Le anime morte
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Le anime morte

  1. 476 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Affresco grandioso e sconvolgente della Russia di metà Ottocento, Le anime morte intreccia passaggi lirici, particolari surreali e romantici, dimensioni metafisiche e macabre, dialoghi comici, iperbolici e funambolici artifici stilistici. Vi sfila una galleria di personaggi appartenenti a tutte le classi sociali, le cui anime sono moralmente morte, ancor più dei servi deceduti e comperati da Čičikov per ottenere le assegnazioni di terre concesse a chi dimostrava di possedere un certo numero di servi della gleba. Solo una commedia grottesco-satirica poteva descrivere questa ottusa società di proprietari terrieri, contadini e funzionari, immersa in una palude di stupidità e pigrizia provinciale, di mediocrità e pochezza morale. Un capolavoro in cui Gogol', con la sua anarchica energia vitale, infonde l'essenza del carattere russo e, al tempo stesso, sfiora gli orrori nascosti nel profondo di tutti noi.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2018
Print ISBN
9788804688648
eBook ISBN
9788852090639
Argomento
Letteratura
Categoria
Teatro

PARTE PRIMA

Capitolo primo

Nel portone di un albergo della città di NN,1 capoluogo di governatorato, entrò una piccola brička2 a molle, piuttosto bella, di quelle in cui di solito viaggiano gli scapoli: tenenti colonnelli a riposo, capitani in seconda, proprietari con circa un centinaio d’anime contadine, in una parola, tutti quelli che s’è soliti definire signori di medio calibro. Nella brička sedeva un signore, non bello, ma nemmeno sgradevole d’aspetto, né troppo grasso, né troppo sottile; non si poteva certo dire che fosse vecchio, ma, d’altronde, nemmeno che fosse troppo giovane. Il suo ingresso non produsse in città il minimo scalpore e non fu accompagnato da alcunché d’insolito; solo due mužikì russi, fermi accanto alla porta della bettola di fronte all’albergo, fecero certe osservazioni, rivolte d’altronde più alla vettura che a colui che vi sedeva dentro. «Guarda un po’», disse uno all’altro, «va’ che ruota! Che pensi, ci arriverebbe quella ruota, nel caso, fino a Mosca, oppure non ci arriverebbe?» «Ci arriverebbe» rispose l’altro. «Ma a Kazàn’, penso io, non ci arriverebbe?» «A Kazàn’ non ci arriverebbe» rispose l’altro. Con questo la conversazione ebbe termine. E ancora, quando la brička si stava accostando all’albergo, incrociò un giovanotto in un paio di pantaloni bianchi di tela felpata, assai stretti e corti, con una marsina che aveva grandi pretese d’essere alla moda, sotto alla quale s’intravedeva una pettorina fermata da una spilla di Tula con una pistola di bronzo. Il giovanotto si voltò, diede un’occhiata alla vettura, trattenne con la mano il berretto che un colpo di vento era lì lì per far volare via, e se ne andò per la sua strada.
Quando la vettura fu entrata nel cortile, il signore venne accolto dal servo della locanda, o polovòj, come vengono chiamati i servi nelle locande russe, un tipo vivace e sempre in movimento, al punto che non si riusciva nemmeno a vedere la sua faccia. Questi corse fuori lestamente con un tovagliolo in mano, lungo lungo, in una lunga finanziera di cotonina, che dietro gli arrivava fin quasi alla nuca, scrollò i capelli e condusse lesto il signore su per tutta la galleria di legno, a mostrargli l’alloggio del quale Iddio lo beneficava. L’alloggio era del tipo ben noto; poiché anche l’albergo era del tipo ben noto, ovvero esattamente come sono in genere gli alberghi nelle città capoluogo di governatorato, dove, per due rubli al giorno, i viaggiatori ricevono una stanza tranquilla con scarafaggi che si affacciano da tutti gli angoli come prugne secche, con la porta della stanza accanto sempre sbarrata da un cassettone, e al di là della quale è alloggiato un vicino, uomo silenzioso e quieto ma estremamente curioso, interessato a conoscere tutti i dettagli riguardanti il nuovo venuto. La facciata esterna dell’albergo corrispondeva al suo interno: era molto lunga, a due piani; quello inferiore non era intonacato ed era rimasto in mattoni rosso scuro, resi ancor più scuri dai repentini mutamenti del tempo e già di per sé piuttosto sudici; quello superiore era dipinto dell’eterna tinta gialla; in basso c’erano botteghe di gioghi, cordami e ciambelle. Nella bottega d’angolo o, per dir meglio, nella finestra, trovava posto un venditore di sbiten’3 con un samovàr di rame rosso e una faccia rossa come il samovàr, tanto che da lontano si sarebbe potuto pensare che alla finestra i samovàr fossero due, se uno di essi non avesse avuto una barba nera come la pece.
Mentre il signore appena arrivato esaminava la stanza, furono portate dentro le sue cose: innanzitutto una valigia di pelle bianca, alquanto sciupata, e che dimostrava di non essere al suo primo viaggio. La valigia fu portata dentro dal cocchiere Selifàn, un ometto basso in tulupčik,4 e dal domestico Petruška, un giovanotto sulla trentina che indossava un’ampia finanziera usata, evidentemente smessa dal barin, un giovanotto d’aspetto un poco imbronciato, con labbra e naso assai prominenti. Dopo la valigia vennero portati dentro un cofanetto di mogano con intarsi in betulla di Carelia, delle forme per stivali e una gallina arrosto avvolta in carta blu. Quando tutto questo fu portato dentro, il cocchiere Selifàn si diresse verso la stalla per occuparsi dei cavalli, mentre il domestico Petruška si diede a sistemarsi nella piccola anticamera, una sorta di canile molto buio, dove aveva già fatto in tempo a trascinare la mantella e insieme a essa un certo suo odore particolare, che s’era attaccato anche a un sacco portato dentro subito dopo e contenente vari oggetti della toletta servitoresca. In quel canile egli adattò a una parete uno stretto lettino a tre gambe, dopo averlo ricoperto con una misera parvenza di pagliericcio, schiacciato e appiattito come una frittella, e forse altrettanto unto, che gli era riuscito d’estorcere al padrone dell’albergo.
Intanto che i servi si davano da fare sbrigando le loro faccende, il signore si diresse verso la sala comune. Come siano queste sale comuni, qualsiasi viaggiatore lo sa molto bene: le solite pareti, tinteggiate con pittura a olio, scurite verso l’alto dal fumo della stufa e lucidate in basso dalle schiene d’ogni specie di viaggiatori, ma ancor più dei mercanti indigeni, poiché i mercanti, nei giorni di fiera, venivano qui a gruppi di sei e a gruppi di sette a bersi il ben noto paio di tazze di tè; il solito soffitto affumicato, il solito lampadario annerito dal fumo con una quantità di vetrini pendenti, che ballonzolavano e tintinnavano ogni qualvolta il polovòj correva sull’incerato consunto, dimenando ardito il vassoio sul quale era appoggiato un nugolo di tazzine da tè, come uccelli sulla riva del mare; i soliti quadri a tutta parete, dipinti con colori a olio; in una parola, tutto, qui, era uguale a qualsiasi altro luogo; con l’unica differenza che in un quadro era raffigurata una ninfa con degli enormi seni, quali il lettore non ha probabilmente mai avuto occasione di vedere. Un simile scherzo della natura, d’altra parte, capita di incontrarlo in vari quadri storici, i quali, s’ignora quando da dove e da chi, sono stati portati da noi in Russia, talvolta persino da certi nostri alti dignitari, amanti delle arti, che li avevano acquistati in Italia su consiglio dei postiglioni incaricati di scarrozzarli di qua e di là. Il signore si levò il berretto e svolse dal collo la sciarpetta in seta dai colori iridati, di quelle che all’uomo ammogliato la consorte confeziona con le proprie mani, fornendo anche le dovute istruzioni su come avvilupparcisi, mentre allo scapolo non posso davvero dire chi gliele faccia, Dio solo lo sa: sciarpette come quelle io non ne ho mai portate. Svoltolata la sciarpetta, il signore diede ordine di servirgli il pranzo. E mentre gli servivano i vari piatti tipici da locanda, quali: zuppa con sfogliata, appositamente tenuta in serbo per i viaggiatori da alcune settimane, cervella con piselli, salsicce con cavoli, pollastra arrosto, cetrioli in salamoia, e l’eterno pirozëk di sfoglia dolce, sempre pronto; mentre gli veniva servito tutto ciò, vuoi riscaldato vuoi semplicemente freddo, egli costrinse il servo, o polovòj, a raccontare ogni possibile sciocchezza su chi avesse gestito la locanda in precedenza, e chi la stesse gestendo al momento, e se dava una buona rendita, e se il padrone era una gran canaglia; al che il polovòj rispondeva, secondo la consuetudine: «Oh, un gran briccone, signor mio». Come nell’illuminata Europa, così nell’illuminata Russia vi sono attualmente moltissime persone rispettabili che non possono mandar giù un solo boccone in una locanda senza scambiare due parole col servo, talvolta persino pigliandolo scherzosamente in giro. D’altronde il nuovo venuto non si limitò a porre futili domande; con estrema precisione domandò chi, in città, fosse il governatore, chi il presidente del tribunale, chi il procuratore, insomma, per farla breve, non lasciò perdere un solo činovnik di rilievo; ma con ancor maggiore precisione, e addirittura con trasporto, fece domande su tutti i proprietari di rilievo, si informò su quante anime di contadini possedesse ciascuno, a quale distanza vivesse dalla città, persino che carattere avesse e con che frequenza si recasse in città; fece domande accurate sulla condizione del paese: se non ci fossero state malattie nel governatorato, epidemie, febbri mortali di qualche genere, vaiolo e simili, e il tutto in modo così circostanziato e con una tale precisione che denotavano qualcosa di più d’una semplice curiosità. Nei suoi modi il signore aveva un che di posato, e si soffiava il naso in modo straordinariamente sonoro. S’ignora come riuscisse a far ciò, ma il suo naso risuonava come una tromba. Questo pregio, all’apparenza del tutto innocente, gli procurò tuttavia molto rispetto da parte dell’inserviente della locanda, tanto che questi, ogni qualvolta sentiva quel suono, scrollava i capelli, si raddrizzava ossequioso e, incurvando da quell’altezza la testa, domandava: «Vi occorre qualche cosa?». Dopo pranzo il signore sorseggiò una tazza di caffè e sedette sul divano, dopo essersi sistemato dietro la schiena uno di quei cuscini che nelle locande russe si imbottiscono, invece che di morbida lana, di qualcosa di estremamente simile a mattoni e ciottoli. A questo punto cominciò a sbadigliare e si fece accompagnare in camera dove, una volta coricato, si assopì per un paio d’ore. Dopo che si fu riposato, scrisse su un brandello di carta, dietro richiesta dell’inserviente della locanda, il proprio čin,5 nome e cognome, affinché fosse comunicato a chi di dovere, alla polizia.6 Sul foglietto il polovòj, scendendo le scale, lesse sillabando quanto segue: «Assessore di collegio, Pavel Ivànovič Čìčikov, proprietario, per affari privati». Mentre il polovòj stava ancora decifrando il biglietto, una sillaba dopo l’altra, Pavel Ivànovič Čìčikov in persona si recò a dare un’occhiata alla città, di cui a quanto parve rimase soddisfatto, poiché trovò che non era affatto inferiore agli altri capoluoghi di governatorato: la tinta gialla delle case in pietra saltava agli occhi violenta, mentre quella grigia degli edifici in legno appariva cupa e dimessa. Le case erano a un piano, a due piani e a un piano e mezzo, con l’eterno mezzanino che, a detta degli architetti di governatorato, è tanto grazioso. A tratti queste case sembravano smarrite nel mezzo di una via ampia come un campo, e tra infinite palizzate in legno: a tratti si ammucchiavano tutte, e qui si notava un maggior movimento di gente e una più vivace animazione. Si incontravano insegne quasi cancellate dalla pioggia, con pani a ciambella e stivali, qua e là con calzoni azzurri dipinti o con la scritta di un qualche sarto di Arsavia;7 altrove era la volta di un negozio di berretti e cappelli, con la scritta: «Vasilij Fëdorov, Straniero»; più in là era dipinto un biliardo con due giocatori in marsina, di quelle che da noi, a teatro, vengono indossate dagli ospiti che entrano in scena all’ultimo atto. I giocatori erano raffigurati con le stecche puntate, le braccia rivolte all’indietro e le gambe storte, come se avessero appena fatto un entrechat a mezz’aria. Sotto a tutto ciò era scritto: «Ed ecco il locale». Qua e là, direttamente sulla strada, c’erano dei tavoli con noci, sapone e prjàniki,8 simili a sapone; oppure una bettola, con un grosso pesce dipinto e infilzato su una forchetta. Ma l’insegna più frequente era l’aquila imperiale a due teste, annerita, che ormai è stata sostituita dalla laconica scritta: «Spaccio di alcolici».9 Il selciato era ovunque in cattive condizioni. Egli diede un’occhiata anche al giardino pubblico, che consisteva in certi alberelli esili, attecchiti a stento, con puntelli alla base a forma di triangolo, molto ben dipinti di vernice a olio verde. D’altronde, sebbene questi alberelli non fossero più alti d’un giunco, sui giornali, nel resoconto di una luminaria, era stato scritto come «la nostra città si sia abbellita, grazie alle cure dell’amministrazione cittadina, d’un giardino di alberi ombrosi e ricchi di fronde, che offrono refrigerio nelle giornate torride, e in tale occasione è stato assai commovente vedere come i cuori dei cittadini trepidassero, colmi di gratitudine, e fiumi di lacrime scorressero in segno di riconoscenza per il signor sindaco». Dopo aver interrogato dettagliatamente una guardia sul modo più diretto per raggiungere, all’occorrenza, la cattedrale, gli uffici pubblici e il governatore, egli si recò a dare un’occhiata al fiume che scorreva nel mezzo della città; strada facendo strappò un manifestino inchiodato a un palo, con l’intenzione, una volta tornato a casa, di leggerselo con comodo, accompagnò con una lunga occhiata una signora d’aspetto tutt’altro che sgradevole, la quale camminava sul marciapiede in legno seguita da un ragazzo in livrea militare con un fagottino in mano, e, dopo aver nuovamente abbracciato ogni cosa con lo sguardo, come per imprimersi bene in mente la disposizione dei luoghi, se ne tornò dritto a casa, alla sua stanza, sorretto appena dal domestico della locanda su per le scale. Consumato il tè, sedette al tavolo, ordinò che gli portassero una candela, estrasse il manifestino dalla tasca, l’avvicinò alla candela e si mise a leggere, socchiudendo un poco l’occhio destro. D’altronde, non c’era molto di notevole in quel manifestino: si dava un dramma del signor Kotzebue,10 col signor Poplëvin che recitava nella parte di Rolla, la fanciulla Zjàblova in quella di Kora, mentre gli altri personaggi suscitavano un interesse ancora minore; tuttavia egli li lesse tutti, arrivò persino al prezzo della platea e venne a sapere che il manifestino era stato stampato in una tipografia governativa, quindi lo voltò dall’altra parte per vedere se anche lì non ci fosse qualcosa ma, non avendo trovato nulla, si soffregò gli occhi, arrotolò il foglio con cura e lo ripose nel suo cofanetto, dove era solito raccogliere tutto quel che gli capitava. A quanto pare la giornata si concluse con una porzione di vitella fredda, una bottiglia di vinello frizzante e un buon sonno «a tutto vapore», come si usa dire in certi luoghi del vasto impero russo.
Tutta la giornata successiva fu dedicata alle visite; il nuovo venuto si recò in visita a tutti i dignitari della città. Andò a porgere i suoi ossequi al governatore, il quale, a somiglianza di Čìčikov, non era né grasso né sottile, portava al collo l’Anna11 e si diceva che fosse stato addirittura proposto per la stella;12 d’altra parte, era una gran pasta d’uomo, e a volte ricamava persino sul tulle. Quindi si diresse dal vicegovernatore, dal procuratore, dal presidente del tribunale, dal capo della polizia, dall’appaltatore, dal responsabile delle fabbriche di stato… peccato sia così difficile ricordare tutti i potenti di questo mondo; ma basti dire che il nuovo venuto dimostrò un insolito zelo in fatto di visite: arrivò persino a portare i propri rispetti all’ispettore sanitario e all’architetto della città. E poi ancora a lungo sedette sulla sua brička, meditando chi altri visitare, ma ormai in città di činòvniki non ce n’erano più. Nelle conversazioni con tali potenti signori egli seppe abilmente adulare ciascuno di loro. Al governatore accennò di sfuggita che nel suo governatorato si entrava come in paradiso, le strade erano dovunque di velluto, e quei governi, disse, che sanno scegliere saggi dignitari sono meritevoli di somma lode. Al capo della polizia disse qualcosa di molto lusinghiero riguardo alle guardie municipali; e nelle conversazioni con il vicegovernatore e col presidente del tribunale, che erano ancora soltanto consiglieri di stato, un paio di volte disse per sbaglio «Vostr’Eccellenza»,13 cosa che fece loro un immenso piacere. La conseguenza di ciò fu che il governatore lo invitò a casa sua quello stesso giorno, per una seratina in famiglia, e anche gli altri činòvniki, per parte loro, lo invitarono chi a pranzo, chi per una partitella a boston, chi per una tazzina di tè.
Il nuovo venuto sembrava evitasse di parlar molto di sé: quando lo faceva, si limitava a luoghi comuni infarciti di una palese ritrosia, e la sua conversazione in quei casi assumeva intonazioni alquanto libresche: diceva che egli era un insignificante verme di questo mondo, indegno che ci si occupasse così tanto di lui, che aveva affrontato molte prove nel corso della vita, che nella sua carriera aveva sopportato molto in nome della verità, che aveva molti nemici, i quali avevano persino attentato alla sua vita, ma che ora, desiderando trovare un po’ di quiete, era a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. Cronologia
  5. Glossario
  6. Le anime morte
  7. Avvertenza
  8. PARTE PRIMA
  9. PARTE SECONDA
  10. Note
  11. Copyright