Un eroe del nostro tempo
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Un eroe del nostro tempo

  1. 256 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Un eroe del nostro tempo

Informazioni su questo libro

Si tratta di una serie di cinque racconti collegati tra loro dalla ricorrente figura di un protagonista di riconoscibile matrice autobiografica. L'unità di fondo è dunque garantita dal fatto che ciascun racconto propone un'immagine del personaggio filtrata secondo un nuovo punto di vista.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817171212
eBook ISBN
9788858653821

PARTE SECONDA

DIARIO DI PEČORIN

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AVVERTENZA

Ho saputo da poco tempo che Pečorin è morto, nel ritornare dalla Persia.
La notizia mi ha molto rallegrato: mentre mi dava il diritto di stampare questi appunti, ho approfittato dell’occasione per mettere il mio nome sull’opera di un altro. Voglia Iddio che i lettori non mi puniscano per questa innocente mistificazione.
Devo ora mettere in chiaro le cause che mi hanno indotto a offrire al pubblico i segreti del cuore di un uomo che non ho mai conosciuto.
Almeno fossi stato un suo amico! La subdola indiscrezione di un vero amico si può ancora capire. Ma io l’ho visto una volta sola nella mia vita, su una strada maestra e, di conseguenza, non posso nutrire verso di lui quell’invidia inesplicabile che, celandosi dietro la maschera dell’amicizia, non aspetta che la morte o la disgrazia della persona cara per scatenare sul suo capo una tempesta di recriminazioni, di consigli, di derisioni e di rimpianti.
Scorrendo queste note, mi persuado della sincerità di colui che metteva così spietatamente allo scoperto le proprie debolezze e i propri vizi. La storia di un’anima umana, foss’anche della più meschina, è forse più interessante e utile della storia di un intero popolo, specialmente quando è il frutto di osservazioni fatte da uno spirito maturo sopra se stesso, e quando è scritta senza il vano proposito di suscitare partecipazione o meraviglia. Le confessioni di Rousseau hanno già un difetto: egli le lesse ai suoi amici.
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È stato quindi solo nell’intento di giovare agli altri che mi sono deciso a stampare i brani di un diario capitatomi per caso fra le mani. Sebbene io abbia scambiato tutti i nomi propri, le persone che vi figurano probabilmente vi si riconosceranno e, forse, riusciranno a giustificare quelle stesse azioni di cui finora hanno fatto colpa a un uomo, il quale ormai non ha più nulla di comune con questo mondo; quasi sempre si perdona ciò che si comprende.
Ho raccolto in questo libro unicamente quanto riguarda il soggiorno di Pečorin nel Caucaso. È rimasto ancora nelle mie mani un grosso quaderno, dove egli racconta tutta la sua vita. Una volta o l’altra finirò per sottoporre anche questo al giudizio del mondo; per adesso, però, non oso prendere su di me una tale responsabilità, per molte e importanti ragioni.
Può darsi che qualche lettore voglia conoscere il mio parere sul carattere di Pečorin. La mia risposta è il titolo stesso del libro. «Ma questa è crudele ironia!», si dirà. Non so.

TAMAN’

Taman’ è la più misera cittaduzza fra tutte le città marittime della Russia. Quasi quasi ci morii di fame, e per di più mi si voleva annegare.
Vi giunsi su una piccola carrozza postale a notte fonda. Il vetturale fermò la trojka stanca davanti al portone dell’unica casa di pietra, all’ingresso della città. Al suono della campanella, il piantone, un cosacco del Mar Nero, gridò di tra il sonno con voce selvaggia: «Chi va là?».
Uscirono un graduato e il capo picchetto, ai quali spiegai che ero un ufficiale; mi recavo al reparto in linea per necessità di servizio, e reclamavo un alloggio governativo.
Il capo picchetto ci condusse in città. Tutte le isbe alle quali ci avvicinavamo erano occupate. Faceva freddo, non dormivo da tre notti, mi sentivo spossato e cominciavo a irritarmi.
«Portami dove vuoi, brigante, fosse pure all’inferno, ma in qualche posto!» urlai.
«Ce ne sarebbe ancora uno,» disse il capo picchetto, grattandosi la nuca, «ma a Vostro Onore non piacerà. Non è gente pulita!»
Non avendo afferrato il vero significato di quest’ultima parola, gli comandai di proseguire. Dopo molte peregrinazioni per vicoli sudici, ai lati dei quali non vedevo altro che decrepiti steccati, giungemmo a una piccola capanna in riva al mare.
La luna piena illuminava il tetto di canne e le mura bianche del mio nuovo alloggio. Nel cortile, recinto da sassi, sorgeva un’altra catapecchia, sbilenca, più piccola e più vecchia della prima. La costa scendeva a strapiombo sul mare, quasi ai suoi piedi; in basso, le onde d’un azzurro cupo si agitavano con un mormorio ininterrotto. La luna guardava tranquilla le acque inquiete, ma a lei sottomesse. Al suo chiarore potei distinguere, lontano dalla riva, due battelli, i cui neri cordami, simili a una ragnatela, si profilavano immobili sul pallido confine dell’orizzonte.
«Ci sono navi in porto,» pensai. «Domani vado a Gelendžik».
Avevo per attendente un cosacco di linea. Gli ordinai di scaricare la valigia e di licenziare il vetturale. Mi misi a chiamare il padrone: silenzio. Bussai: silenzio. Come mai? Finalmente sbucò dall’ombra un ragazzo sui tredici anni.
«Dov’è il padrone?»
«Non c’è.»
«Come non c’è?»
«Non c’è.»
«E la padrona?»
«Ha fatto un salto al villaggio.»
«Chi mi aprirà la porta?» dissi, picchiandovi contro col piede.
La porta si aprì da sé. Dalla capanna uscì un soffio umido. Accesi uno zolfanello e lo avvicinai al naso del ragazzo: la fiamma rischiarò due occhi bianchi. Era cieco, cieco dalla nascita. Mi stava davanti immobile. Intanto osservavo i tratti del suo viso.
Lo confesso: sono fortemente prevenuto contro tutti i ciechi, gli storpi, i sordi, i monchi, i senza-gamba, i gobbi e così via. Ho fatto caso che c’è sempre un certo strano rapporto fra l’aspetto esteriore dell’uomo e la sua anima; come se, con la perdita di una parte del corpo, anche l’anima si privasse di qualche suo sentimento.
Cominciai dunque a osservare il viso del cieco. Ma che cosa volete leggere in un viso che non ha occhi? Lo guardai a lungo con involontaria commiserazione, quando di colpo un sorriso appena percettibile aleggiò sulle sue labbra sottili, e mi fece, non so perché, un’impressione sgradevolissima. Nella mia mente s’insinuò il sospetto che quel cieco non fosse poi così cieco come sembrava. Invano tentavo di convincere me stesso che le cataratte non si possono simulare. E poi, a che scopo? Ma che farci! Spesso sono incline ai pregiudizi...
«Sei il figlio del padrone?» gli chiesi finalmente.
«No.»
«Chi sei?»
«Un povero orfano.»
«La padrona ha figli?»
«No, aveva una figlia, ma è scappata in mare con un tartaro.»
«Con che tartaro?»
«Chi lo sa! Un tartaro di Crimea, barcaiolo a Kerč.»
Entrai nella capanna. Due panche e una tavola, oltre a un grosso baule accanto alla stufa, costituivano tutto l’arredamento. Neppure un’immagine alle pareti... Brutto segno! Dal vetro rotto della finestra irrompeva il vento di mare.
Presi dalla valigia un pezzetto di candela e, dopo averlo acceso, cominciai a riordinare la mia roba. Misi in un angolino la sciabola e il fucile, deposi le pistole sulla tavola, stesi la burka sulla panca. Il cosacco stese la sua sull’altra. Dieci minuti dopo egli russava, ma io non potevo prender sonno. Nell’oscurità mi vedevo sempre d’attorno il ragazzo dagli occhi bianchi.
Passò così quasi un’ora. La luna splendeva nella finestra, scherzando col suo raggio sul pavimento di terra della capanna. A un tratto, quella striscia luminosa fu attraversata da un’ombra. Mi sollevai e guardai fuori; per la seconda volta, qualcuno passò oltre, correndo, e scomparve Dio sa dove! Mi era impossibile supporre che quell’essere strano fosse balzato giù per il pendio scosceso della costa. Tuttavia, non avrebbe potuto dirigersi altrove.
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Mi alzai, infilai la giubba, misi il pugnale alla cintura e uscii dalla capanna pian pianino. Il ragazzo cieco veniva verso di me. Mi acquattai contro lo steccato, e quello passò oltre, procedendo sicuro ma guardingo. Sotto l’ascella portava un fagotto. Svoltando verso il porto, prese a scendere per un viottolo stretto e ripido.
«In quel giorno i muti parleranno e i ciechi vedranno,» pensai, seguendolo a distanza, ma senza mai perderlo d’occhio.
La luna intanto aveva cominciato a coprirsi di nubi. Sul mare si alzava la nebbia; a malapena s’intravedeva la luce del fanale di poppa di un battello vicino. La schiuma dei marosi scintillava sulla riva, minacciando a ogni minuto di sommergerlo. Mi calavo a fatica giù per il pendio, quando vidi il cieco fermarsi un attimo, poi, giunto in basso, svoltare a destra. Camminava così vicino all’acqua da dar l’impressione che l’onda l’avrebbe afferrato e travolto. Ma, evidentemente, quella non era la sua prima passeggiata, a giudicare dalla sicurezza con cui balzava di pietra in pietra e scansava le buche. Alla fine si fermò come in ascolto, si accoccolò per terra e depose il fagotto accanto a sé.
Seguivo le sue mosse tenendomi nascosto dietro uno scoglio sporgente. Qualche minuto dopo, dalla parte opposta apparve una figura bianca. Si avvicinò a lui e gli sedette vicino. Il vento, a tratti, mi portava le loro parole.
«Ebbene, cieco?» sentii che diceva una voce femminile; «la tempesta è forte. Janko non verrà.»
«Janko non teme la tempesta,» rispose lui.
«La nebbia s’infittisce,» replicò di nuovo quella voce di donna, con una nota triste.
«Nella nebbia è più facile scansare le navi di guardia,» fu la risposta.
«E se affoga?»
«Be’, che importa? Domenica andrai in chiesa senza il nastro nuovo!»
Seguì un silenzio. Una cosa, però, mi sorprese: il cieco aveva parlato con me in dialetto ucraino, e ora si esprimeva in puro russo.
«Vedi, ho ragione,» disse di nuovo lui, battendo le mani; «Janko non teme né il mare, né i venti, né la nebbia, né i guardiani. Ascolta: non è lo sciacquio dell’acqua, non mi sbaglio, io; sono i suoi lunghi remi.»
La donna balzò in piedi e si mise a scrutare nella lontananza, con aria inquieta.
«Tu vaneggi, cieco,» disse, «non vedo niente!»
Lo confesso: quantunque mi sforzassi di distinguere laggiù qualcosa che assomigliasse a una barca, neanch’io vedevo nulla. Passò così una decina di minuti. Ed ecco apparve, tra montagne di onde, un punto nero, ora più grande, ora più piccolo. Sollevandosi lenta sulla cresta delle onde, e discendendone veloce, una barca si avvicinava alla spiaggia. Coraggioso quel barcaiolo, che osava attraversare, in una notte simile, uno stretto di una ventina di verste!, e ben importante doveva essere la ragione che lo spingeva a farlo.
In questi pensieri, osservavo la povera barchetta, con un involontario palpito del cuore. Ma quella si tuffava come un’anitra e poi, sbattendo i remi come ali, balzava su dall’abisso fra spruzzi di spuma. Mi pareva già di vederla infrangersi violentemente contro la riva... Invece si girò di fianco disinvolta, sgusciando via incolume dentro una piccola insenatura.
Ne balzò fuori un uomo di mezza statura, con un berretto di montone alla tartara. Fece un segno con la mano e tutti e tre si accinsero a scaricare qualcosa dalla barca: quel carico era così grande che, ancor oggi, non so capacitarmi come la barca non fosse affondata.
Portando sulle spalle un fagotto per ciascuno, si avviarono lungo la riva. Presto li persi di vista. Bisognava tornare a casa; ma, lo confesso, tutte quelle stranezze mi avevano turbato e aspettavo impaziente il mattino.
Il mio cosacco fu molto sorpreso allorché, risvegliandosi, mi vide già completamente vestito. Io però non gliene spiegai la ragione.
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Per qualche tempo mi deliziai a contemplare dalla finestra il cielo azzurro, sparso di nuvolette sfilacciate. La riva della Crimea si stendeva laggiù come una fascia lilla: nel fondo, una rupe, in cima alla quale biancheggiava la torre del faro. Mi recai poi alla fortezza di Fanagorija a chiedere al comandante l’ora della mia partenza per Gelendžik.
Ma, ahimè! il comandante non mi poté dir nulla di preciso.
Tutte le navi in porto erano o guardacoste o mercantili. Queste ultime non avevano neppure cominciato a caricare.
«Può darsi che fra tre o quattro giorni arrivi il postale,» disse il comandante. «Allora vedremo.»
Tornai a casa irritato e di malumore. Il mio cosacco mi venne incontro sulla porta. Aveva la faccia spaventata.
«Male, Vostro Onore!» mi disse.
«Sì, fratello, lo sa Iddio quando ce ne andremo di qua!»
Sentendo questo, si mise ancor più in agitazione. Chinandosi, mi sussurrò all’orecchio: «Qui c’è sotto del marcio... Ho incontrato oggi un maresciallo del Mar Nero. Lo conosco, l’anno scorso era nel mio reggimento. Quando gli ho detto dove stiamo, mi ha risposto: “C’è sotto del marcio, fratello!, non sono brava gente! E, a dir la verità, che razza di cieco! Va dappertutto, solo, a comperare il pane al mercato e a prendere l’acqua... Si vede che qui non ci fanno caso”.
«E allora? La padrona, almeno, si è fatta vedere?...»
«Oggi. Mentre eravate fuori, è venuta una vecchia con sua figlia.»
«Quale figlia? Se non ne ha!»
«Lo sa Iddio chi è, se non la figlia! Adesso però la vecchia è nella sua capanna.»
Vi andai. Sopra la stufa arroventata stava cuocendo un desinare piuttosto sontuoso per dei poveretti.
In risposta alle mie domande la vecchia protestava che era sorda e non capiva. Che fare? Mi rivolsi al cieco. Seduto davanti alla stufa, buttava nel fuoco dei ramoscelli secchi.
«Ehi, tu, diavoletto d’un cieco,» di...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. INTRODUZIONE
  4. CRONOLOGIA
  5. BIBLIOGRAFIA CRITICA ESSENZIALE
  6. PREFAZIONE DELL'AUTORE
  7. PARTE PRIMA
  8. PARTE SECONDA - DIARIO DI PEČORIN