Ma la pura intellezione è dapprima senza contenuto, è anzi puro dileguamento del contenuto; ma, mediante il movimento negativo contro il suo negativo l’intellezione si realizzerà e si darà un contenuto.
HEGEL, Fenomenologia.
Cedimento dell’«opera»
I mutamenti di cui la musica è stata oggetto nel corso degli ultimi trent’anni non sono stati ancor visti in tutta la loro portata. Non si tratta della crisi di cui tanto si parla, che è uno stadio di fermentazione caotico di cui si potrebbe intravvedere la fine e che porterebbe l’ordine dopo il disordine. Il pensiero di un rinnovamento futuro, sia sotto forma di opere d’arte grandi e compatte, sia nella beata consonanza di musica e società , semplicemente rinnega ciò che è accaduto e che si può tutt’al piú soffocare, ma non cancellare dalla storia1. La musica, sotto la spinta della propria coerenza oggettiva, ha dissolto criticamente l’idea dell’opera rotonda e compatta, spezzando l’efficacia collettiva. In verità né la crisi sociale né quella della cultura – nel cui concetto è già compresa la ricostruzione amministrativa – è riuscita a paralizzare la vita musicale ufficiale. Anche nella musica il monopolio della gente capace è sopravvissuto: tuttavia di fronte alla totale dispersione del suono, che si sottrae alla rete della cultura organizzata e dei suoi utenti, tale cultura si rivela una ciarlataneria. Se poi il costume corrente non permette che si stabilisca l’altro tipo di cultura, esso stesso ne incolpa la mancanza di «capacità produttiva»: quelli che stanno fuori sarebbero pionieri, precursori e innanzi tutto figure tragiche. A quelli che verranno dopo, invece, potrà già andar meglio: se si inseriranno opportunamente nella corrente, potrà capitare che li si lasci entrare. Ma quelli che restano fuori non sono certo pionieri di opere future, poiché sfidano addirittura il concetto stesso di capacità produttiva e di «opera». L’apologeta della musica veramente radicale, che volesse appellarsi alla produzione già esistente della scuola schönberghiana, rinnegherebbe ciò di cui vuol farsi paladino. Le sole opere che oggi contano sono quelle che non sono piú «opere»: e questo si può scorgere nel rapporto tra i risultati raggiunti da questa scuola e le testimonianze dei suoi inizi. Dal monodramma Erwartung che dispiega l’eternità dell’attimo in quattrocento battute, dalle immagini della Glückliche Hand che si mutano repentinamente e riassorbono in sé tutta una vita prima che possa stabilirsi nel tempo – da tutto questo è nato Wozzeck, la grande opera di Berg: ma appunto una «grande opera». Anche se è simile all’Erwartung sia nel particolare che nella concezione generale – in quanto rappresentazione di angoscia – e alla Glückliche Hand nell’insaziabile sovrapposizione di complessi armonici – in quanto allegoria della complessa stratificazione del soggetto psicologico – non sarebbe certo stato gradito a Berg il pensiero di aver condotto a compimento, nel Wozzeck, ciò che nei pezzi espressionisti di Schönberg era presente come semplice possibilità . La tragedia, una volta messa in musica, deve pagare lo scotto per la sua pienezza estensiva e per la saggezza contemplativa dell’architettura. Gli schizzi immediati dello Schönberg espressionista vengono qui mediati e diventano nuove immagini emotive, sà che la sicurezza della forma si dimostra un mezzo di assorbimento degli chocs. La sofferenza del soldato, impotente nel macchinismo dell’ingiustizia, si appiana divenendo stile, viene tranquillizzata e avvolta di dolcezza. L’angoscia erompente si fa atta alla forma di dramma musicale, e la musica che rispecchia l’angoscia si adatta, con un’intesa rassegnata, allo schema della trasfigurazione2. Wozzeck è un «capolavoro», un prodotto dell’arte tradizionale. Quello spaurito inciso in trentaduesimi, che richiama tanto l’Erwartung, diventa un Leitmotiv, ripetibile e in effetti ripetuto. Quanto piú lucidamente esso si inserisce nel decorso musicale, tanto piú spontaneamente rinunzia ad esser preso alla lettera e sedimenta in un mero veicolo d’espressione, in quanto la ripetizione lo rende innocuo. Chi magnifica il Wozzeck come uno dei primi risultati duraturi della musica moderna, non sa quanto la sua lode comprometta un lavoro che già soffre di senilità . Prima di tutti gli altri, Berg ha sperimentato con grande arditezza i nuovi mezzi su lunghe durate di tempo: la ricchezza e la varietà dei caratteri musicali è nel Wozzeck inesauribile, e la grandiosità della disposizione architettonica le si dimostra pari in tutto. Nella compassione crudamente espressa dal suono, vigila un valoroso disfattismo. Eppure il Wozzeck riassorbe in sé la propria posizione di partenza proprio nei momenti in cui la sviluppa. Gli impulsi dell’opera, quali vivono nei suoi atomi musicali, si ribellano contro l’opera stessa: non tollerano il risultato. Il sogno di un possesso artistico duraturo non viene soltanto turbato dall’esterno dalla minacciosa condizione sociale, ma vien meno anche per effetto della tendenza storica dei mezzi stessi. Il procedimento creativo della musica moderna mette in discussione ciò che molti progressisti si attendono da lei: immagini compiute, che si possano ammirare una volta per tutte nei musei musicali, vale a dire nei teatri e nelle sale da concerto.
Tendenza del materiale
Presupporre una tendenza storica dei mezzi musicali contraddice la concezione tradizionale del materiale musicale, definito fisicamente – o comunque secondo criteri di psicologia musicale – come concetto comprensivo di tutte le sonorità disponibili di volta in volta per il compositore3. Ma il materiale compositivo differisce da queste quanto il linguaggio parlato differisce dai suoni che gli stanno a disposizione. Esso si restringe e si amplia nel corso della storia, e tutti i suoi tratti specifici sono risultanti del processo storico. Essi portano in sé la necessità storica con tanto maggior compiutezza quanto meno possono essere decifrati come risultanti storiche piuttosto che nella loro immediatezza. Nel momento in cui non si può piú riconoscere l’espressione storica di un accordo, esso esige concisamente che quanto lo circonda tenga conto delle sue implicazioni storiche, che son divenute una sua qualità . Il significato dei mezzi musicali non traspare nella loro genesi, eppure non è possibile separarlo da questa. La musica non conosce il diritto naturale, e per questo qualsiasi psicologia della musica è tanto discutibile. Essa, nel tentativo di portare la musica di ogni epoca a una «comprensione» invariabile, presuppone la costanza del soggetto musicale: ma questa è legata alla costanza del materiale naturale piú strettamente di quanto vorrebbe pretendere la differenziazione psicologica. Ciò che quest’ultima descrive gratuitamente e con insufficienza, va ricercato riconoscendo le leggi di moto del materiale, a causa delle quali non tutto è possibile in ogni tempo. Certo non si deve affatto attribuire al materiale sonoro in sé, e neppure a quello filtrato attraverso il sistema temperato, un diritto ontologico di essere, come accade ad esempio nell’argomentazione di chi, sia dalle relazioni dei suoni armonici, sia dalla psicologia dell’orecchio, vuol dedurre che l’accordo perfetto è la condizione necessaria e universalmente valida di ogni possibile concezione musicale, e che quindi ad esso deve restar legata tutta la musica. Questa argomentazione, fatta propria anche da Hindemith4, non è che una sovrastruttura buona per tendenze compositive reazionarie. Per smentirla basta osservare che un udito sviluppato è in grado di afferrare i piú complicati rapporti di suoni armonici con altrettanta precisione di quelli piú semplici, senza per questo provare una necessità di «risoluzione» delle presunte dissonanze. Anzi, contro le risoluzioni si ribella spontaneamente, avvertendole come una ricaduta in modi piuttosto primitivi: esattamente come avveniva nell’èra del basso numerato, quando le successioni di quinte venivano proibite come una sorta di regresso arcaico. Le esigenze poste al soggetto dal materiale provengono piuttosto dal fatto che il «materiale» stesso è spirito sedimentato, qualcosa di socialmente preformato dalla coscienza stessa dell’uomo: e tale spirito oggettivo del materiale, inteso come soggettività primordiale e dimentica della sua natura, ha le sue leggi di moto. Avendo la stessa origine del processo sociale, ed essendo costantemente compenetrato dalle tracce di questo, ciò che sembra puro e semplice automovimento del materiale scorre nello stesso senso della società reale, anche dove entrambi non sanno piú nulla l’uno dell’altra e si muovono guerra a vicenda. Per questo la lotta dialettica del compositore con il materiale è anche lotta con la società , proprio nella misura in cui quest’ultima ha migrato nell’opera e non sta piú di fronte alla produzione artistica come un fattore puramente esteriore o eteronomo, nella veste di consumatore o di oppositore. Gli avvertimenti che il materiale trasmette al compositore e che questi trasforma mentre obbedisce loro, si costituiscono in una interazione immanente. Che ai primordi di una tecnica non se ne possano anticipare gli stadi futuri, o per lo meno lo si possa solo in modo frammentario, è comprensibile: ma è vero anche il contrario. Oggi al compositore non stanno affatto a disposizione indifferenziatamente tutte le combinazioni sonore che sono state usate finora. La meschinità e lo stato di logorio dell’accordo di settima diminuita o di certe note di passaggio cromatiche della musica da salotto del secolo XIX, vengono avvertiti anche dall’orecchio piú ottuso. Per l’orecchio tecnicamente esperto poi, questo vago disagio si trasforma in un canone di proibizione. Se tutto non è inganno, egli esclude oggi già i mezzi della tonalità , che è quanto dire quelli di tutta la musica tradizionale; e non tanto perché quegli accordi siano invecchiati o inopportuni, ma perché sono falsi: essi non adempiono piú alla loro funzione. Lo stadio piú progredito dei procedimenti tecnici musicali delinea compiti di fronte ai quali gli accordi tradizionali si rivelano come impotenti clichés. Ci sono composizioni moderne nel cui contesto sono occasionalmente disseminati accordi tonali: ebbene, sono questi accordi perfetti ad essere cacofonici, e non le dissonanze, in rappresentanza delle quali essi possono talora essere addirittura giustificati. Non è del resto solo l’impurità stilistica ad essere responsabile della loro falsità : l’orizzonte tecnico odierno, nel quale gli accordi tonali spiccano esecrabilmente, comprende in sé tutta la musica. E se un contemporaneo lavora solo ed esclusivamente con le armonie tonali, come ad esempio Sibelius, queste ci suonano false, come se fossero enclaves nell’interno della sfera atonale. A tutto questo è peraltro necessario porre una restrizione. Della verità o falsità di determinati accordi non decide il loro apparire isolato, poiché essa può esser valutata solo in rapporto con lo stadio generale della tecnica. L’accordo di settima diminuita, che suona falso alle nostre orecchie nei pezzi da salotto, è giusto e pieno di espressione all’inizio della Sonata op. III di Beethoven5. Esso non è qui ancora una concessione al cattivo gusto e deriva dalla disposizione costruttiva della sonata: inoltre il livello tecnico generale di Beethoven, la tensione tra l’estrema dissonanza a lui possibile e la consonanza, la prospettiva armonica che implica tutti gli eventi melodici, la concezione dinamica della tonalità come insieme, tutti questi fattori insieme conferiscono all’accordo il suo peso specifico, che esso ha perduto attraverso un processo storico irreversibile6. Poiché è ormai estinto, l’accordo di settima diminuita rappresenta, anche se insolito per il suo tempo, una situazione tecnica generale in contraddizione con quella attuale. Anche se la verità o falsità di ogni singolo elemento musicale dipende da tale stadio totale della tecnica, quest’ultimo diviene a sua volta decifrabile solo nelle costellazioni di determinati assunti compositivi. Nessun accordo è sbagliato «in sé», già per il fatto che non esistono accordi «in sé» e che ciascun accordo porta seco l’insieme e anche tutta la storia. Proprio per questo la facoltà dell’orecchio di distinguere il giusto dallo sbagliato è indefalcabilmente legata a quel determinato accordo, e non alla riflessione astratta sul livello tecnico generale. Ma ecco che cosà si muta anche la figura del compositore, perdendo quella libertà a grandi linee che l’estetica idealistica è abituata ad attribuire all’artista. Egli non è un creatore. L’epoca in cui vive e la società non lo delimitano dal di fuori ma proprio nella severa pretesa di esattezza che le sue stesse immagini gli pongono. In ogni battuta che egli osa pensare, lo stadio della tecnica gli si presenta come un problema, con ogni battuta la tecnica nella sua totalità gli chiede di tener conto di lei e di dare la sola risposta esatta che essa ammette in ogni istante. Le composizioni non sono altro che risposte di questo genere, soluzioni di rompicapi tecnici, e il compositore è l’unica persona in grado di decifrarle e di capire la propria musica. Ciò che egli fa, va ricercato nell’infinitamente piccolo e si adempie nell’esecuzione di ciò che la sua musica pretende oggettivamente da lui. Ma per piegarsi a una simile obbedienza il compositore ha bisogno di una disobbedienza totale, della maggiore indipendenza e spontaneità possibili: tanto è dialettico il movimento del materiale musicale.
La critica di Schönberg all’apparenza e al gioco
Questo movimento oggi si è però rivolto contro l’opera compiuta e contro tutto quanto è legato ad essa. Il male che ha colto l’idea di «opera» può derivare da una condizione sociale che non presenta nulla di tanto vincolante e autentico da garantire l’armonia dell’opera autosufficiente. Le difficoltà proibitive dell’opera non si scoprono tuttavia col rimuginarci sopra, ma nell’oscura interiorità dell’opera stessa. Se si pensa al sintomo piú appariscente, al contrarsi della distensione nel tempo – che in musica dà corpo alle opere solo in quanto hanno una durata, – meno che mai se ne può rendere responsabile l’impotenza individuale e l’incapacità di configurazione formale. Nessun’opera potrebbe dimostrare meglio delle piú brevi frasi di Schönberg e di Webern compattezza e consistenza di raffigurazione formale. La loro brevità deriva appunto dalla pretesa della piú alta consistenza: questa vieta il superfluo, e si ribella cosà all’espansione nel tempo che sta alla base della concezione dell’opera musicale fin dal secolo XVIII, in ogni caso comunque da Beethoven in poi. L’opera, il tempo e l’apparenza vengono duramente colpiti. La critica dello schema estensivo si incontra con quella contenutistica della frase e dell’ideologia: la musica, coagulata nell’attimo, è vera in quanto esito di un’esperienza negativa. Essa riflette il dolore reale7. La musica nuova demolisce con questo spirito gli ornamenti, e di conseguenza le opere simmetrico-estensive. Tra gli argomenti che vorrebbero spedire lo scomodo Schönberg nel passato del romanticismo e dell’individualismo per poter con coscienza migliore servire al funzionamento di collettivi vecchi e nuovi, il piú diffuso è quello che bolla lui come «musicista dell’espressivo» e la sua musica come «esasperazione» del principio d’espressione divenuto ormai caduco. Non v’è certo bisogno di negare la sua origine nell’espressivo wagneriano, né gli elementi tradizionalmente «espressivi» delle sue opere giovanili, due constatazioni che si son sempre dimostrate perfettamente inutili. Conta invece che l’espressivo di Schönberg, dal momento della scissione e comunque già con i Tre pezzi per pianoforte op. 11 e con i Lieder su testi di George op. 15, se non già fin da principio, è qualitativamente diverso da quello romantico, proprio grazie a quella «esasperazione» che lo pensa fino in fondo. La musica «espressiva» occidentale ha assunto dall’inizio del secolo XVII l’espressione che il compositore assegnava alle sue creazioni – e non solo a quelle drammatiche, come avviene per l’operista –: sente per questo che i moti cosà espressi pretendano di essere immediatamente presenti e reali nell’opera. La musica per il teatro, vera musica ficta, offrà da Monteverdi a Verdi un modo di espressione stilizzato e insieme mediato, che altro non era se non l’apparenza delle passioni. Quando ne usciva, pretendendo una sostanzialità al di là dell’apparenza dei sentimenti espressi, questa pretesa non era legata a singoli moti musicali, che dovrebbero rispecchiare quelli dell’anima, ma era garantita unicamente dalla totalità della forma, che imperava al di sopra dei caratteri musicali e della loro connessione. Ben diversamente stanno le cose in Schönberg. L’unico momento veramente sovvertitore in lui è il mutamento di funzione dell’espressione musicale. Non son piú passioni ad essere simulate, ma sono piuttosto moti corporei dell’inconscio, chocs, traumi, nella loro realtà non deformata, che vengono registrati nel medium musicale. Essi aggrediscono i tabú della forma, poiché questi sottopongono tali moti alla loro censura, li razionalizzano e li traspongono in immagini. Le innovazioni formali di Schönberg erano strettamente legate al contenuto d’espressione, e servivano a farne erompere la realtà . Le prime opere atonali sono «protocolli», nel senso dei protocolli onirici psicanalitici. Kandinsky, nel suo saggio compreso nella prima pubblicazione su Schönberg8, ha chiamato i suoi quadri «nudi di cervelli» (Gehirnakte). Le vestigia di quella rivoluzione dell’espressione sono però gli sgorbi che si insediano, contro la volontà dell’autore, tanto nei quadri che nella musica come messaggi dell’es, disturbano la superficie e, co...