0. Chiudere un occhio, squadrare un foglio: la natura dello «spazio logico».
Ogni manuale, e questo è a suo modo un manuale di geografia, si fonda su di una duplice fiducia: che quello di cui si scrive abbia un ordine e che tale ordine sia riproducibile sulla carta, sulla pagina. Come molti anni fa si veniva messi in guardia: «non si può scrivere un trattato su una realtà che non è fattualmente tratteggiabile» [Maldonado 1971, p. 9]. Ma un libro di geografia non è un libro qualsiasi perché piú di ogni altro esso, anche se l’autore non se ne accorge, si riferisce fin dall’inizio al mondo intero, a quella cosa che, senza piú saperlo, indichiamo ogni volta che allarghiamo le braccia per significare rassegnazione: gesto che si riferisce all’impossibilità del compito che occasionalmente si ha davanti, ma che appunto deriva dal primo originario tentativo, quello di afferrare e portare con sé, nella direzione voluta, la «totalità dei fatti» [Wittgenstein 1922, 1.1] di cui il mondo si compone. Nel gesto, a farvi caso, gli arti non sono perfettamente stesi ma lievemente arcuati, il gomito non è rigido e le dita puntano in avanti rispetto all’asse dell’avambraccio, perché la totalità che si vorrebbe abbracciare ha forma sferica: essa è infatti il globo, la sfera terrestre, la palla, anzi la «balla» dei traduttori moderni di Tolomeo (§§ 4-5), termine che al giorno d’oggi è ancora sinonimo, nel linguaggio corrente, di quel che è fandonia e frottola, oppure uno stato di dionisiaca ebbrezza (§ 2), una sbornia. L’impossibilità diventa in tal modo incredulità, come se soltanto attraverso il ricorso alla fantasia o all’incoscienza potessimo fare i conti con il mondo cosí come davvero esso è.
Per essere il mondo, i fatti devono essere nello «spazio logico» [Wittgenstein 1922, 1.3]. Se i filosofi leggessero i geografi e viceversa, si sarebbe compreso da tempo che tale espressione equivale alla rappresentazione cartografica, alla mappa. Si sarebbe compreso che il Tractatus è l’unico vero manuale di logica cartografica finora scritto, il piú coerente tentativo mai compiuto di comprensione geografica del mondo, fondata cioè sulla riduzione di quest’ultimo a una carta geografica. Da piccoli non ci hanno insegnato nulla. O meglio ci hanno insegnato a fare le cose senza piú avere memoria del loro significato. Nessuno ci ha mai spiegato che le aste, i piccoli artificialissimi segmenti rettilinei con cui siamo stati introdotti al mistero della scrittura, erano le lance dei guerrieri. Nessuno ci ha mai spiegato che ogni volta che squadriamo un foglio con riga e compasso torniamo come Ulisse ad accecare Polifemo, a ridurre il mondo a spazio. Polifemo, il «mostro dal pensiero illogico», rappresenta il mondo prima di ogni ragione, il potere basato sulla pura forza fisica (§ 1). E questo mondo coincide con il globo, con l’enorme e pesante masso che sbarra l’ingresso della grotta e impedisce ai greci di tornare in libertà. Per essi, quando finalmente riusciranno a tornare alla luce, davvero nulla sarà piú come prima, tra loro e il mondo vi sarà qualcosa che prima non c’era: la Terra.
L’aggressione a Polifemo viene sferrata soltanto dopo che il gigante si è allungato al suolo, ebbro di vino e di carne umana, dopo che la sua mole da torreggiante e verticale si è mutata in una estensione orizzontale. Cosí nell’azione vengono in contatto due assi o linee: quella del corpo steso a terra e il palo sorretto da cinque tremebondi esseri umani. Scaglionati lungo l’asta a intervalli regolari, essi costituiscono una vera e propria scala vivente, archetipo e matrice di quella metrica o grafica che ancora oggi distingue una rappresentazione cartografica da un semplice disegno. Ancora oggi le tacche sulla riga, che corrisponde appunto al tronco levigato e reso diritto, rappresentano Ulisse e i suoi compagni, esattamente nell’ordine d’attacco: a un’estremità il capo, e a identica distanza l’uno dall’altro i suoi uomini. Nell’insieme il corpo e il palo allestiscono due semidiagonali a squadra, incentrate sul punto d’incrocio alle loro estremità: per spingere al meglio il legno nell’occhio è necessario un angolo d’una certa ampiezza, e al verso 382 dell’Odissea si dice che il tronco viene «alzato», dunque è lecito supporre che tale ampiezza non sia molto discosta dai 90 gradi. E proprio e soltanto perché l’occhio deve servire da centro che Polifemo è un Ciclope, cioè un essere dall’occhio (o dal viso) circolare, il cui contorno appare già dunque predisposto per la sua funzione, già pronto per la traumatica inserzione che segna la nascita della centralità. Il tronco incandescente «arde» il perimetro dell’occhio e «frigge» le sue radici, dice ancora il testo. In tal modo ogni profondità viene cancellata, di quello che era un globo resta soltanto una piatta distesa. E cosí selvaggiamente enucleato e definito il centro scotta ancora: dentro la circolare assemblea che delimiterà la prima forma di attività politica, cosí come il profilo ideale della città, nessun guerriero o cittadino sarà in grado di occuparne a lungo la posizione, ma dovrà poco dopo cederla a un altro. Il risultato di tale andirivieni sarà quel che chiamiamo «democrazia» (§ 76-79) [Vernant 1966, trad. it. pp. 218-69].
Ma quant’è lungo il tronco d’ulivo? Ulisse comanda di tagliarlo per la lunghezza di due braccia, dice ancora il testo: le sue braccia vien da pensare, dal momento che in tutto l’episodio il palo agisce da protesi del suo corpo. E si tratta in questo caso di braccia ben stese, in asse dalla spalla alla punta delle dita, rigide e diritte il piú possibile, a prefigurazione della sintassi rettilinea (il contrario di quella sferica: § 4) il cui ricorso davvero condurrà alla salvezza. Tale misura è in ogni caso decisiva, perché consente di sviluppare finalmente le due rette del corpo e del tronco nelle due diagonali che per prima tracciamo quando squadriamo un foglio. E permette anche di comprendere che cos’è davvero il compasso. Tagliare un tronco per la lunghezza di due braccia implica anzitutto l’apertura di un paio di braccia, con il conseguente automatico intervento della simmetria tra destra e sinistra propria del corpo umano (§ 50). Ed è proprio tale simmetria a governare il prolungamento in vere e proprie diagonali delle due semidiagonali originarie: il centro resta fisso, ma in tal modo esso diviene l’incrocio di quattro semirette, la seconda coppia delle quali è l’immagine speculare della prima, e va a occupare l’altra metà del foglio, che in tal maniera resta allora completamente attraversato da un vertice all’altro. Dopodiché chi disegna lascia riga e matita, che sono due diverse e distinte versioni del palo d’ulivo, e apre il compasso, che altro non è che le due braccia di Ulisse, ciascuna dotata di una delle due funzioni del tronco acuminato e carbonizzato, pungere e scrivere: il mondo può finalmente trasformarsi nel suo modello, l’introduzione può iniziare.
1. I due nomi della Terra.
La geografia è la descrizione della Terra. Cosí da secoli si ripete. Ma non è cosí, perché nel frattempo ci si è dimenticati della cosa piú importante: che proprio attraverso questa descrizione il mondo viene ridotto alla Terra, la Terra alla sua superficie e quest’ultima a una tavola. Tale definizione implica dunque una triplice trasformazione, che se all’inizio passa inavvertita diventa incontrollabile.
Il mondo è il complesso delle relazioni (sociali, economiche, politiche, culturali) al cui interno si svolge la vita umana. Esso resta quello che già era per gli antichi greci: una gerarchia, un complesso di relazioni di potere, di rapporti d’autorità [Vernant 1962, p. 114]. Piú discutibile è stabilire che cosa sia la Terra, perché ogni definizione sottintende un personale punto di vista. All’inizio dell’era volgare Strabone rimproverò a Eratostene ( che tre secoli avanti era stato il primo a intitolare Geografia un’opera) di aver concepito la Terra non come un geografo ma come un astronomo, preoccupato anzitutto di prenderne le misure come fosse un qualsiasi corpo celeste. Quella che invece nei suoi diciassette libri di geografia Strabone (I, 4, 7; II, 1, 11; II, 1, 41; II, 5, 4; II, 5, 5) descrive non è la Terra nel suo insieme, ma soltanto quella parte che egli conosce e per la quale possiede il linguaggio: qualcosa che nella geografia classica prende il nome di «ecumene», il mondo cosí com’ è conosciuto e abitato, e che nel suo caso coincideva in pratica con le terre attorno al Mediterraneo, al Mar Nero e al Mar Rosso.
Per Carl Ritter, all’inizio dell’Ottocento, la Terra era invece «la casa dell’educazione dell’umanità». Nella sua visione, cioè, le forme della superficie terrestre (le acque, i monti, i deserti) rappresentano un vero e proprio progetto, costituiscono la gigantesca scrittura per mezzo della quale Dio indirizza in maniera pratica la storia degli uomini lungo il cammino della redenzione, verso la salvezza. L’adozione di una prospettiva decisamente religiosa non impedí a Ritter, seguace di Strabone, di essere il geografo piú importante del suo secolo, il fondatore della geografia moderna. Egli chiama la geografia Erdkunde, termine che si può tradurre come «conoscenza storicocritica della Terra», e spiega nel primo dei suoi diciannove volumi che ogni opera scientifica, cioè ogni analisi il piú possibile oggettiva, dipende da un «punto di controllo ideale», si regge su di una scelta di valori assolutamente soggettiva e non scientifica, perché prima di essere scienziati si è uomini che vivono in società. È quello che per Ritter corrisponde al «punto di vista umano», in base al quale però egli è il primo a chiedere alla Terra stessa i criteri per la sua descrizione. Ancora oggi infatti noi la guardiamo come per primo Ritter ci ha insegnato a fare, come un insieme di regioni ognuna caratterizzata da un particolare e specifico complesso di relazioni tra quelle che Ritter distingueva come «dimensione geografica» e «dimensione fisica»: la prima costituita dalla lunghezza e dalla larghezza, dunque corrispondente alle pianure; la seconda imperniata sulla profondità e sull’altezza, e che coincideva perciò con le depressioni e i rilievi (§§ 14, 39) [Ritter 1852, pp. 62, 25-26, 6, 27-28, 72-75]. Nel libro che qui comincia si intende per Terra la base materiale, e perciò visibile, del mondo.
Resta però da spiegare perché tale base debba essere una superficie, da dove cioè provenga la sua forma. Per iniziare a farlo si può richiamare il testo, composto nella prima metà del Duecento, che passa per essere la prima geografia dell’intera Terra in lingua spagnola: la Somiglianza del Mondo. Il titolo dipende dal fatto che l’opera è concepita come una sorta di specchio del mondo [Bull e Williams 1959], e uno specchio riflette soltanto quel che i filosofi definiscono l’aspetto fenomenico delle cose, quel che immediatamente si vede. Si noti, al riguardo, che il primo dei due termini greci di cui il vocabolo «geografia» si compone, Gé, in latino equivale a Gaia, dunque alla Terra che brilla e splende alla luce. L’altro nome, il primo, con cui i greci indicavano la Terra era Ctòn, che in italiano sopravvive soltanto nell’aggettivo «ctonico» che significa sotterraneo, cavernoso: un nome che rimbomba, a porvi ascolto, proprio come l’ambito cui si riferisce.
2. Che cos’è la geografia e chi (e che cosa) è Dioniso.
Tra Gé e Ctòn vi è un’opposizione sistematica: la prima si riferisce alla Terra come qualcosa di evidente cioè chiaro, superficiale, disposto secondo l’andamento orizzontale; la seconda, all’opposto, implica l’invisibilità cioè l’oscurità, l’interno e non l’esterno, la profondità e la verticalità e non l’orizzontalità. La geografia è la descrizione che corrisponde al primo modo, che è appunto quello della visione speculare. Non si tratta perciò dell’unico modo possibile, e nemmeno del piú antico di cui si abbia memoria. Ed esso si paga, ha un prezzo. Un mito ne narra l’origine, quello dell’uccisione di Dioniso, (figlio di Zeus e Persefone dunque anche divinità sotterranea) da parte dei Titani, figli appunto di Ctòn. Proprio perché tali, essi avevano tinto di bianco i loro volti con polvere calcarea, e cospargono di gesso anche il viso del fanciullo divino che dorme. Quando questi, svegliatosi, si guarda allo specchio, stupito non lo riconosce, non si riconosce. Proprio dell’attimo di stupore del dio, della fissità del suo sguardo su qualcosa che è imprevisto e che non ha mai veduto, approfittano allora i Titani, per ucciderlo e farlo in sette pezzi. Come spiegherà, secoli e secoli dopo, l’anonimo compilatore della Somiglianza: il mondo ha la forma di una palla o di un uovo, proprio come la testa di una persona, e il problema della conoscenza consiste nel disarticolarlo nei suoi elementi, nel suddividerlo in parti [Bull e Williams 1959, p. 53].
Come in tutta l’antichità (si pensi soltanto a Cicerone e a Seneca) anche nel Medioevo, dunque, non si credeva affatto che la Terra fosse piatta. Si sapeva benissimo che essa era sferica, contrariamente a quel che, a proposito dei cosiddetti «secoli bui», a partire dall’inizio dell’Ottocento si è cominciato a ritenere [Burton Russell 1991]. Ma non è questo il punto. E nemmeno si tratta di soffermarsi piú di tanto sul fatto che esattamente nel «fare a pezzi il mondo» consisteva la filosofia per un pensatore come Ludwig Wittgenstein. In proposito Strabone (I, 1, 1) è chiarissimo, fin dalla prima riga del primo libro della sua opera: a partire da Omero, e in pratica fino ad Aristotele, tutti coloro che hanno scritto qualcosa erano geografi, e in particolare coloro che ancora chiamiamo filosofi presocratici, e che per Giorgio Colli [1977-80] erano «i sapienti greci». In altri termini: la filosofia è uno sviluppo della geografia, nasce da essa e da essa, che è la forma originaria del sapere occidentale, assume i modelli e le figure del pensiero. Ma come il mito insegna, tutto inizia quando invece di Dioniso, il dio della vita senza interruzioni e limiti, della vita intesa come infinito e indistinguibile (cioè inseparabile) processo [Kerényi 1976], lo specchio riflette il bianco velo di terra che ricopre il suo volto e lo nasconde ai suoi stessi occhi: riflette cioè il suo viso trasformato in una chiara superficie, e proprio perché per la prima volta distinguibile, mai prima vista. Soltanto per effetto di tale trasformazione-sostituzione le spade e i coltelli dei Titani possono entrare in funzione e sezionare la totalità del processo vitale, approfittando dell’attimo che corrisponde alla sua parziale paralisi. E soltanto con tali lame è possibile ottenere i contorni, i limiti, le linee che separano e definiscono le cose, le sezionano e spartiscono, e rendono perciò possibile la nostra vita, che proprio in virtú di tali limitazioni è diversa da quella degli dei.
Dioniso, il dio che oscilla e dondola, che vacilla, è dunque il globo, il mondo. Il gesso è la Terra ridotta a superficie (Gé appunto, da cui il termine stesso deriva) e le lame sono i nostri concetti, piú o meno affilati. Ma all’inventario degli elementi del sacrificio da cui nacque la conoscenza occidentale ne manca ancora uno, il piú importante e sfuggente perché il piú comune. E infatti nessuna versione del mito vi insiste. Si dice soltanto che Dioniso torna in vita perché suo fratello Apollo, il dio della misura, ne ricompone il corpo per volere di Zeus. Non si possono però rimettere insieme le membra senza appoggiarle su di una superficie, che cosí diventa il primo altare: una tavola che, come ogni rappresentazione cartografica, serve soltanto per due sue dimensioni, la lunghezza e la larghezza, e per il fatto di essere il piú possibile piatta. Proprio come lo specchio, che all’inizio della storia riflette la chiarezza e la superficialità di qualcosa che è ancora intero, mentre l’altare è la tavola che, alla fine, impone l’orizzontalità e contiene e ricompone l’intero fatto a pezzi.
3. L’isolario e l’atlante, il luogo e lo spazio.
Sarebbe però ingenuo pensare che la tavola serva soltanto ad accogliere passivamente quel che resta del globo. Essa invece trasforma in maniera decisiva quest’ultimo, e insieme a esso la nostra maniera di entrarvi in relazione. Sulla tavola i pezzi restano tali, ma allo stesso tempo costituiscono un’unità. Ciò è possibile in virtú delle linee che li distinguono e allo stesso tempo li uniscono, ma che soltanto sulla tavola appaiono, e che dunque sono un prodotto di questa, originano da essa oltre che dal taglio delle lame. La ricomposizione consiste nella giustapposizione dei brani, nel metterli l’uno accanto all’altro secondo il modello originale. In tal maniera, anche se non sembra, la natura e il funzionamento del globo risultano radicalmente modificati. Dioniso, racconta il mito, mise incinta Arianna, e da Arianna nacque Dioniso. Allo stesso modo nella mitologia indú, per esempio, il monte Meru, l’asse che sorregge il mondo, ha la propria base nella catena dell’Himalaya. Per il mito insomma le cose stanno l’uno dentro l’altra, come le bambole russe o gli strati di una cipolla, e per questa ragione noi facciamo fatica a distinguerle. La fisica che ne risulta ci appare ridicola, come la pretesa del barone di Münchausen di sollevarsi su dalla sedia afferrandosi per i capelli e tirando forte. Ma nel linguaggio della cibernetica la mossa per cui le cose si annidano dentro altre cose è molto importante, e si chiama ricorsività [Hofstädter 1979, trad. it. pp. 137-47].
Come nel mito, sul globo le cose si dispongono secondo tale relazione, e fin verso la fine del Cinquecento anche la descrizione geografica ancora obbediva, in qualche maniera, a essa. Oggi siamo abituati a suddividere il globo in continenti, cioè in grandi, continue, definite masse di terra, idealmente separate dagli oceani. L’uso anglosassone ne individua, in ordine di grandezza, proprio sette, come i pezzi del corpo di Dioniso: l’Asia, l’Africa, l’America settentrionale, l’America meridionale, l’Antartico, l’Europa e l’Oceania. Esistono suddivisioni diverse da questa, dove per esempio Europa e Asia, che in effetti non sono separate dal mare, formano l’Eurasia. Continente è un termine che significa qualcosa che contiene qualcos’altro, ma a dispetto del suo significato non si richiama a nessuna concezione ricorsiva. Esso inizia ad affermarsi tra Sei e Settecento e s’impone in maniera definitiva nell’Ottocento [Lewis e Wigen 1997, pp. 28-31], in seguito alla sempre maggior circolazione e diffusione degli atlanti. La prima raccolta di carte geografiche con il frontespizio ornato da Atlante che regge il globo venne stampata a Roma nel 1570 da Antonio Lafreri. Prima dell’atlante vi erano soltanto gli isolari, libri composti da carte e descrizioni in cui tutto il globo, a partire dal Mediterraneo, veniva scomposto in isole, in qualcosa cioè che prima di contenere qualcosa era invece, per definizione, contenuto in qualcos’altro, nel mare. Isole venivano considerate tutte le terre emerse, da quelle piccolissime fino a quelle, grandissime, di recente scoperte nell’oceano occidentale (la «terra di Santa Croce», come viene chiamata l’America nell’Isolario di Benedetto Bordone del 1528). E la differenza tra l’atlante e l’isolario è una: nel primo il globo viene trasformato in spazio, nell’isolario al contrario tale trasformazione non è compiuta, e le terre emerse sono ancora considerate come luoghi.
Spazio, bisogna a questo punto precisare, è una parola che deriva dal greco stàdion. Per gli antichi greci lo stadio era l’unità di misura delle distanze, e significava dunque alla lettera un intervallo metrico lineare standard. Ne deriva che all’interno dello spazio tutte le parti sono l’un l’altra equivalenti, nel senso che sono sottomesse alla stessa astratta regola, che non tiene affatto conto delle loro differenze qualitative. Tale regola è quella rappresentata dalla scala, che dal Cinquecento inizia ad apparire sistematicamente sulle carte [P. D. A. Harvey 1985], e indica il rapporto tra le distanze lineari del disegno e quelle che esistono nella realtà. Luogo, al contrario, è una parte della superficie terrestre che non equivale a nessun altra, che non può essere scambiata con nessun altra senza che tutto cambi (§ 58). Nello spazio invece ogni parte può essere sostituita da un’altra senza che nulla venga alterato, proprio come quando due cose che hanno lo stesso peso vengono spostate da un piatto all’altro di una bilancia senza che l’equilibrio venga compromesso.
4. La nascita dello spazio.
Equivalente si dice in greco «parallelo», e l’invenzione dello spazio si deve proprio all’introduzione, nella descrizione della Terra, di quel che si chiama il «reticolo geografico», vale a dire della rete di meridiani e paralleli con i quali si cerca di riprodurre sulla carta la curvatura del globo. Tale processo di restituzione si chiama, con un termine moderno, «proiezione», parola che deriva dall’alchimia [Eco 1990, p. 76], e si riferisce alla trasformazione piú straordinaria, quella del vile metallo in oro, appunto assicurata dalla polvere di proiezione. La proiezione cartografica si fonda su una regola matematica che consente di determinare la corrispondenza sulla superficie piana della carta di uno e un solo punto per ogni punto determinato sul globo dall’intersezione di un meridiano con un parallelo [Fiorini 1881; Snyder 1993]. In altri e piú immediati termini, essa equivale davvero a una formidabile metamorfosi, trasformare in maniera coerente qualcosa che ha tre dimensioni in qualcosa che ne ha due, sottrae una dimensione alla Terra. Tale sottrazione è resa necessaria dal fatto che la sfera e il piano sono l’un l’altro irriducibili perché le loro superfici non hanno le stesse proprietà: la prima è rotonda e finita, il secondo è al contrario aperto, e le sue linee non sono affatto chiuse [Reichenbach 1957, p. 59]. Di conseguenza, soltanto quest’ultimo, vale a dire la rappresentazione cartografica, consente l’infinito processo e l’ininterrotta espansione che, sotto ogni riguardo, caratterizzano in particolare l’epoca moderna e la cultura occidentale.
Il primo ad affrontare il problema d...