Ramis recisis altius.1
A Chiaroviso2
Riodo3 approssimarsi il galoppo delicato dei puledri di gran lignaggio sul mio silenzio che oggi è metà nell’ombra e metà nella luce come la prateria liscia nel paese di Silvia l’Italiana.4
Vi sovviene ancóra, o Chiaroviso, di quel giorno d’estate acerbo e torbido come un meriggio di primavera immatura? Era l’ultimo spettacolo della vita leggera: la gara breve della grazia e dell’ardore ereditati per sangue. I puledri di due anni ci parvero le più belle creature dell’Universo, alti su le gambe e senza ventre come i miei levrieri creati e allevati nello stampo ideale dalla mia volontà che impara ogni arte.
L’ippodromo era quasi deserto. Rari e assorti gli spettatori, tenuti da una inquietudine comune che inclinava i loro sguardi verso il suolo come se nel verde agguagliato cercassero erbe da sortilegi. Taluni erano sprofondati nella lettura dei fogli sibillini, senza volgersi al ritmo delizioso che segnavano gli zoccoli dei giovani cavalli partendo in gruppo sul terreno sonoro e cedevole. lo pensavo al principio di un’ode, che somigliasse a quell’impeto fresco, fresco e allegro come il frullo d’uno stormo d’uccelli spiccatosi da una frasca rinnovellata; il quale era per risolversi in schiuma e in sudore fumanti giù per la pelle ove il fuoco delle vene palesi dava imagine di quella vibrazione silenziosa che la canicola crea contro le sabbie ignude.
Patetica ora di bellezza e di divinazione, perpetuata nella memoria come il frammento d’un fregio sopravvissuto a un tempio in rovina. Non era infatti men bello della cavalcata fidiaca quel grande stuolo di puledri «figli del vento»5 che non sembravano calpestare l’erba ma sorvolarla. Erano ventuno: tre volte sette: il numero ritmico e magico del quale fui sempre studioso. E li cavalcavano fantini quasi fanciulli, dai visi netti, senza pur la prima lanugine, fratelli minori dei cavalieri ateniesi, sprovvisti della clamide e del cappello tessalico ma non della flessibile eleganza.
Ci protendevamo dallo steccato per seguire la corsa, con gli occhi avidi di chi s’accommiata e si volge prima di allontanarsi. Seguivamo quell’onda ardente e fremente, dal sole all’ombra, dall’ombra al sole,6 su la pista verde e azzurra a volta a volta, con la stessa agitata malinconia che ci travaglia quando vediamo dileguare l’ultima giovinezza o l’ultimo amore o l’ultimo piacere.
Era l’ultimo gioco dei nostri ozii e della nostra pace. Attendevamo che del gruppo, compatto come una sola bestia baia dalle zampe numerose, irrompesse il vincitore certo, il campione designato, quello che avevamo scelto per la scommessa, quello che l’eccellenza della struttura e la potenza del sangue annunziavano più formidabile nella lotta. E mi si ripresentava nella mente concitata quel meraviglioso corsiere britanno, prediletto della vittoria, che sul punto d’esser superato dal rivale si voltò furibondo e lo addentò al garrese per impedirgli di vincere. Così a un tratto l’ansietà del gioco si mutava in un sentimento più acre e più profondo. Non già sprizzò sangue dal garrese del puledro che alla svolta sopravanzava di tutta l’incollatura lo stuolo chiuso conducendo la corsa; ma l’odore del sangue futuro pareva salire da quel dolce seno dell’Isola di Francia, ma dai molli orizzonti del Vallese7 pareva affacciarsi la Guerra e soffiare la sua afa di putredine e d’incendio.
Non più palpitavamo per quella vittoria ma per un’altra, non più per i giovani cavalli ma per i giovani eroi. Ci guardavamo negli occhi, a leggervi lo stesso pensiero; ed eravamo un poco pallidi, sotto l’ombra d’una nuvola fugace. E, come nei nostri occhi fraterni, in tutta la nobiltà della contrada, su cui tremolava pel declinare del giorno il sorriso italiano di Silvia, noi leggevamo il presagio della resurrezione latina.8 Gli edifizii, le colline, le acque, i prati, i parchi si armonizzavano in lineamenti della medesima architettura. Nel dominio che la nepote trilustre di Maria de’ Medici s’ebbe per il più abile dei suoi cinti, la mia anima toscana si accomodava come in una vecchia villa medìcea. La Nonetta era vagabonda e vitrea come l’Ambra. L’Orsina arieggiava la bella Vespuccia dalla collana d’angue. Teofilo cantava come il Poliziano.9
Il puledro vincitore era ricondotto a mano nel recinto del peso. Un che di fluido e di fermo, insieme: il tremolìo dei muscoli sotto il sudore schiumante faceva pensare alla mobilità delle polle improvvise; ma i suoi tendini convenivano alla sua ossatura come le corde ai tenieri10 delle balestre. Dalla barbozza al nodello,11 dalla spalla all’anca, dalla punta del petto al fusto della coda, era tutto opera di stile ancor più concisa che quella scolpita nella metope attica. Ma tanta severità di forma non era destinata se non a governare la strapotenza della vita. Nelle narici e negli occhi gli spiriti del sangue bruciavano con la forza del fuoco che apparisce per gli interstizii del forno fusorio.
E nel modo inimitabile di comprendere e di sentire quella convenienza e quella bellezza noi ci riconoscevamo latini. E intorno allo sforzo vittorioso di quel giovine animale perfetto vedevamo disporsi la perfezione secolare di tutte le nostre culture.
Ed ecco che a quel gioco lieve stava per succedere un gioco tremendo, la cui posta consisteva di tutti i nostri beni. Noi eravamo per rischiare tutti i nostri beni contro un getto di dadi. Già udivamo risonare i malvagi dadi su la pelle d’asino tesa nel tamburo del lanzichenecco.
Traversammo la prateria deserta, quasi a vespero, per tornare verso la casa amica. Io pensavo alla dimora di Silvia specchiata nelle acque chiare. Imaginavo nella parlatura di Francia l’accento della patrizia romana.
Rare parole, passi lenti, gravi pensieri. Le torri del Castello allungavano l’ombra su i bacini e su gli spiazzi. Laggiù, forme taciturne della sera, un cigno attraversava uno stagno, una cerva attraversava un viale. Laggiù, in una sala deserta, il serpe grazioso si dislacciava dal collo della Simonetta e le si moltiplicava nei capelli ornati. Il bel capo genovese si faceva irto e sibilante come quello della Górgone, e sovr’esso la nuvola del destino si gonfiava di minaccia.
Sorridevamo di questa imaginazione camminando sul tappeto dell’erba; ma, come la luce si dipartiva da tutte le cose per andarsene all’Occidente, sentivamo tutte le cose più dilette a poco a poco abbandonarci. Non soltanto un giorno finiva ma un mondo si dissolveva. I fantasmi della vita leggera si dileguavano più veloci che il galoppo dei giovani cavalli. In mezzo a quel morbido prato una necessità repentina ci premeva e ci curvava, dura come il ginocchio del Genio michelangiolesco.12
Io e Marcello, il mio compagno di giuochi, distaccandoci alquanto dalle gonne serrate che sembravano impastoiare anche le nostre gambe, ci guardammo con una commozione che scomponeva le nostre labbra e ci stringeva la gola; perché il flutto dei nostri pensieri e dei nostri presentimenti, levandosi e aumentandosi nel tempo medesimo, ci aveva insieme sopraffatti.
La casa materna era là, tranquilla, sotto la protezione dei vecchi alberi: bella e comoda casa francese, tutta chiara e nitida, illuminata dall’ordine quasi più che dalle finestre, un poco italianeggiante come un sonetto della Pleiade.13
Udivamo i cani uggiolare e squittire nel vestibolo. Come la cateratta si solleva e la forza dell’acqua precipita, così la porta s’aperse e la loro gioia impetuosa ci assalì senza ritegno. Era una irrequietudine di muscoli simile allo sbattimento d’una stoffa di seta manosa percorsa da rapidi riflessi; e per entro vi brillavano gli occhi e vi s’appuntavano i musi che parevan quasi l’acume dello sguardo nella volontà di penetrare lo spazio. Tutto era potenza elastica, levità balzante, secchezza essenziale come nei cespi aromatici, giubilo d’amore, malizia infantile, desiderio di fuga, avidità e gelosia, fedeltà e disobbedienza. Erano fanciulli capricciosi e tremende macchine di vittoria, belve crudeli e damigelle timide, sognatori taciturni e dilaniatori inesorabili. Li amavamo come si ama una donna malfida e tenera, mista di svogliatezza e d’ardore, di frenesia e di mestizia. E, quando Marcello si chinò verso il prediletto e gli sollevò una zampa di dietro per esaminare un’unghia malata, il cuore ci tremò come davanti alla più squisita delle opere d’arte vedendo l’estrema luce trasparire nella membrana tra lo stinco e il tendine.
Eppure il giorno innanzi, parlando della guerra, s’era a noi presentata l’eventualità di sopprimere una parte del canile, la necessità orribile di uccidere i nostri amici e di seppellirli in una fossa. Tutto quel vigore scolpito e cesellato era omai sotto la condanna. I morituri erano già scelti. Qualcosa di funebre era entrato con noi nella casa pacifica.14 Nelle stanze ordinate le tende e le portiere non si movevano, ma l’aria pareva inquieta come quando sta per scoppiare l’uragano e i servi corrono a chiudere i vetri e gli usci.
Il Sacrifizio era venuto a prender posto tra i Penati. Non volgemmo il capo per ignorare la sua presenza. Ma ci avvicinammo a lui, gli togliemmo il velo, e lo guardammo con pupille ferme.
Ora non dimenticabile di amicizia, di proposito, di speranza! Eravamo seduti intorno alla tavola familiare. Le lampade non erano state accese. A una a una le cose erano abbandonate dalla luce del giorno che se ne tornava all’Occidente. Una Vittoria dorata, del tempo dell’Impero, luccicava sul marmo del caminetto. Parlavamo piano, come se l’ombra di quella sera avesse una grandezza inconsueta. Lasciavamo freddare l’arguzia nella bocca e la bevanda nella tazza. Il nemico non era soltanto al confine ma su quella soglia. La soglia della casa e il confine della patria erano una sola santità che poteva essere profanata. Bisognava sorgere e combattere.
Allora Marcello venne sorridendo, con quel suo viso bianco e affilato come una spada nuda che riposi sopra una lastra di Carrara. Venne e recò la sua tunica azzurra e il suo berretto di fantaccino tirati fuori dal fondo di un canterano.15 Odoravano di canfora.
Non altrimenti ci saremmo commossi se fossimo stati sfiorati dalle pieghe della bandiera sventolante. Ciascuno di noi palpò il panno rude. Qualcuno forse lo vide intriso di sangue.
Come il berretto andava al mio capo, ne traemmo un buono augurio; e ritrovammo il nostro sobrio riso con aggiuntovi un che di tagliente. Fin da quella sera le due patrie furono una sola per noi.
Una campana di fuoco sonava in sommo del crepuscolo di luglio.
Ci levammo per uscire all’aperto, come soffocati. Respirammo la battaglia e la liberazione nel vento che passava su l’Isola di Francia.
Vi sovviene, o Chiaroviso, di quella sera? In quella sera, per segno di fraternità latina, io vi diedi il bel nome italiano che a un tratto mi ricordai d’avere scoperto in una vecchia carta notarile pistoiese quando i bei nomi generavano nel mio spirito le belle eroine: Chiaroviso. Sembra il nome luminoso delle due patrie congiunte.
Poi seguirono giorni stupendi, che canteremo.
Colgo intanto per voi nel libro della mia memoria queste pagine di passione scritte sotto la data del 27 di quel luglio tragico. V’è un canto nascosto.
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[Veramente16 oggi la vita è sospesa; e, così com’è, sembra non valga più la pena d’esser vissuta. Il tedio e l’ansia s’avvicendano; o l’una attraversa l’altro come la corrente che passa pel mezzo del lago stagnante. Non so quante cose malate e quante cose morte appestino l’aria. Respiriamo infezioni senza numero e ignote, come quando la polvere crassa e il fango risecco ribollono sotto la prima acquata in un paese che devastarono la canicola e la pestilenza.
Mi ricordo di aver paragonato una certa tristezza dell’uomo alla nave che con l’elica guasta è perduta nell’immenso polipaio, nell’inerzia ardente dell’Oceano sotto il Tropico, morendo a poco...