Pubblicato nel 1985, Lunaria si presenta sotto la forma di una favola teatrale, ma si fa leggere come un racconto dotato del ritmo e dell'aerea grazia di un "divertimento" mozartiano. Vincenzo Consolo narra la storia di un viceré malinconico, afflitto da una moglie esuberante e da uno stuolo di parenti avidi e cortigiani infidi, "costretto" suo malgrado a vivere in una Palermo settecentesca solare e violenta, di cui lui solo sembra intuire, dietro il fasto di facciata, il degrado profondo. Una notte questo lunatico e misantropo personaggio sogna la caduta della luna. E, tra lo stupore dei villani, in una remota contrada la luna cade davvero, sgomentando la corte e gettando lo scompiglio nella comunità degli accademici chiamati, con le povere armi della loro scienza, a spiegare il prodigio. Un tema letterario antichissimo diventa così metafora del disfacimento del potere, ma anche della cultura e della poesia come illusione necessaria contro la precarietà della vita, capace di rinascere sempre in luoghi imprevedibili e in forme nuove e pure.
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«Capitò in quel tempo (972-73) in Palermo Abū al-Qāsim Muhammad Ibn Hawqal che ci ha lasciato una descrizione della città… Ibn Hawqal notava la Moschea gāmi del Cassaro, una volta tempio cristiano; nella quale serbavansi, al dire dei logici della città, le ossa d’Aristotele; ma egli non si fa mallevadore che di aver visto il feretro, appeso in alto, e udita la tradizione che gli antichi Greci soleano impetrare miracoli dalle ceneri del filosofo in tempi di siccità, pestilenze o guerra civile… A ciò ben s’adatta l’altro dato delle cinquecento moschee ch’erano in Palermo, delle quali tre quinti nella città vecchia e nelle grosse regioni e due quinti nei sobborghi: moschee tutte acconce e frequentate, tra pubbliche, di corporazioni e di privati. Né Ibn Hawqal tante ne avea viste mai in cittadi uguali e maggiori; né sapea trovarne riscontro se non a Cordova, il numero delle cui moschee gli era stato raccontato, ma in Palermo l’avea ritratto con gli occhi suoi propri e tutti i cittadini gliel confermavano. Dalla quale sovrabbondanza Ibn Hawqal cava argomento di riprendere i Palermitani che ciascuna famiglia per superbia e vanità volesse la sua cappella particolare, fin due fratelli che abitavan muro a muro… non essere in Palermo begli ingegni, né uomini dotti, né sagaci, né religiosi; non vedersi al mondo gente meno svegliata, né più stravagante; men vaga di lodevoli azioni, né più bramosa d’apprendere vizii… che la radice di tanto male è il gran mangiare che fanno di cipolle crude, mattina e sera, poveri e ricchi; ond’han guasto il cervello e ammozzato il senso…»
(Michele Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia)
«Iniziamo da Palermo: città illustre e magnifica, località tanto prestigiosa quanto immensa, che domina, quale grandioso ed eccelso pulpito, le città del mondo intero… Gli edifici di Palermo sono talmente splendidi che i viaggiatori ne decantano le bellezze dell’architettura, le finezze della struttura e la loro sfolgorante originalità… La città è divisa in due settori: il Càssero ed il Borgo. Il Càssero – che è poi la vecchia cinta fortificata divenuta famosa per ogni dove – comprende nel suo insieme tre zone: quella centrale racchiude palazzi imponenti ed edifici eccelsi e dignitosi, così come numerose moschee, fondachi, terme e botteghe di grandi mercanti. Anche nelle altre due zone non mancano palazzi elevati, sontuose e alte costruzioni e gran numero di fondachi e bagni. Nel Càssero sorge la grandiosa moschea cattedrale, che fu un tempo chiesa cristiana ed oggi è stata restituita alla sua prìstina funzione. Il Càssero dianzi ricordato, fra i più muniti ed imponenti di quanti se ne conoscano, risulta inespugnabile a qualsiasi azione bellica; è assolutamente invincibile. Sulla sua parte più elevata sorge una cittadella, costruita di recente per l’esaltato re Ruggero con enormi blocchi di pietra da taglio e rivestita con tessere di mosaico: le linee sono armoniose, alte le torri, ben salde le bertesche e le garitte; palazzine e sale sono costruite alla perfezione e decorate con i più estrosi motivi calligrafici e con stupende decorazioni.»
(Idrisi, Il libro di Ruggero)
«Città metropoli di queste isole riunisce in sé i due pregi (cioè), prosperità e splendore. Ha quanto puoi desiderare di bellezza reale ed apparente e di soddisfazioni della vita (nell’età) matura e fresca. Antica e bella, splendida e graziosa, sta alla posta con sembiante seduttore, insuperbisce tra piazze e pianure che sono tutte un giardino, larghe ha le vie e le strade, ti abbaglia la vista colla rara beltà del suo aspetto. Città maravigliosa, costrutta come Cordova, gli edifici suoi sono tutti di pietra da taglio detta Ka
ān. Un fiume d’acqua perenne l’attraversa; ai fianchi di lei scaturiscono quattro sorgenti. Il suo Re qui allietò la vita di piaceri fugaci, onde la fece capitale del suo regno franco – Dio lo annienti! – I palazzi del Re ne circondano il collo, come i monili cingono i colli delle ragazze dal seno ricolmo, ed egli tra giardini e circhi si rigira di continuo fra delizie e divertimenti. Quante sale egli ha in essa e quanti edifizi! – Possano questi non essere più abitati da lui! – Quante loggie e quanti belvederi! Quanti conventi egli possiede ne’ dintorni, conventi di ricca architettura, i cui monaci egli dotò largamente di fondi estesi! Quante chiese dalle croci gettate in oro e argento! Può essere che fra breve Dio, colla sua potenza, mandi a quest’isola giorni migliori, la ritorni dimora della fede e la riconduca dal timore alla sicurezza, perocché Egli è onnipossente.»
(Ibn Ğubayr, Viaggio in Ispagna, Sicilia, Siria e Palestina, Mesopotamia, Arabia, Egitto)
Al tempo dei viceré di Spagna, malgrado le distruzioni e le trasformazioni – come la demolizione della porta dei Patitelli (ossia degli zoccoli) e del minareto d’una moschea o torre di Baich nel 1564 – rimanevano ancora cospicue vestigia di quella Palermo araba e normanna. Penso allora, in trasparenza – trasparenza di veli oppure di caligini, di fumi stagnanti di roghi, di tannure, di bombarde – alle cupole rosse della Martorana, di San Giovanni degli Eremiti; alla Cuba, alla Cubula, alla Zisa…
15 archi di porte chiuse nella notte…
Secondo Michele Amari, Ibn Hawqal nomina nove porte della vecchia città: Porta del Mare, Porta della Medicina, Porta Sant’Agata, Porta di Rūtah, Porta dei Giardini, Porta Ibn Qurhub, Porta dei Figli, Porta del Ferro, una porta nuova senza nome.
Leggo, con l’aiuto di una lente, in una carta di Palermo del 1581, contenuta in Cluverio: Sicilia Antiqua, i nomi di queste porte: Porta di Africa, Porta de Termini, Porta Sant’Agatha, Porta Mazara, Porta di Nuova, Porta di Carini, Porta San Giorgio, Porta di Pedi Grupta, Porta della Pescaria, Porta della Dogana, Porta del Molo.
15 tocchi dell’orologio al Sant’Offizio…
23 Ostérii di supplizi…
«Gli uomini scomparvero, e con loro le vantate carte; la memoria del loro Tribunale è rimasta viva nella toponomastica e nella paremiologia di Sicilia. Il grande orologio del palazzo Chiaramonte, che pare batta ancora le fatali 24 ore della morte di suor Gertrude Cordovana e di fra Romualdo Barberi nel dì 6 aprile del 1724, è sempre detto lu roggiu di lu Sant’Uffiziu; dopo 127 anni che di Sant’Uffizio non si parla più… Ho ricordato innanzi il desolante proverbio: Lu roggiu di lu Sant’Uffiziu nun cunzigna mai, e vo’ aggiungere che a Modica esso significa: che la Inquisizione non restituiva più a libertà colui il quale veniva rinchiuso nelle sue carceri.»
(Giuseppe Pitrè, Del Sant’Uffizio a Palermo e di un carcere di esso)
«Regno di Filippo III: 1598-1621. Gl’Inquisitori ottennero per sede del Tribunale il palazzo Chiaramonte, detto lo Steri nella Piazza Marina, dove poi sempre rimase fino all’abolizione. Quel palazzo riformato serve ora pei Tribunali. L’orologio sul prospetto è ancora chiamato dal popolo di quel quartiere l’orologio del Sant’Offizio.»
(Vito La Mantia, Origine e vicende dell’Inquisizione in Sicilia)
«Nel 1906 un consigliere comunale di Palermo, l’avvocato Giuseppe Cappellani, avvertiva Pitrè che durante i lavori, che si stavano eseguendo, per adattare certi locali di palazzo Chiaramonte ad archivio del tribunale penale, “scrostandosi spontaneamente della calce, veniva fuori non so che figura”. “Non indugiai un istante a recarmici, impaziente di trovarvi qualche cosa utile alla conoscenza del luogo” dice Pitrè. E trovò infatti, in quattro strati di antiche e ripetute imbiancature, quelli che con felice espressione chiamò “palinsesti del carcere”: disegni e scritte che in circa due secoli i prigionieri dell’Inquisizione avevano lasciato su quelle pareti.
«Su sei celle, riuscì ad esaminarne tre: ché le altre erano state irrimediabilmente guastate dai lavori di riadattamento… Tecnici e operai, che pure dovevano conoscere tutti i locali dell’antico palazzo, si guardarono bene dal dirgli che in un ammezzato tra il pianterreno e il primo piano, appena illuminate da aperture prospicienti alla Piazza Marina, esistevano ancora le cosiddette carceri filippine: tre celle le cui pareti erano coperte di scritte, disegni e pitture di prigionieri: e forse erano state risparmiate da un’ultima mano di calce in grazia, appunto, della qualità delle pitture…
«… proprio in questi giorni, mentre di nuovo a palazzo Chiaramonte fervono i lavori di riadattamento, e stavolta per restituirlo alla struttura originale, il giornalista Giuseppe Quatriglio ha riscoperto le tre celle…: intatte, forse perché finora salvaguardate dai fascicoli di archivio che vi si conservavano. Erano la più viva e diretta testimonianza del dramma che l’Inquisizione è stato per i popoli ad essa soggetti: e quindi da conservare con ogni cura e accorgimento.
«Non c’è sulle pareti spazio, sia pure minimo, che sia stato risparmiato dai prigionieri. Ognuno vi ha lasciato traccia della propria pena, dei propri pensieri. Chi ha segnato i giorni con una serie di aste verticali e chi ha affidato alla parete il grido della propria innocenza. Chi ha testimoniato rassegnazione e chi fierezza. Chi ha soltanto segnato il proprio nome e chi ha fatto versi di devozione. Chi ha trascritto passi dalle Scritture e chi ha voluto dolorosamente irridere alla propria condizione e a quella dei compagni. E chi ha campito luoghi del ricordo, o della fantasia, e raffigurato Cristo, la Madonna, i Santi…
«Questa nota ho scritto e pubblicato nel novembre del 1964. Contemporaneamente, provvedevo a far fotografare – in condizioni difficili e quasi clandestinamente – tutti i disegni e i graffiti delle carceri inquisitoriali dello Steri… Facendo fotografare tutto – le celle riscoperte da Quatriglio e quelle scoperte da Pitrè – avevo il presentimento che i lavori di restauro in corso nel palazzo non avrebbero rispettato quelle testimonianze, e infatti così fu.»
(Nota di Leonardo Sciascia in Graffiti e disegni dei prigionieri dell’Inquisizione)
16 Oh notte di Palermo…
16 ristagna nella Conca…
«ORETU - Et iu ch’interessatu / su di la tua prisenzia / dicu, si cca nascisti, / fermati ancora un pocu a tal chi sia / chi sta notti oscurusa / cu la prisenzia tua, iornu sirenu. / E cussì senza dubiu / ristirà fama eterna (iu lu cunfermu) / di la filici Notti di Palermu.»
«DON ALFONZU - Cciè sta chiana ch’è un decoru: / ha di munti una giurlanda, / e sta vasta conca d’oru, / circundata d’ogni banda / di iardini ch’è un tesoru. / Oretu, già nnamuratu / di la sua virdi campagna, / va scurrendu pr’ogni pratu, / e di l’arvuli chi bagna / si spera lu frutt’amatu. / Lu situ di la citati / pari un quatru in prospettiva, / chi per undi la guardati, / si lu spiritu s’avviva, / l’occhi restanu appagati.»
(Tommaso Aversa, La notti di Palermu)
19 lacchè che spengono le torce in bocca a mascheroni stupefatti…
19 È sempre Porfirio, negro delle Nuove Indie…
«Come parte del servitorame d’una nobile casa vegetavano nelle anticamere, e conoscevano a menadito tutte le forme della buona creanza e del bon ton. Ad un cenno di Sua Eccellenza la Principessa, o la Duchessa, o la Marchesa, e quando occorresse, di Sua Eccellenza il Principe, o il Duca o il Marchese, erano in completo assetto di livrea, parrucca, nicchio gallonato; assetto oh quanto scomodo, che rendeva loro difficile il servizio, cui non bastavano ad alleviare aste artisticamente intagliate, né cinghie vellutate, come le catene d’oro non renderebbero meno penosi i dolori della schiavitù.
«Di sera, quando portavano a veglie ed a festini la dama, si aggiungeva loro un numero di sei, otto paggi, che reggevano torce accese, le quali essi, appena arrivati nel vetusto palazzo, si affrettavano a spegnere nei buchi nascosti dietro le porte dei vestiboli.»
(Giuseppe Pitrè, La vita in Palermo cento e più anni fa)
Ma quei buchi dentro cui venivan spente le torce, spesso non erano nascosti, ma stavano in bella mostra sul prospetto, accanto all’architrave del portone, in forma di mascherone con la bocca aperta.
«SANTO - Sono un corsaro / di Selim, sultano turco: / sono nero, ed ero il sole / temerario del suo Impero. / Nacqui ...