbraio, il quotidiano «Paese Sera», finanziato dal Pci, ha pubblicato una fotografia che lo ritrae accanto a un sorridente Ugo Montagna al matrimonio di Alfonso Spataro, figlio del ministro Giuseppe. La posizione dei due uomini lascia chiaramente intendere che sono i testimoni di nozze. A questo punto, Montagna è già stato dipinto dalla stampa come un tipo losco e nessun politico intende esporsi ammettendo di conoscerlo.
Tocca a uno dei più abili propagandisti e oratori del Pci, Giancarlo Pajetta, denunciare il fatto in parlamento. La foto, a suo dire, è la prova che l’uomo sospettato di essere coinvolto nella morte della Montesi è amico del presidente del Consiglio. Irritato, Scelba ribatte: «Sono stato fotografato anche insieme a lei, e non sono certamente suo amico». Nonostante la sgradita pubblicità, Scelba ottiene il voto di fiducia previsto per quel giorno alla Camera.
Come se non bastasse, è giunta la notizia che nel carcere dell’Ucciardone è stato avvelenato Gaspare Pisciotta, balzato agli onori della cronaca per aver tradito il suo capo, il bandito Salvatore Giuliano, che si era guadagnato un gran seguito in Sicilia come paladino dell’indipendenza dell’isola. Pisciotta si aspettava di venire ricompensato per la sua collaborazione, invece lo avevano condannato all’ergastolo, insieme ad altri componenti della banda. Furioso, il giorno della sentenza nell’aula del tribunale ha urlato che avrebbe rivelato gli accordi presi con le autorità dello Stato e la mafia. È opinione diffusa che lo abbiano eliminato per impedirgli di parlare. In qualità di presidente del Consiglio e siciliano, Scelba viene ritenuto doppiamente responsabile.
Tali sviluppi non fanno che accrescere l’interesse per la vicenda. Il 3 marzo, proprio alla vigilia della ripresa del processo, la procura diretta da Angelo Sigurani decide di archiviare l’inchiesta sulla morte di Wilma Montesi. Ha lavorato al caso per quasi dieci mesi, e ora conferma le conclusioni precedenti secondo cui la ragazza è deceduta in seguito a una disgrazia e non vi sono altre persone implicate. Qualunque ne sia il fine, il tempismo di questo annuncio non serve a placare l’eccitazione per l’imminente processo. Sono in pochi a sorprendersi quando, giovedì 4 marzo 1954, una folla immensa si raduna sulle rive del Tevere, fuori dal palazzo di giustizia. Edificio di monumentale e sgraziata bruttezza, inaugurato nel 1911 per il cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, rappresenta una delle molte, pompose proclamazioni di grandeur da parte di uno Stato incapace di realizzare i sogni romantici dei primi patrioti. A Roma come altrove, i grossi processi attirano sempre i curiosi, ma è la prima volta che una tale massa di persone converge sul cosiddetto «Palazzaccio». Poiché è un giorno feriale, quella moltitudine non è composta da lavoratori, benché alcune ragazze abbiano l’aria di essersela appena svignata da uffici e negozi. Avvocati e reporter si urtano con studenti, giovincelli eleganti dei Parioli in montgomery, uomini di mondo, esistenzialisti del quartiere degli artisti e parecchie donne. «Paese Sera» conclude: «È davvero il processo delle belle donne. Mai, in nessun altro dibattimento, si sono viste tante stupende signore».
È lo stesso genere di folla variegata che cinque anni prima si era accalcata per dare un’occhiata di sfuggita a Tyrone Power in occasione delle nozze con Linda Christian. E sebbene lo scialbo Silvano Muto non sia certo un adone, è ormai salito alla ribalta e sta diventando una sorta di eroe adesso che si sa della sua intenzione di contestare le accuse contro di lui. A dire il vero, nessuno voleva questo processo, men che meno le autorità, ma il pasticcio sui termini dell’amnistia ha messo in moto l’ingranaggio della giustizia e niente poteva impedire che il giovane direttore di «Attualità» finisse alla sbarra. Quando Muto scende dal taxi davanti al Palazzaccio, viene acclamato dalla gente. Tranquillo e riservato, porta gli occhiali scuri e una sciarpa di seta, e cerca di scomparire dentro il soprabito.
All’interno del tribunale, tre giudici nelle loro toghe nere e dorate siedono dietro un grande banco. Gli occhi di tutti seguono i familiari di Wilma Montesi mentre fanno il loro ingresso in aula e prendono posto. Rodolfo, Maria e Wanda sono accompagnati da Ida, la sorella di Rodolfo. Non è stato un periodo facile per loro. Sergio ha dovuto lasciare la scuola a causa degli scherni offensivi e aiuta il padre. Rodolfo sta poco bene, e gli affari ne hanno risentito. «Mia povera figlia» sospira Maria. «Almeno nessuno ti può far morire una seconda volta.» I cronisti della stampa tirano a sorte per aggiudicarsi un posto in aula, e alcuni si accalcano attorno a un piccolo tavolo.
I primi a salire sul banco dei testimoni sono i giornalisti che hanno scritto del caso. Poi è la volta di Anna Maria Caglio. La polizia, incaricata di cercarla, aveva fallito, e soltanto grazie all’aiuto del padre, ansioso di sapere dove si fosse cacciata, alla fine era stata rintracciata nella Villa Maria Santissima Assunta gestita dalle Pie suore della Redenzione a Firenze, dove aveva trascorso in ritiro tutto il mese di gennaio. Non c’è però nulla di spirituale nella sua apparizione. La conturbante sensualità che aveva attratto Ugo Montagna ora cattura l’attenzione del pubblico. Con il tailleur scuro attillato, il rossetto scarlatto e l’aria intrigante, la Caglio sembra una femme fatale uscita dallo schermo cinematografico. Camilla Cederna conia subito per lei il nomignolo di Cigno Nero, con riferimento ai capelli e agli abiti scuri, al portamento elegante e alla natura sconvolgente delle sue rivelazioni.
Nella prima delle sue tre deposizioni dinanzi ai giudici, racconta nel dettaglio i suoi incontri con Muto e accenna agli esordi della sua amicizia con Ugo Montagna. Ma è soltanto il 6 marzo che diventa un torrente in piena. Quel giorno depone per ben sei ore, e l’affare Montesi divampa. La Caglio parla a ruota libera di sé, abbandonando ogni inibizione anche a proposito dei suoi amanti precedenti. E quando le viene chiesto di Montagna, non c’è praticamente vizio di cui non lo accusi: nepotismo, corruzione, frode, gioco d’azzardo, perversione sessuale e complicità in omicidio. Tutto esposto con estrema precisione, con tanto di nomi, date, luoghi e orari.
In quello che intende essere il colpo di grazia, la Caglio accusa il marchese persino di trafficare in cocaina senza darsi pensiero delle conseguenze che la dipendenza dalla droga ha sulla vita delle persone. «Ho sentito che quel denaro viene dalla droga» racconta alla corte. «Ha rovinato delle persone per questo. Avrei fatto qualsiasi cosa per Ugo, ma più di una volta gli ho detto: “Al di sopra dell’amore che provo per te c’è la giustizia. Se quel che si dice sul tuo conto è vero, dovrai pagare per questo”. Io non gli permetterei di rovinare delle persone. La cocaina ti fa perdere la testa. Non m’importava che avesse altre donne. Sapevo che non era fedele, ma aveva bisogno di me. È vero che usciva con altre donne, ma è me che ha portato a casa sua.»
Parla d’impulso senza quasi prendere fiato.
«Diceva: “Faccio affari solo con chi è inguaiato fino al collo”. Ma, ci pensi, diffondere la cocaina in Italia! Mi ha anche chiesto se volevo provare, ma ho sempre detto di no. “Usala tu” gli rispondevo.»
Nel corso della sua testimonianza, la Caglio rivela di aver udito per caso alcune conversazioni telefoniche tra Montagna e Piero Piccioni: «Siamo sospettati nell’affare Montesi» pare avesse detto il marchese. Passo dopo passo, la ragazza conduce la corte verso i collegamenti tra Montagna e le autorità. Un brusio si diffonde nell’aula ed esclamazioni di sorpresa accolgono ciò che ha da dire su alcuni pezzi grossi delle forze dell’ordine.
Il resoconto della Caglio sugli eventi del 29 aprile 1953 è cruciale, poiché insinua l’idea che sia stato orchestrato un insabbiamento. Quella sera, spiega, Montagna l’aveva portata con sé alla sede del ministero dell’Interno, lasciandola in macchina mentre lui entrava nell’edificio seguito da Piero Piccioni. Più tardi, lei aveva visto i due uomini uscire e salutarsi con una stretta di mano. Sapeva che erano stati da uno dei contatti del suo amante, il capo della polizia Tommaso Pavone. I due sono amici di vecchia data. Su richiesta del ministro dell’Interno Scelba, Pavone è arrivato a Roma da Milano nel 1952, con un invidiabile curriculum di successi ottenuti in veste di primo prefetto della città dopo la guerra. La sua opposizione al fascismo fa sì che goda di una buona reputazione presso la sinistra, ma comprende anche la necessità di restaurare l’ordine e rimettere in piedi l’economia. La sua efficienza lo rende gradito alla borghesia, che lo ha accolto nei suoi salotti insieme all’elegante moglie. Montagna gli si rivolge familiarmente chiamandolo «Masino» e lo tratta come se l’altro gli dovesse dei favori. E in effetti Pavone ha un grosso debito di gratitudine con lui: Montagna era intervenuto per ottenere il suo rilascio dopo l’arresto da parte dei nazisti nel 1943, salvandogli probabilmente la vita. Il marchese è dunque in una posizione tale da potergli chiedere un trattamento speciale. Secondo Anna Maria Caglio, il favore questa volta consisteva nell’assicurarsi che Piero Piccioni non fosse incriminato per il suo coinvolgimento nella tragica fine di Wilma Montesi. Se dice il vero, lo Stato è esposto alla corruzione e si è ordito un complotto per occultare le reali circostanze della morte della ragazza.
In seguito all’incontro con Montagna e Piccioni, si presume che Pavone avesse chiesto al questore di Roma, Saverio Polito, di sistemare le cose. Polito, abituato a ricevere ordini sibillini, aveva interpretato le parole del suo superiore come un invito a concentrarsi sull’ipotesi della morte accidentale e a lasciare fuori Piccioni dalle indagini. Aveva quindi cercato di chiudere in fretta la faccenda, salvo poi essere costretto a un dietrofront dalla crescente attenzione dell’opinione pubblica per il caso.
Il 6 febbraio, durante il viaggio in treno che la riportava da Firenze a Roma, dopo il ritiro in convento, la Caglio aveva chiacchierato con i reporter. Una folla la aspettava alla stazione Termini, perciò le avevano consigliato di scendere alla stazione Tiburtina. Secondo il giornalista Angelo Frignani, testimone della scena, lei aveva abbassato il finestrino della carrozza e proclamato: «Nessuno mi convincerà a star zitta!». Il giorno seguente si era presentata in procura e per diverse ore aveva raccontato la sua storia ad Angelo Sigurani. Gli aveva parlato di strani e frequenti viaggi di Montagna in porti marittimi, in particolare a Genova, dove il marchese asseriva di avere dei funzionari della capitaneria sul suo libro paga. I bene informati sapevano che Sigurani era stato magistrato a Milano e conosceva la famiglia Moneta Caglio, ma questo non lo rendeva ben disposto nei confronti della ragazza.
«Ho visto Sigurani in due occasioni, ma si rifiutò di intervenire. Tutto quello che mi disse fu: “Stanne fuori”» dichiara adesso la Caglio in aula.
«Si rende conto di quello che sta dicendo?» la interrompe il giudice.
«Dico solo la verità» replica lei.
Il pubblico ministero scatta in piedi diverse volte per liquidare la deposizione della teste come frutto di pure fantasie, attaccando con ferocia la sua credibilità. Tuttavia, al pari di chiunque altro, è strabiliato da quella donna che, di rivelazione in rivelazione, sembra tenere in pugno la corte. Nel frattempo, Silvano Muto se ne sta seduto a prendere appunti in tranquillità.
La Caglio però ha in serbo un ultimo exploit. Durante uno dei periodi di separazione da Montagna, aveva sì cercato rifugio in un convento fiorentino (dov’è stata rintracciata il 5 febbraio), ma non era rimasta in clausura a fare esercizi spirituali.
«Andai dal sindaco, Giorgio La Pira,» informa la corte «che mi suggerì di rivelare ogni cosa al presidente del Consiglio De Gasperi. Allora scrissi due lettere, una al papa e una al governo. Da lì a breve venni convocata a Roma da Fanfani.»
«Da chi?» domanda il giudice, incredulo.
«Amintore Fanfani, il ministro dell’Interno» è la risposta. «Fu il colonnello dei carabinieri Pompei a ricevermi. Indagava su quanto vi ho raccontato di Montagna per conto di Fanfani.»
Scoppia un putiferio. La donna sta dicendo il vero? Alcuni meditano di portarla alla Bocca della Verità, l’antico monumento romano che, secondo la leggenda, morde qualunque bugiardo osi infilarci la mano.
Per le sue clamorose rivelazioni, la Caglio diventa all’istante la ragazza più chiacchierata del Paese. E anche il soggetto più ricercato dai fotografi che si ammassano ogni giorno al Palazzaccio. I suoi scabrosi racconti di sesso, droga e corruzione squarciano il velo su un mondo segreto di depravazione che minaccia di infangare un’élite finora intoccabile.
Malgrado tutti i vantaggi intrinseci a essa accordati dal sistema giudiziario italiano, la pubblica accusa rischia di uscire sconfitta dal dibattimento. Il punto chiave è l’esistenza o meno del rapporto del colonnello Pompei. Viene ordinata un’indagine in merito, e il processo va avanti. Altri giornalisti sono chiamati a deporre, e anche a qualche testimone secondario è offerta la possibilità di intervenire. Alcuni sono personaggi a dir poco bislacchi.
Il primo è un certo Luigi Bruzzone di Genova, le cui lettere sono arrivate al Palazzaccio nei primi giorni del processo e vengono lette in aula: l’uomo pretende di dimostrare la colpevolezza di Ugo Montagna nella vicenda Montesi. In seguito si scoprirà che ha a suo carico condanne per estorsione, ha trascorso un periodo in manicomio ed è stato espulso dalle file del Pci.
Rivelazioni sensazionali vengono promesse anche da Piero Pierotti, minatore trentunenne che lavora in Lussemburgo, il quale si è messo in contatto con Muto e gli ha raccontato l’inverosimile incontro con Wilma alla stazione di Ostia. La ragazza gli aveva proposto di lavorare per alcuni dei suoi amici potenti, trasportando oltreconfine una borsa con dieci chili di cocaina durante il suo prossimo viaggio all’estero. Muto gli ha creduto e mandato la moglie a prenderlo per venire a Roma in aereo. Sperando che si sarebbe rivelato un supertestimone per la difesa, lo ha tenuto lontano dalle grinfie degli altri cronisti. Ma Pierotti non ha saputo trattenersi e, prima della convocazione in tribunale, ha spifferato ogni cosa ad alcuni giornali di sinistra. Benché il suo sia un racconto dettagliato, non appena viene pubblicato i suoi amici rivelano che si era inventato tutto di sana pianta.
Mentre il processo prosegue a ritmo sostenuto, è Sotgiu, l’avvocato di Muto, a emergere come autentico protagonista. Sostenuto dalla stampa di sinistra, fa del suo meglio per trasformare l’udienza in una tribuna politica; afferma che l’insabbiamento del caso e il processo stesso costituiscono un plateale atto d’accusa di corruzione del governo, della borghesia e della Chiesa. La sua strategia consiste nello screditare i membri dell’intera classe dirigente, che bolla con il memorabile epiteto di «capocottari» – complici di Ugo Montagna e dei suoi amici cacciatori della tenuta di Capocotta.
L’obiettivo di Sotgiu e Bucciante è smontare la tesi secondo cui Wilma è morta accidentalmente durante un pediluvio. In questo, ricevono un grosso aiuto dall’opera di demolizione compiuta da Rinaldo Pellegrini, esimio professore di medicina legale all’università di Padova. Nella sua perizia, pubblicata anche in forma di libro, critica aspramente le incongruenze e omissioni del referto autoptico. Sottolinea come il test per rilevare la presenza di droghe abbia riguardato solo lo stomaco della ragazza, non il sangue o il midollo spinale. Osserva che, nell’escludere la possibilità di un movente sessuale, l’ipotesi della penetrazione anale non è stata indagata. Si sofferma a lungo sul fatto che i genitali della Montesi erano pieni di sabbia, il che potrebbe provare che sia stata vittima di un pervertito che trae piacere dall’abusare di donne morte. Questo imprevisto sviluppo necrofilo aggiunge una nota macabra alla sua deposizione.
Il 10 marzo arriva il turno di Adriana Bisaccia al banco dei testimoni, e le aspettative sono altissime. Dopo aver lasciato l’ospedale, era andata dalla segretaria di Muto, che le aveva dato duemila lire per tirare avanti, poi aveva incontrato un pittore di sua conoscenza, Duilio Francimei, che l’aveva ospitata a casa sua. Era rimasta da lui per due settimane, durante le quali il loro rapporto aveva preso una piega più intima. Tuttavia, quando si era resa conto che il fidanzato era un morfinomane, lo aveva convinto a cercare assistenza medica e, ora che lui era ricoverato in una clinica psichiatrica, era rimasta senza un tetto. La polizia l’aveva trovata il 30 gennaio in uno squallido sottoscala in piazza Melozzo da Forlì, nel quartiere Flaminio, a poche centinaia di metri dalla casa di Montagna in via Rabirio e dall’alloggio della Caglio. Nelle settimane precedenti il processo, è stata corteggiata dalla stampa, e alcuni suoi articoli, scritti da altri e corredati da numerose foto, sono apparsi sui rotocalchi. È stata anche intervistata da Flora Antonioni, prestigiosa firma femminile del «Messaggero». Questa è dunque la ragazza che frequenta l’ambiente esistenzialista e ha sperimentato in prima persona la vita segreta e dissoluta della capitale.
Ma quando si presenta al banco dei testimoni, la Bisaccia ha un’aria trasandata, i suoi ca...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. Personaggi
  6. Prologo
  7. Parte prima
  8. Parte seconda
  9. Parte terza
  10. Epilogo
  11. Bibliografia
  12. Filmografia
  13. Note sulle fonti
  14. Ringraziamenti
  15. Indice