I
Ha cantato il gallo del Nesi carbonaio, si è spenta la lanterna dell’Albergo Cervia. Il passaggio della vettura che riconduce i tranvieri del turno di notte ha fatto sussultare Oreste parrucchiere che dorme nella bottega di via dei Leoni, cinquanta metri da via del Corno. Domani, giorno di mercato, il suo primo cliente sarà il fattore di Calenzano che ogni venerdì mattina si presenta con la barba di una settimana. Sulla Torre di Arnolfo il marzocco rivolto verso oriente garantisce il bel tempo. Nel vicolo dietro Palazzo Vecchio i gatti disfanno i fagotti dell’immondizia. Le case sono così a ridosso che la luce lunare sfiora appena le finestre degli ultimi piani. Ma il gallo del Nesi, ch’è in terrazza, l’ha vista ed ha cantato.
Spenta la lanterna elettrica dell’Albergo, in via del Corno resta accesa una sola finestra, nella camera della Signora che trascorre la notte in compagnia delle sue piaghe alla gola. Il cavallo di Corrado maniscalco scalpita di tanto in tanto: ha la mangiatoia sistemata nel retro della forgia. È maggio, e nell’aria notturna, senza alito di vento, affiorano i cattivi odori. Davanti alla mascalcia è accumulato lo sterco dei cavalli ferrati durante la giornata. Il monumentino, all’angolo di via dei Leoni, è colmo e straripa ormai da mesi. I fagotti e le biche della spazzatura domestica sono stati seminati fuori delle porte come di consueto.
I poliziotti hanno il passo pesante e la voce sicura. Entrano in via del Corno con la familiarità e la spigliatezza del pugilatore fra le corde. È la ronda degli ammoniti.
«Nanni, ci sei?»
«Buona notte, brigadiere!»
«Affacciati Nanni!»
Da un primo piano si sporge un uomo di quarant’anni dal viso di faina. Ha la camicia bianca priva del colletto e chiusa da un gemello, le maniche rimboccate. In bocca un mozzicone di sigaretta.
«Ora torna a letto e sogna cose oneste» gli viene detto dalla strada.
«Sarà fatta la sua volontà, brigadiere.»
Poco più in là, da una finestrella sovrastante la mascalcia, un altro vigilato saluta la ronda.
«Riverisco, brigadiere.»
«Senti Giulio: se la prossima volta ti trovo affacciato, ti porto dentro.»
«Servo suo, brigadiere.»
«Vai a letto, buonanotte.»
«Brigadiere!»
«Cosa c’è?»
«Non mi prenda a noia. Mi mancano soltanto diciotto giorni per finire l’ammonizione.»
«Fossi in te non sarei tanto sicuro. Che ti risulta di un lavoro in via Bolognese?»
«Nulla, quant’è vero Iddio. L’ho letto sul giornale. Del resto lei lo sa, via Bolognese non è mai stata la mia zona.»
«Ora dormi. Domani se ne parla.»
La ronda risale Borgo de’ Greci. La facciata di Santa Croce è umida di luna. Ma non è cosa, questa, che interessa la polizia.
Via del Corno è finalmente tutta per i gatti che banchettano a un cumulo più grosso d’immondizia: dai Bellini, al secondo piano del n. 3, c’è stato pranzo nuziale. Milena s’è sposata con il figlio del pizzicagnolo di via dei Neri. Milena ha diciotto anni, è bionda, con gli occhi chiari di colomba: via del Corno ha perduto il secondo dei suoi Angeli Custodi. Dopo il viaggio di nozze Milena andrà ad abitare in un appartamentino delle Cure.
Le sveglie sono fatte per suonare. Ce ne sono cinque in via del Corno che suonano nello spazio di un’ora. La più mattiniera è quella di Osvaldo. È la sveglia di un rappresentante di commercio “che batte la provincia”: è piccola, di precisione, ha un trillo di giovinetta e anticipa di un quarto d’ora il fragore della sveglia di casa Cecchi che ha il suono della campanella di un tranvai, ma è quello che ci vuole per rimuovere uno spazzino dal suo sonno di tartaruga.
La sveglia di Ugo è della stessa razza urlante, ma un po’ più fioca e incerta: il contrario del suo proprietario che gira tutto il giorno col barroccino di frutta e verdura ed ha una voce di baritono nell’offrire la mercanzia. Ugo occupa una stanza in subaffitto, al n. 2 terzo piano, ed è per questo che la sveglia dei coniugi Carresi non si fa mai sentire. Maria si desta quasi sempre “quando esplode il macinino del suo dozzinante”, allunga una mano per portare sul silence la chiavetta della propria sveglia. Così, Beppino che le dorme accanto, non si desterà. Le proibirebbe di lasciare il letto finché Ugo non fosse uscito.
Ugo si trattiene mezz’ora in gabinetto a fumare la sigaretta, poi indugia a lungo nella sua camera e Maria è curiosa di saperne la ragione. Di solito lo incontra in cucina che si sta lavando. Addosso ha soltanto le mutande, corte quasi come quelle di una donna. Ha il torace largo ed è stretto di vita, due gambe muscolose. Guardarlo le fa piacere, come si guarda la roba esposta nelle vetrine, anche se non si può comprare. Dopo potrà affrontare la giornata di buon umore.
Maria accende il fuoco per scaldare l’acqua e il caffè-latte. Ugo mette la testa sotto la cannella dell’acquaio e mugola di soddisfazione. (Beppino vuole l’acqua calda nella catinella. Ora dorme supino con la bocca socchiusa. Quando lei si alza e lo vede, le fa sempre impressione come un morto.)
«Si sbrighi» dice Maria. «Mi devo lavare anch’io.»
Ugo ha preso l’asciugamano ai due lati, si strofina dietro le spalle e sui fianchi.
«Faccia pure» le risponde. «Non mi spavento mica!»
Ella lo spinge fuori della porta, premendo la mano sulla sua carne nuda.
La lancetta dei minuti ha azionato il meccanismo della quinta sveglia. Antonio terrazziere si scuote e borbotta una maledizione. È la prima voce che rompe il silenzio. L’alba reca la sua luce sulla strada ove anche i gatti hanno trovato riposo. Il gallo ha buttato giù dal letto il suo padrone carbonaio. La mamma di Milena è in piedi, le mani sul grembo, sospira dinanzi al lettino vuoto della sposa. In ogni casa del vicolo c’è già qualcuno che ha aperto gli occhi. Soltanto la Signora si è appena assopita. Nanni sogna forse cose oneste e Corrado apre la mascalcia. Il cavallo lo saluta con un nitrito a cui fa eco il pianto della neonata che dorme nella stanzetta soprastante, fra i due genitori che le tolgono l’aria. La mamma cerca di calmarla porgendole il seno. Il padre ha passato una notte bianca, dopo che il brigadiere ha accennato al furto di via Bolognese. E il fattore di Calenzano è per la strada da un pezzo, col suo calessino. Pensa che anzitutto affiderà lo storno a Corrado, poi andrà a farsi radere da Oreste la barba di una settimana. Con la faccia fresca e il cavallo ferrato a nuovo, gli affari riescono più facilmente: è un’antica scaramanzia che va rispettata.
Corrado ha dato il pastone di crusca al suo cavallo. Tira il mantice e il fuoco scoppietta, nel fondo della mascalcia vasta e sfogata come un androne di palazzo. Corrado è un uomo di trent’anni, alto quasi due metri, solido come Maciste ch’è il suo soprannome. Ha fatto la guerra da granatiere. Quando fu di leva il capitano lo voleva arruolare fra i corazzieri del Re, ma conosciute le sue convinzioni politiche rinunciò all’idea. Nel ’19 e ’20, Maciste è stato Ardito del Popolo. Una mattina del marzo 1922, quattro fascisti si erano presentati alla mascalcia: li guidava Carlino che abita al n. 1 di via del Corno. Dissero di voler regolare i conti: altri fascisti avevano bloccato la strada ai due ingressi. Era un’imboscata, ma Corrado ritenne che avevano avuto del coraggio ad affrontarlo nel suo ambiente. Si addossò al muro, accanto alla forgia dove sono i ferri dei cavalli appesi ai chiodi. Disse: «Se buttate via le pistole, li regolo volentieri. Vi piglio tutti e quattro insieme». Carlino disse: «Dopo che avrai bevuto l’olio si potrà trattare». Corrado gli rispose facendo volare il primo ferro sulla sua testa. Ci fu un terremoto dentro la mascalcia, la gente occhieggiava dalle finestre, si era alzata dal letto anche la Signora. E il padrone dell’Albergo Cervia, “per non sapere né leggere né scrivere”, aveva dato di paletto. Forse i fascisti non spararono perché la mamma di Carlino bussava al portone della mascalcia scongiurando il figlio di tornare a casa.
L’aggressione non si ripeté.
Maciste è amico di tutto il mondo compreso nel quadrilatero di piazza Signoria, piazza Mentana, San Simone e Santa Croce. I barrocciai di Pontassieve e della Rufina, i fattori dell’Impruneta e di Calenzano sanno che a Firenze non c’è maniscalco che lo valga. Ma le sue amicizie Maciste le ha anche lui in via del Corno, dove sta di casa e di bottega. Ugo fu Ardito del Popolo insieme a lui: ora deposita ogni sera il barroccino nella mascalcia.
Maciste è amico anche di Giulio. Quando Giulio è disoccupato, e gli capita spesso, Maciste gli procura delle commissioni. Lo manda a comperare i chiodi e a pagare le cambiali: sa di potersene fidare. Sono le sette appena e Giulio è già in istrada: cerca di rendersi utile sostituendo al mantice il garzone che non è ancora arrivato.
«Sei cascato dal letto, stamattina?» gli dice Maciste, e gli offre una sigaretta.
Accendono con un tizzone della forgia. Giulio è di umore nero, manda su e giù il mantice a tutta forza. Maciste riordina gli arnesi. Finalmente Giulio apre bocca; lo fa quasi distrattamente, ma la sua voce è emozionata e lo tradisce.
«Corrado, ho bisogno di un favore.»
«Ti dico subito di no» risponde Maciste. Il suo tono è deciso, e tanto più deciso in quanto teme di lasciarsi impietosire. Aggiunge: «Ti prometto che se ti mettono dentro, aiuterò la tua famiglia anche questa volta. Del resto, mi meraviglio tu abbia pensato a me...».
«Se non ti ho ancora detto di che si tratta!»
«Ero sveglio, stanotte, quando è passato il brigadiere!»
Lo storno del fattore si è arrestato davanti alla mascalcia, con un’impennata e un ultimo tintinnio di bubboli. E Maciste dice a Giulio:
«Metti la testa a posto, buonalana! Ora ho da lavorare e ti saluto.»
A quest’ora Ugo è già col suo carretto nei quartieri della periferia: stamani smercia un carico di zucchine e di patate. Le donne comprano volentieri da lui. Maria lo pensa mentre dà la segatura e passa lo spazzolone negli uffici dove è donna di fatica. Sorride sola, pensa come sarebbe stata felice se lo avesse conosciuto prima, e si fossero sposati. Stamani Beppino si è svegliato più nervoso del solito, le ha tirato dietro il portaritratti ch’è sul comodino. Nel portaritratti c’è la fotografia della loro creatura morta di tre mesi; il vetro si è scheggiato come per una sassata. Oggi Beppino, secondo cuoco in un ristorante, ha il suo giorno di libertà. Maria va in fretta nelle pulizie, vuole essere di ritorno prima che lui si alzi. Deve ancora stirargli la camicia: quella celeste, per la quale il marito ha una passione. Se quando torna lo trova ancora a letto, e non gli fa male lo stomaco, può darsi che le dica di coricarsi. Fare l’amore di mattina, col sole che batte sul letto, le piace come quella volta in mezzo al prato.
Via del Corno è lunga cinquanta metri e larga cinque; è senza marciapiedi. Confina ai due capi con via dei Leoni e via del Parlascio, chiusa come fra due fondali: un’isola, un’oasi nella foresta, esclusa dal traffico e dalle curiosità. Occorre abitarvi, o averci degli interessi particolari, per incontrarla. È, tuttavia, a pochi metri da Palazzo Vecchio, che la sotterra sotto la sua mole. Il piano stradale è lastricato e leggermente concavo: lo scolo avviene attraverso dei tombini situati al centro. Nei giorni di pioggia la strada è divisa in due da un torrentello: i bambini, tornato il sereno, vi fanno gare di canottaggio con sugheri, bucce e barchette di carta da quaderno. Circa due anni fa, nel novembre del ’23, dopo una serie di temporali, i tombini si otturarono, via del Corno rimase allagata per qualche giorno. L’acqua invase i fondaci e le cantine; nel sotterraneo, dove il Nesi ha il suo deposito, il carbone restò sommerso un’intera settimana. Dapprima parve un danno, poi resultò un affare. Le donne sono creature abitudinarie, indolenti più di quanto non si creda: sape...